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Foto di Mark Blinch/NBAE via Getty Images
NBA Dario Ronzulli 27 maggio 2019 7'

La prima volta dei Toronto Raptors

Come la squadra guidata da Kawhi Leonard ha conquistato le prime Finali NBA della sua storia.

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Per la prima volta nella loro storia, i Toronto Raptors sono in finale per il titolo NBA. Laddove non sono riusciti Vince Carter, Chris Bosh e DeMar DeRozan, ce l’ha fatta Kawhi Leonard. È senza dubbio l’uomo da Riverside il simbolo di questo straordinario traguardo per una franchigia che negli ultimi anni è cresciuta tanto, diventando una forza ad Est, ma mai capace di spingersi oltre una finale di conference e una serie di eliminazioni dolorose, spesso per mano di LeBron James. Ma nell’anno I del post-LBJ, il Nord ha finalmente trovato il suo Re.

🙂 pic.twitter.com/GIiI1kGkkn

— NBA on TNT (@NBAonTNT) May 26, 2019

 

Entusiasmo alle stelle

Kawhi Leonard in questi playoff è stato semplicemente strepitoso, andando 11 volte su 18 partite oltre i 30 punti segnati. Con un Usage altissimo per i suoi standard in carriera – utilizza il 32.1% dei possessi, il secondo dato più alto è il 28.9% di due stagioni fa – ha prodotto numeri straordinari e lo ha fatto in ogni singola serie. Contro Milwaukee ha giocato 41 minuti di media pur convivendo con un problema non da poco al tendine rotuleo del ginocchio destro, tirando con il 44.2% dal campo e sfiorando la doppia doppia di media (29.8 punti e 9.5 rimbalzi). Con lui in campo il Net Rating di squadra è stato di +2.9, mentre quando non c’era è precipitato a -9.8. Queste sono le cifre più significative; poi c’è il peso specifico delle singole giocate, senza andare a scomodare i livelli epici raggiunti da The Shot in Gara 7 contro Philadelphia. Cogliendo fior da fiore si può scegliere:

  • gli 8 punti nel secondo supplementare di Gara-3 quando tutti gli altri non ne avevano più;
  • i 15 punti nel quarto periodo di Gara-5 giocata su un equilibrio sottile sul campo della squadra col miglior record della NBA;
  • il parziale di 10-0 negli ultimi due minuti del terzo quarto di Gara 6, quando i Raptors erano a -12 e non erano mai stati in vantaggio per tutta la partita.

In soldoni: quando c’è stato bisogno di essere leader, di essere il più forte, di essere quello decisivo, Kawhi ha risposto presente. Sempre.

 

 

Non solo canestri, ma anche visione di gioco a beneficio dei compagni (spesso il suo tallone d’Achille). Momento caldissimo di Gara-5: Leonard riceve il passaggio consegnato da Siakam e attacca verso il centro. Malcolm Brogdon è bravo a rimanere su di lui e a non lasciare troppa distanza dopo lo step back. La scelta di Kawhi è quella di non prendersi un tiro che evidentemente non si sente, bensì premiare il lavoro sul lato debole di Marc Gasol t che ha liberato Fred VanVleet oltre l’arco con la complicità di un distratto Khris Middleton. Vanvleet è in serata di assoluta grazia (14/17 dall’arco in tre partite dopo la nascita del figlio) e quel tiro lo mette.

 

 

Nei momenti di scarsa brillantezza di squadra Leonard è stato costretto dagli eventi a prendersi più isolamenti per togliere le castagne dal fuoco. Ma la serie è girata quando il suo apporto offensivo è stato inserito in un contesto dinamico di squadra. Uno dei canestri chiave di Gara-6 arriva dopo una brillante circolazione di palla: blocco alto di Siakam, prima penetrazione di Leonard chiusa dalla difesa, palla di nuovo fuori, altra penetrazione stavolta di Lowry con lo stesso effetto della precedente, palla di nuovo fuori ma stavolta per un tiro aperto che Kawhi non sbaglia. Quando Toronto ha attaccato così, la difesa dei Bucks è andata inesorabilmente in affanno.

 

 

Il manifesto della prepotenza fisica e atletica di Mister K.

 

Tutto ciò però non sarebbe accaduto se i Raptors non avessero di squadra limitato i meccanismi offensivi di Milwaukee fino a renderli inefficaci. Due le chiavi di lettura principali, peraltro collegate tra loro.

 

Quando il ritmo all’interno della singola gara si è abbassato, la banda di Budenholzer ha perso molti punti di riferimento. Abbassare il numero di possessi giocati era fondamentale per Toronto, che nelle prime due partite era stata incapace di stare in campo alla velocità di crociera dettata da Giannis Antetokounmpo e compagnia. Quando poi il timone è stato preso dai canadesi e sono andati tutti più piano, ecco che per i Raptors è diventato più semplice eseguire il piano partita nella propria metà campo, scommettendo anche sulle percentuali dall’arco degli avversari.

 

Intasare l’area il prima e il più possibile evitando così facili penetrazioni o peggio ancora esaltanti transizioni in campo aperto: facile a dirsi, molto più difficile a farsi. Eppure qui Nick Nurse – che, vale la pena ricordarlo, è pur sempre un rookie da capo-allenatore a livello NBA – sapeva benissimo che avrebbe potuto vincere la serie, e così è stato. Senza i punti nel pitturato (in stagione regolare 51.2 ogni 100 possessi, nei playoff 45.4, contro Toronto 41.9, in Gara-6 32.2) e con molti contropiedi stroncati sul nascere, uno dei migliori attacchi della NBA ha perso alla lunga smalto creatività e fiducia, pagando il difetto di non avere quella creazione nel tiro dal palleggio che diventa sempre più importante con l’avanzare dei playoff.

 

Fiducia che invece ha invaso le vene dei Raptors, a cominciare da quell’autentico spaccadifesa che è stato Fred VanVleet. Non più carneade, non più giocatore di complemento, sempre in uscita dalla panchina ma con la differenza che nei quintetti a fine partita lui c’è sempre stato. La grandinata di triple nelle ultime tre partite hanno costruito il passaggio del turno, ma non deve passare in secondo piano l’abnegazione che il nativo di Rockford ha messo su ogni cambio difensivo, dando un contributo superiore a quello di un elemento navigato come Danny Green. La panchina di Toronto, che spesso è stata accusata di non saper incidere, ha saputo cambiare rotta con lui, Ibaka e Powell. Marc Gasol è stato forse quello che ha sofferto di più difensivamente, ma nei momenti clou ha fatto valere esperienza e QI cestistico (si vedano ad esempio le due triple di Gara-6). Pascal Siakam ha lavorato nell’oscurità togliendo ossigeno a Giannis, e pur in condizioni non perfette ha messo 18 punti (e il libero del +4 a 7 secondi dalla fine) nella partita decisiva. E poi c’è Kyle Lowry, un perfetto secondo violino complementare a Leonard e che si è tolto un branco di scimmioni dalle spalle.

 

 

Un paio di esempi di come i Raptors abbiano difeso come un’unica entità, specie quando l’adrenalina circolava vorticosa. The Greek Freak penetra ma arrivato in post viene triplicato, il che significa che ci sono due uomini liberi. La linea di passaggio pulita però è una sola, quella per Bledsoe. Il closeout di VanVleet è fulmineo e condiziona il tiro dell’ex Sun.

 

 

Qui invece un tentativo di anticipo da parte di Ibaka andato a vuoto innesca un’azione di 5 contro 4 per i Bucks. La priorità allora diventa stringere gli spazi in area e infatti VanVleet e Lowry si abbassano repentinamente creando un quadrilatero con Powell e Siakam. Lopez è bravissimo nel leggere la situazione e servire Brogdon per un comodo tiro piedi per terra. Ma, esattamente come prima, il closeout è repentino e mette fretta al Presidente.

 

 

Dicevamo di Lowry, il perdente nato, bravo giocatore ma poi quando conta davvero sparisce. Ecco, quella narrativa non ha più molto senso di esistere. I Raptors sono impantanati a quota 87 da un paio di minuti abbondanti e i Bucks ne hanno approfittato per tornare a -1. Lowry qui fa una cosa “non da Toronto” che spariglia le carte: attacca nei primi secondi dell’azione. Middleton gli toglie la penetrazione sulla destra una prima volta ma ha il corpo messo malissimo e con le gambe troppo alte, motivo per cui il secondo tentativo di Lowry va a segno. Parabola alzata per evitare la stoppata di Lopez et voilà: canestro del +3.

 

Il crollo dei Milwaukee Bucks

Miglior record in regular season, miglior difesa della lega, il principale candidato MVP nel roster, un serissimo candidato al premio di allenatore dell’anno, un gioco contemporaneo ed efficace. Tutto questo ai Bucks non è bastato per tornare a quella finale per l’anello che manca dal 1974. A Milwaukee sono mancate troppe cose tutte insieme: la freddezza nel gestire gli ampi vantaggi; un piano efficace per ovviare all’intasamento dell’area da parte dei Raptors; la continuità di rendimento del supporting cast (sì, Eric Bledsoe: stiamo parlando soprattutto di te).

 

Antetokounmpo è stato a tratti maestoso, immarcabile come solo lui sa essere. ma il traffico che si è trovato davanti nelle sue volate verso il ferro troppo spesso lo ha mandato fuori giri. Attorno a lui il solo Middleton è stato realmente una spalla su cui fare affidamento, e neanche per tutte le partite. Gli sprazzi offensivi di Brook Lopez sono stati belli ma annullati dalle lacune mostrate dietro. Malcolm Brogdon si è immolato in marcatura su Leonard e ha fatto quello che ha potuto. Ersan Ilyasova e George Hill dalla panchina hanno alternato cose buone nelle prime gare a cose decisamente meno buone nelle altre. Nikola Mirotic è sparito dalle rotazioni negli ultimi 6 quarti giocati.

 

Ora in casa Bucks si apre la partita sul futuro ed è molto delicata: Middleton, Brogdon, Lopez, Hill e Mirotic saranno tutti free agent e rifirmarli costerà tanti tanti dollari, quasi 100 milioni in più di quelli spesi quest’anno per avere lo stesso identico roster; non rifirmarli, però, significa di fatto ricostruire la squadra da capo e perdere quanto fatto in questa stagione. Antetokounmpo vuole e merita una squadra da titolo, il che significa inserire almeno un altro giocatore in grado di prendersi responsabilità quando le cose si mettono male, specialmente creando dal palleggio nei momenti in cui il sistema non riesce a produrre tiri ad alta percentuale. Come e se ci riusciranno è una domanda alla quale solamente la dirigenza guidata dal General Manager Jon Horst può rispondere, ma sarà imperativo farlo perché la free agency di Giannis è solamente a due anni di distanza.

 

 

Tags : Giannis Antetokounmpokawhi leonardkyle lowryMilwaukee Buckstoronto raptors

Dario Ronzulli è nato a Foggia nel 1982 e da bambino sognava di fare il giornalista sportivo. Ora che è cresciuto lo fa davvero: anni di preziosissima gavetta in radio locali, poi cinque anni a Radio Sportiva e due a Radio Montecarlo Sport. Ora collabora con la redazione basket di Tuttosport e bazzica l'etere bolognese.

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