
Bari-Pisa è il ricordo di una radiolina estiva. 25 agosto 2007, i miei otto anni, la prima partita in serie B, la scoperta senza immagini di Nacho Castillo e di una squadra che quell'anno, guidata da Giampiero Ventura, mi avrebbe fatto divertire come nessuna più.
Bari-Pisa è adesso il San Nicola dal vivo, un’astronave quasi deserta - lasciata vuota dalla curva locale, entrata per contestare società e giocatori e poi uscita - in cui c'è un solo settore pieno zeppo. Uno spicchio di folla in alto, al secondo anello, da cui echeggiano i cori. Sono gli ultimi minuti di partita, il Pisa sta perdendo 1-0, ma il risultato che conta è quello di Reggio Emilia: un 2-1 per i padroni di casa che appare sempre più acquisito, con lo Spezia che dovrebbe ribaltarlo per mantenere viva la corsa per la promozione diretta. In campo nessuno gioca più davvero, e nello spicchio felice l'energia cresce: si canta fino alle lacrime dei più insospettabili, fino all'ultimo rantolo di voce.
Il fischio finale è una formalità, perché il punteggio del Mapei ha già cambiato colore sui telefoni da un paio di minuti. In panchina c’è già stato il boato, in alto già si urla Serie A. Lind scappa verso di noi, poi è il momento della fuga di Touré, che ci mostra i muscoli. Ma è solo quando arriva la squadra intera che parte il coro simbolo di quest’anno, stampato anche sulle magliette della promozione.
Il mio Pisa Sporting Clèb – intoniamo, con rigorosa pronuncia da costa ovest toscana – una vita in mezzo ai guai / non ti lasceremo mai / io che amo solo te. Sono le stesse parole che in quel momento stanno cantando altre migliaia di tifosi all’Arena Garibaldi, assiepati di fronte a maxischermi da lillipuziani; le stesse che risuonavano nelle ultime sere, già di festa, sotto i portici rinascimentali di Piazza delle Vettovaglie, teatro pisano della vita notturna.
È il coro nuovo, quello che ha avuto più successo in una generazione che spesso, per raccontarsi, ricorre al topos dell’avere solo guai, tra quelli che si procura con destrezza e i tanti ereditati con interessi da chi l'ha preceduta. Se da una parte è un po’ un cliché, dall’altra è quasi tutto ciò che i tifosi del Pisa hanno conosciuto in 34 anni di assenza dalla massima categoria. Per molti, il tempo di una vita, o anche di più.
UNA VITA IN MEZZO AI GUAI
La prima immagine che ho del Pisa risale al 28 maggio del 2006. All’Arena Garibaldi arriva la Massese, che ha un gol di vantaggio da difendere nella finale di ritorno dei playout di Serie C1. Sull’1-1 i nerazzurri, nonostante la superiorità numerica, non riescono ad andare in vantaggio: la gente contesta. Dalla gradinata inizia a volare di tutto, piovono in campo decine e decine di seggiolini. L’arbitro sospende la partita e il recupero si estende a lunghezze da mondiali in Qatar: è il 99' quando Eddy Baggio, fratello del Divin Codino, la butta dentro con un colpo di testa e regala una salvezza ormai insperata.
Quel Pisa si chiama Pisa Calcio dal 1994, dalla data del primo fallimento dello Sporting Club. La fine di un’era, quella della presidenza di Romeo Anconetani, che per chi è venuto dopo è assimilabile alla mitologia. I racconti delle due promozioni di Gigi Simoni, il gol di Lamberto Piovanelli della trasferta decisiva a Cremona del 1987, la maglia strappata di Klaus Berggreen contro la Juventus, la rampa di lancio per le carriere di Dunga e del Cholo Simeone.

Una foto difficile da non trovare nei locali dei tifosi.
Ere geologiche lontanissime per chi è cresciuto a pane e Serie C, con il martello di un inno, nato probabilmente già vecchio negli anni ’80, che prima di ogni partita continua ad autoproclamarsi la canzone che riporterà / il Pisa al posto giusto in Serie A. Un atto di fede alla Pascal, più che una speranza razionale.
Ma nel 2007, a un solo anno di distanza, la finale è quella dei playoff. Nel giorno del patrono, ai supplementari Nicola Ciotola segna il raddoppio contro il Monza ed è Serie B.
Arrivano Ventura e tanti nuovi acquisti, e il girone di andata è un’euforia collettiva, perfettamente in scia a Bologna e Chievo in testa alla classifica. Poi gli infortuni, in serie, di un giovane Alessio Cerci e di Vitaliy Kutuzov privano la squadra dei due creatori di gioco. L’anno dopo la rosa perde i suoi pezzi migliori e già prima della retrocessione tira una brutta aria: a fine stagione, per la seconda volta, la società fallisce.
Ecco che il neonato A.C. Pisa 1909 si fa le ossa in Serie D, girovagando per paesi come Mezzolara di Budrio, trascinato da bomber di provincia con nomi dal fascino arcaico come Vitaliano Bonuccelli e vecchie glorie come Marco Carparelli. Viene promosso subito, tornano gli anni della C.
Ma l’incubo fallimento si affaccia un’altra volta, nel 2016. In panchina, Gennaro Gattuso ha appena riportato l’entusiasmo e la Serie B, ma subito dopo ha chiarito: «Me ne vado se resta Petroni», presidente con cui si scontra a muso duro, tanto da arrivare a denunciare apertamente un training camp per bambini organizzato dalla proprietà come "una truffa". Petroni non vuole investire, e tenta di vendere la società a oscuri fondi con sede a Dubai. In città è un’estate turbolenta e paradossale, in cui si parla di clausole finanziarie e di due diligence con lo stesso accanimento e la stessa convinzione con cui si parla di calciomercato.
Qui entrano in gioco gli ultras. Nei tanti anni bui della squadra sono stati loro a generare luce, sugli spalti e fuori dal campo, con tante raccolte fondi di solidarietà, per il Chiapas o per il popolo Saharawi, fino all’ultima per la realizzazione, già in parte attuata, di un parco cittadino con giochi accessibili a tutti, dedicato alla memoria alla memoria del tifoso Maurizio Alberti.
Sono loro che ad agosto protestano e riescono a tenere alta l’attenzione mediatica sul Pisa anche con gesti eclatanti, come quello di occupare alcuni binari della stazione.
È una lunga lotta e una lenta agonia fino al 22 dicembre, quando, finalmente, Giuseppe Corrado rileva la società. Il giorno dopo, l’ex presidente Fabio Petroni viene condannato a 9 anni e 6 mesi per bancarotta fraudolenta.
IL PISA DI CORRADO
I nerazzurri, dopo un inizio travagliato, non riescono a salvare la categoria, ma la sensazione è che stavolta ci sia una serietà nuova. Una serietà che nel gennaio 2021 invoglia Alexander Knaster, miliardario americano innamorato della Toscana, a comprare il 75% delle quote di quello che, di lì a pochi mesi, sarebbe tornato a chiamarsi Pisa Sporting Club. Che nel frattempo è di nuovo - e stabilmente - in Serie B, dal 2019, con Luca D’Angelo in panchina. Nella primavera 2022 si può addirittura pensare al grande colpo, ma prima uno scialbo 0-0 casalingo contro il Cosenza alla penultima di campionato, poi la vendetta del Monza di Silvio Berlusconi in una finale playoff persa ai supplementari negano la gioia.
Il dg Giovanni Corrado, figlio del presidente, dichiara che è solo questione di tempo, ma lo scotto iniziale da pagare è grande. Viene chiamato Maran, ma fa 2 punti in 6 partite e torna D’Angelo. Dall’ultimo posto il Pisa vola in zona playoff, prima di scoppiare però nelle ultime partite.
Nella scorsa stagione la società scommette su Aquilani, che dopo brillanti risultati in panchina con la Primavera della Fiorentina viene raccontato come astro nascente. Arriva in provincia con la pericolosa etichetta di alfiere del bel gioco: all’esordio a Marassi i nerazzurri dominano contro la Sampdoria, ma nel secondo tempo Matteo Tramoni, fin lì mattatore con gol e assist nello 0-2, si rompe il crociato. Privato del suo elemento più tecnico ed estroso, le lunghe trame palla a terra che il Pisa costruisce finiscono spesso per non impensierire gli avversari; l’allenatore fatica a trovare contromisure a partita in corso e alternative in allenamento, gli ultimi minuti difensivi sono spesso un incubo. Sugli spalti si bubbola, e dopo la salvezza raggiunta il campionato scivola via senza ulteriori pretese.
Nonostante un’altra campagna acquisti onerosa da parte della società, la stampa non inserisce il Pisa tra le favorite dell’anno 2024/25. A non dispiacersi è soprattutto Filippo Inzaghi, al ritorno in Serie B: il suo territorio di caccia. Può lavorare in sordina, senza eccessive pressioni. «Sognare non costa nulla», dichiara dal ritiro estivo, mentre già inizia a intercettare la voglia di riscatto che c’è tra i tifosi, a entrare in sintonia emotiva con una città che da 34 anni aspetta il grande evento.
Il primo maggio, nel gol che, di fatto, regala la certezza della promozione ai nerazzurri c’è tutta questa fame. All’Arena Garibaldi è l’ottantunesimo; sullo 0-0 il Frosinone batte una punizione verso l’area di rigore, Calabresi allontana di testa. Kvernadze svirgola il retropassaggio e la palla finisce in fallo laterale nella metà campo opposta, nell’area tecnica casalinga. Mentre Meister corre in avanti, Inzaghi ci si avventa, la raccoglie e la passa rapidamente a Tramoni. Con la mano sinistra sbraccia indicando verso la porta, il danese è in vantaggio sugli avversari e viene servito. La sua progressione di potenza resiste al recupero dei difensori e converge verso l’area piccola. Resta solo da scegliere il primo palo, segnare e correre sotto la curva Nord.
È l’immagine perfetta di una squadra tremendamente verticale, che anche nelle partite più avare di occasioni ha saputo aspettare per poi, dal nulla, colpire dritto al cuore. Una squadra programmata per questo.
Fino a gennaio, il Pisa era nettamente ultimo per possesso palla, con percentuali talebane vicine al 42% (adesso è terzultimo al 45,4%, ma un po’ lo status acquisito e un po’ la natura del girone di ritorno di B hanno ritoccato la percentuale), e per numero di tocchi. Ciononostante, per tocchi nell’area di rigore avversaria, sale al terzo posto complessivo. Un dato spiegabile soltanto con la tendenza a giocare in avanti appena possibile, con tanti passaggi lunghi - come aveva già analizzato Nicola Santolini a ottobre - resi possibili anche dalle caratteristiche fisiche della rosa. Ci sono tanti giocatori fisici, ben distribuiti in tutti i reparti. I nerazzurri sono primi per numero e percentuale di duelli aerei vinti, e ne hanno fatto un cardine della loro fase di costruzione.
Nel 3-4-2-1 asimmetrico di Inzaghi, il lancio alto verso la catena di destra - in cui il quarto è Idrissa Touré, con davanti Stefano Moreo - è stato un elemento programmatico. Sono rispettivamente secondo e settimo in campionato per numero di passaggi aerei vinti; la garanzia delle loro sponde ha permesso spesso di guadagnare metri velocemente.
Sono stati utilizzati sfruttando al massimo le qualità migliori, dando loro un’occasione di rivalsa. Durante la gestione Aquilani, Touré ha visto spesso le partite dalla tribuna, relegato ai margini delle rotazioni per le scarse abilità palla a terra. Quest’anno, invece, il suo strapotere fisico è stato fondamentale, e nel girone di ritorno si è pure trasformato in goleador, togliendosi lo sfizio di una volée bellissima a Cosenza.
Moreo, utilizzato a 360 gradi da un allenatore che lo aveva già esaltato a Brescia, è stato il leader tecnico ed emotivo, la certezza, la presenza più costante. Ha trascinato il suo metro e novantuno per tutto il campo, rendendosi allo stesso tempo il miglior attaccante del campionato per salvataggi difensivi e fulcro del gioco offensivo. È forte sia di testa che palla a terra, dove utilizza in maniera pressoché indifferente sia il destro che il sinistro.
Il 7 dicembre, a Mantova, ha interrotto un digiuno durato sette mesi, costellato di legni rocamboleschi. Sul 2-2, dopo una sponda geniale di Lind (riservata solo a chi ha intuito e pettorali grossi), ha incrociato al volo col mancino verso il palo opposto, poi ha corricchiato verso i tifosi, allargando le braccia come a dire «Ho fatto un gran gol, è vero, ma sono sempre stato qui». Da quel momento c’è stato uno step ulteriore, che lo ha portato a essere decisivo a cavallo della sosta invernale: il momento in cui, rispondendo prima colpo su colpo allo Spezia, poi iniziando a prendere il largo, si è decisa una lotta per la A che fin lì accarezzava addirittura la possibilità di una promozione diretta per le prime tre, dato il solco scavato sulle altre contendenti.
Quando c’era da scuotere la squadra, sono stati i suoi guizzi a districare le situazioni più complicate. Un colpo di tacco nella mischia contro il Bari, gli assist per Tramoni che hanno sbloccato le partite contro Sassuolo e Sampdoria nel doppio turno natalizio. Il primo abbassandosi nel cerchio di centrocampo per ricevere, orientare lateralmente il controllo, alzare la testa e lanciare col sinistro, pur sbilanciato, il taglio del compagno.
A Genova, invece, conducendo un contropiede sulla fascia sinistra, col pallone costantemente incollato al piede destro fino al servizio di esterno, coi giri giusti giusti, per liberare il numero 11.
In quel momento, Tramoni ha calciato di rabbia, scacciando via i fantasmi di una partita in cui era stato assente, dello stadio dove un anno prima si era rotto il crociato. Ma in questa stagione si è ripreso tutto, scoprendo anche un’attitudine nuova: quinto miglior marcatore del campionato, a quota 13, è diventato pure capocannoniere. Davanti alla porta raramente ha sbagliato, ed è difficile non avere la suggestione di qualche consiglio speciale arrivato dal suo allenatore.
Filippo Inzaghi è alla sua terza promozione, la seconda dalla B alla A. Ieri sera, al rientro a Pisa, in un’Arena Garibaldi gremita e festante per quel sogno che non costava nulla, si è presentato con il figlio in braccio; addosso, avvolta attorno a lui come un mantello gladiatorio, una bandiera rossocrociata. Il simbolo della città, la cui identità con la squadra è più forte che altrove.
Davanti a lui una comunità gioiosa, in cui i più attempati hanno rivissuto le emozioni di quando erano giovani e ce le hanno viste scoprire, commossi, dopo avercele tanto raccontate. Contenti che anche noi, nati dopo l’era Anconetani, avremo adesso il grande mito da tramandare a chi verrà dopo, in questa piccola storia infinita che ci si passa tra generazioni.