Era due anni e mezzo fa, non una vita. Nervi a fior di pelle, urla, l’idea di una rissa incombente e Carlo Tavecchio eletto presidente della Figc a dispetto di Opti Pobà, le banane, le donne handicappate, i discutibili appoggi e un’idea di calcio e di rappresentazione delle istituzioni che non corrispondeva alla richiesta di cambiamento che arriva dal basso.
Si pensava: comunque una spinta verso il nuovo c’è, si sta creando un movimento, il calcio ha capito e alla fine del mandato del democristiano di lungo corso appena eletto qualcosa accadrà. Erano giorni di forte polemica, ma drammaticamente vivi: c’era tensione e un confronto su due modi ideali di intendere il calcio. Non era fortissimo il candidato schierato contro Tavecchio (Albertini) infatti l’elezione fu senza sorprese. Ma sarebbe stata una questione di tempo, si pensava. Si trattava di aspettare trenta mesi, sei dei quali peraltro il presidente della Federcalcio li aveva vissuti senza poter mettere piede nelle stanze del pallone europeo e mondiale perché squalificato per le frasi razziste.
Alla fine di questi trenta mesi però Tavecchio è stato rieletto e mancava poco che non ce ne accorgessimo. Paradossalmente è stato rieletto battendo Abodi (54,03 per cento contro 45,97) anche con più fatica dell’agosto 2014, ma non c’è mai stata la percezione della battaglia. Perché non c’è stato uno scontro sugli ideali: la contrapposizione è stata blanda e Tavecchio se l’è giocata benissimo. È un politico navigato, ha anestetizzato il dibattito, spento nel tempo le urla delle componenti di opposizione più pesanti dal punto di vista elettorale utilizzando il suo potere. Nel frattempo ha anche imparato a star attento, a non usare parole di troppo, a non esporsi: ha reso tutto un gioco di palazzo, tenendo così fuori le opinioni esterne, quelle di chi il cambiamento lo reclama, non lo vede e abbandona sfiduciato la nave. Chi spera in un calcio più credibile dell’attuale campionato di serie A, in progetti più rivolti al futuro e in investimenti reali per far crescere il pallone, fermo almeno a due anni e mezzo fa, quando suonava l’allarme e Tavecchio veniva eletto nonostante tutto.
Ma come siamo arrivati a una rielezione che solo trenta mesi ci sembrava implausibile?
Lotito a fari spenti
Uno dei più grandi argomenti a disposizione degli oppositori è stata, sin dalla sua prima elezione, l’eccessiva influenza di Claudio Lotito. Il grande tessitore della prima elezione di Tavecchio non è stato in realtà fermo nemmeno stavolta: ad esempio ha discusso a lungo con Mauro Baldissoni, direttore generale della Roma, una delle poche grosse società rimaste contrarie alla presidenza uscente della Federcalcio, mettendo sul tavolo una frase delle sue: «È un suicidio andare contro. Perché a voi Tavecchio vi ha pure aiutato».
Lotito sembrava scomparso ma ha continuato ad avere il suo ufficio in via Allegri. Ufficialmente è l’ufficio di Beretta, in quanto presidente di Lega, e sempre secondo la versione ufficiale Lotito lo occupa lui perché Beretta non ci va mai. Al di là di ogni giro di parole, però, lui è lì, anche se non se ne parla più. È sparito dai radar, non più con la giacca della Nazionale come a Bari, non più esondante, ma composto. Quando poi, proprio a ridosso delle elezioni, qualcuno ha ricordato a Tavecchio il peso di Lotito e l’ufficio in Figc, lui ha liquidato tutto con una scrollata di spalle, dicendo che a breve al quinto piano del palazzo della Federcalcio ci saranno solo l’ufficio suo e quello di Michele Uva, direttore generale.
La tela per Agnelli
Tenere buono Lotito è senz’altro stato utile per convincere Andrea Agnelli, uno dei nemici più feroci della scorsa elezione. Agnelli aveva parlato di Tavecchio come di «una sconfitta per tanti». Aveva provato a rompere il fronte legato all’advisor Infront, a mettersi a capo di una cordata che partiva dai punti in comune con la Roma, sembrava uno dei soldi blocchi di partenza di agosto 2014: da lì, in qualche modo, sarebbe partito il cambiamento che Tavecchio appena arrivato in Figc non poteva rappresentare. Fino allo scorso ottobre.
Quando all’assemblea dei soci della Juve ha espresso la sua inattesa preferenza: «Dopo due anni e mezzo Tavecchio e il direttore generale Uva hanno una conoscenza della macchina molto superiore, adesso puoi permetterti di gestire con un respiro più lungo. In assenza di alternative questo ticket può dare le migliori garanzie per fare le riforme. Tavecchio peraltro ha espresso con atti e prese di posizione la volontà di smarcarsi da tutor invasivi in precedenza».
Smarcarsi di tutor invasivi, ovvero di Lotito, può bastare a convincere Agnelli? Ovviamente no. C’è un lungo lavoro di Tavecchio con il presidente juventino che porta alla tregua: c’è la Nazionale che torna allo Stadium e forse anche un occhio chiuso su quei due scudetti in più che la Juve sbandiera e la Figc non riconosce. Non solo: c’è l’elezione di Evelina Christillin, juventinissima e parecchio legata alla famiglia Agnelli, nel consiglio della Fifa (l’ultimo italiano era stato Antonio Matarrese, nel 2002) voluta fortemente da Tavecchio. C’è, anche, l’impegno di Tavecchio a introdurre le seconde squadre, tema caro alla Juventus.
In questo il cambio di marcia del presidente federale è visibile sovrapponendo il programma dell’elezione del 2014 e quello attuale. Nel primo diceva che «se le seconde squadre sono un concetto che deve essere ancora verificato e approfondito anche in una prospettiva di comparazione con altre realtà europee, le “seconde proprietà” possono offrire nuove risorse in termini di formazione dei giovani e spesso possono salvaguardare anche importanti realtà calcistiche territoriali altrimenti destinate a scomparire». Un programma che, insomma, favoriva le seconde proprietà care a Lotito, proprietario anche della Salernitana.
Ora, invece, scrive che «oltre alle seconde proprietà e in una prospettiva di riforma complessiva e di risanamento e contenimento numerico dell’intero settore professionistico, occorre definire le modalità di funzionamento delle “seconde squadre”. Dalla recente stretta collaborazione con la Federazione tedesca ho tratto spunti interessanti per la fattibilità del progetto». L’idea di Tavecchio è di mettere le seconde squadre nella terza serie (la LegaPro), come fa la Federcalcio tedesca.
In ultimo, ma solo per avere il rullo di tamburi a sigillare un accordo difficile ma forse fondamentale per la rielezione, c’è la possibilità di trovare un compromesso sulla causa per Calciopoli. La Juve non sembra averci rinunciato, Tavecchio finge che a occuparsene debba essere il Consiglio Federale, ma la svolta di Agnelli è troppo forte per non avere questo grande fine.
C’erano una volta le catene di Uliveri
L’Assoallenatori ha votato per Tavecchio. L’Assoallenatori, nel sistema elettorale della Figc, che prevede il voto ponderato, ha 26 delegati che valgono il 10 per cento. Ora immaginate se l’Assoallenatori avesse votato per Abodi: avremmo un nuovo presidente federale, il regno di Tavecchio sarebbe caduto. Ma c’è un motivo per cui lo sforzo d’immaginazione nel vedere gli allenatori contro Tavecchio non viene difficile.
Renzo Ulivieri, confermato di recente alla presidenza dei tecnici italiani per il quarto mandato consecutivo, è stato sempre un feroce oppositore del presidente della Figc. Ha votato per Albertini nelle scorse elezioni, è quello che quando Tavecchio ha detto frasi sgradevoli contro ebrei e gay ha replicato con veemenza: «Il presidente di una federazione non dovrebbe usare un simile linguaggio. Certe frasi non dovrebbero mai essere pronunciate da nessuno, figuriamoci se a farlo è il presidente della Figc» e prima ancora, in campagna elettorale, era stato durissimo: «La frase sulle banane di Tavecchio rientra nella sua quotidianità, il linguaggio è quello. Tavecchio secondo noi è inadeguato a ricoprire quel ruolo. Ha un occhio solo, quello imprenditoriale. Il calcio femminile nelle sue mani sta morendo. Se dovessi dargli un consiglio mi rivolgerei come ha fatto sua moglie: “Ma chi te lo ha fatto fare?”. Ognuno deve essere consapevole dei propri limiti e della propria inadeguatezza».
Ma cosa ha spinto Ulivieri a passare dall’essere l’uomo che nel 2011 si incatenò davanti alla Figc per protesta contro una decisione presa dalla Lnd presieduta da Tavecchio a diventare decisivo per l’elezione in Figc della stessa persona che contestava platealmente? A leggere le sue dichiarazioni sembra di vedere Jake in The Blues Brothers, quando inventa scuse incredibili di fronte all’ex fidanzata: «Non ti ho tradito. Dico sul serio. Ero rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C’era il funerale di mia madre. Era crollata la casa. C’è stato un… terremoto. Una tremenda inondazione. Le cavallette».
Occorre seguire tutto con lo stesso spirito con cui si guarda il film, perché il percorso per spiegare il cambio di casacca è tortuoso: «Siccome la contesa è fra due concorrenti che sono espressioni delle leghe e non delle componenti tecniche noi dovevamo fare una valutazione che nasceva da un rapporto che noi intanto avevamo avuto con la Lega dilettanti». Una rottura che si allarga perché Allenatori e Calciatori hanno sempre votato insieme. E invece stavolta per Abodi c’era solo l’Assocalciatori, che si è sentita tradita.
Ulivieri ha proseguito: «So bene che la nostra associazione è spesso andata di pari passo, nelle decisioni principali, con l’Associazione calciatori. Ma non c’è una condizione particolare per cui dobbiamo andare sempre per la stessa strada. Mi spiego: se per esempio Tommasi o Nicchi si fossero candidati alla presidenza federale, li avremmo sostenuti essendo candidature tecniche. Ma essendo quelle di Tavecchio e Abodi candidature che provengono dalle leghe, allora riteniamo di agire con autonomia».
A un certo punto sono finite nel calderone anche le origini di estrema destra di Abodi, per Ulivieri un modo di difendersi dall’accusa di essere l’uomo che ha il busto di Lenin in casa e poi vota per un vecchio democristiano.
La verità però può fare a meno delle capriole: Ulivieri ha scelto di votare Tavecchio per due questioni, la creazione dei centri federali territoriali e un piano pluriennale che assegni ad ogni squadra di calcio un tecnico dotato di patentino. In pratica, quasi 1.500 allenatori impiegati in più rispetto a prima. È una spiegazione molto più semplice, senza cavallette.