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La pressione di essere la migliore
08 set 2025
Aryna Sabalenka riesce finalmente a vincere una finale Slam nel 2025.
(articolo)
8 min
(copertina)
Foto IMAGO / NurPhoto
(copertina) Foto IMAGO / NurPhoto
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La pressione è un privilegio. Dei quattro motti degli Slam, quello degli Us Open è il più breve e il meno altisonante. La targa che recita la frase di Billie Jean King è posta sulla destra dell’ingresso delle giocatrici, sovrastata dalle teste degli spettatori. Sullo sfondo, l’Arthur Ashe stadium, il campo da tennis più grande del mondo. Non è pensata per essere un proemio della battaglia, o uno spunto di riflessione: è un promemoria di quello che è un dato di fatto. La pressione (che ti sta inevitabilmente schiacciando in questo preciso istante davanti a quarantaseimila piccoli occhi) è un privilegio (che ti sei guadagnata, ma non farla troppo lunga e gioca). È praticamente impossibile guardarla con intenzione, nell’inferno sensoriale che deve essere l’ingresso nello stadio. Sembra più un cartellone pubblicitario, che una legge passando solo perché sa leggere, senza registrare informazioni volontariamente e però se serve un detersivo si sa inconsciamente cosa comprare.

Magari è messo lì, in un posto in cui non ci si può fermare, per instillare il seme di un pensiero versatile di forza, orgoglio e conforto, antidoto alla paura.

È difficile trovare qualcuno che personifica il motto in questione più di Aryna Sabalenka quest’anno. La bielorussa stava avendo fino a sabato una stagione bipolare. È in testa alla classifica WTA dal 24 ottobre 2024, con un vantaggio di oltre 3000 punti sulla numero due del ranking Iga Świątek. Due finali e una semifinale negli slam: implacabile, furiosa, fino alle fasi conclusive dei tornei, ma incapace di vincere. Almeno nei major, che sono gli unici titoli che contano per una come lei. Per tre volte su tre tentativi si era ritrovata a essere l’ostacolo finale dell’avventura di un’altra. Il più difficile, il più significativo e emozionante, ma solo un ostacolo in storie che non la vedevano mai protagonista.

Le tre eroine sgominartici di Sabalenke – Madison Keys, Coco Gauff, Amanda Anisimova – potevano raccontare le loro storie di vittoria e tenacia e rinascita. Mentre la numero uno del mondo al massimo, quando non scompariva del tutto dalla narrazione, si ritrovava a essere la cattiva. Come dopo la finale del Roland Garros, quando aveva detto della sua avversaria Coco Gauff: «Ha vinto il match non perché ha giocato in modo incredibile, ma perché stavo facendo tanti errori su palle facili […] Se Iga (Świątek, ndr.) avesse vinto contro di me oggi avrebbe vinto». O in parte, dopo la sconfitta in semifinale da Amanda Anisimova, criticata in conferenza stampa dalla bielorussa per delle esultanze giudicate inopportune.

Dietro ogni critica alle avversarie si nascondeva (male) un rapporto malsano con la sconfitta, dettato anche dalle aspettative che ha di se stessa. «Perdere fa schifo, sai? Ti senti che vuoi morire, che non vuoi esistere più, che questa è la fine della tua vita». E tutto quello che le restava in eredità da quelle esperienze dolorose erano i punti che lei aggiungeva alla sua scorta come un animale che si prepara al letargo, ogni mese sempre di più, sempre più lontana dalle altre.

Momento iconico lasciato ai posteri.

Che cos’è una numero uno senza slam (in stagione, s’intende: Sabalenka ne ha già vinti tre da top cinque)? Risuonano nella mente le parole di Serena Williams nel 2009 in conferenza stampa dopo la vittoria a Wimbledon, che l’aveva resa campionessa in carica di tre slam in un anno solare da numero due del ranking. Un giornalista le aveva chiesto se fosse motivata a tornare al numero uno al mondo: «Non sono super motivata, voglio dire se hai vinto tre titoli del grande slam forse dovresti essere la numero uno, ma non nel circuito WTA ovviamente. La mia motivazione è di vincere un altro slam e rimanere numero due immagino. Penso che Dinara (Safina, ndr.) abbia fatto un gran lavoro per diventare numero uno: ha vinto Roma e Madrid». L’intera sala era scoppiata in una risata fragorosa, di fronte all’assurdità e alle spalle di Safina, che non avrebbe mai vinto uno Slam in carriera.

Ci sono molte più cose in comune tra Sabalenka e Serena, che non tra lei e Safina in termini di risultati e dominio del circuito. Le americane che l’hanno sconfitta non sono un unico mostro a tre teste detentore degli slam e nessuno metterebbe in dubbio il merito del suo posto in classifica. Ciò non toglie che nella gerarchia delle gesta tennistiche, nessuna posizione del ranking vale quanto uno slam, nemmeno la prima; e fino a sabato i titoli vinti da Sabalenka numero uno al mondo erano Brisbane (WTA 500), Miami (WTA 1000) e – crudelmente – Madrid (WTA 1000).

Gli Us Open erano l’ultima occasione per vincere uno slam, impreziosire il suo primo intero anno da numero uno del mondo, tornare al centro del palcoscenico. Certo, lo scenario era complesso. Lo slam americano era stato il teatro insieme di una delle sconfitte e una delle vittorie più significative della carriera della bielorussa: la prima contro Gauff in finale nel 2023; la seconda l’anno successivo ancora in finale, questa volta con Jessica Pegula.

Ad aspettarla in finale, Amanda Anisimova, la stessa che aveva affrontato in semifinale a Wimbledon un paio di mesi prima. Poteva essere trionfo – come è stato – oppure rovina, l’ultima che mancava per completare il grande slam di broken hearts ad opera di americane.

Anisimova è un’avversaria complicata per chiunque, Sabalenka compresa, come dimostrano i precedenti tra le due in favore della statunitense di sei vittorie contro tre (ora quattro). Per John McEnroe, da (troppi) anni analista per Espn, le due avrebbero uno stile di gioco simile. Probabilmente per McEnroe, che viene pagato da anni per parlare di un argomento che non gli interessa granché come il tennis femminile, le tenniste si possono categorizzare nei due macrogruppi “tira forte” e “corre molto” e tutto sommato tirano forte entrambe.

Tira molto, molto forte Anisimova. Il suo rovescio, uno dei fondamentali più belli di tutto il circuito, in questi Us Open è stato il più veloce di tutti: settantasette (quasi centroventiquattro chilometri) miglia orarie, contro le 76 (circa centoventidue chilometri) di Jannik Sinner. Il suo è un tennis di aggressione costante, di dominio, di coraggio. Dopo il loro incontro in semifinale a Wimbledon, Sabalenka aveva individuato proprio nel coraggio la differenza tra le due quel giorno. Alla vigilia del rematch a New York, la bielorussa era ritornata sulle sue mancanze: «Penso di dovermi fidare di me stessa, devo cercare i miei colpi. Mi sentivo che in quel match a Wimby mettevo molto in dubbio le mie decisioni, e quella è stata la cosa che ha portato tanti errori». Fingendo di non conoscere il futuro, quella di Sabalenka sembra una dichiarazione di guerra ad armi pari sulle righe.

Vista in modo superficiale, il gioco la numero uno del mondo sembra molto meno strategico di quello che in realtà non sia; perlopiù fondato sul suo strapotere fisico. Per chi ne conoscel’ascesa, è evidente che il suo tennis (almeno nelle giornate in cui funziona bene) è fatto di gesti pensati e costruiti. Lo comunica molto bene, con il corpo e con il volto e con i suoni che emette quando colpisce la palla. A differenza della maggior parte dei cosiddetti grunt – tanto odiati e ridicolizzati soprattutto quando sono donne a produrli –, quello di Sabalenka varia in continuazione. Sembra quasi una lingua primitiva, composta di quattro o cinque parole, con cui lei comunica con l’avversaria e con il pubblico, se prova ad ascoltare. Esprime potenza e aggressione, ma anche fatica, aggiustamento, frustrazione.

Quella di sabato, non è stata una Sabalenka furiosa, vendicativa, nemmeno coraggiosa nel modo in cui è coraggiosa Anisimova. È stata una Sabalenka strategica, pronta e sicura delle scelte fatte alla vigilia della partita, paziente. La chiave è stata la gestione dell’aggressione imposta da Anisimova per ritorcergliela contro, con colpi profondi, forzandola a spostarsi. Si è adattata presto alle risposte sui piedi dell’americana, che la costringevano tante volte a rispondere in ginocchio –gesto atletico tipico nel tennis femminile, ma più complicato per una alta e pesante come la bielorussa. Nei momenti di difficoltà, si è difesa sfruttando dei rovesci in back che costringevano la statunitense a cercare un vincente in più, adattandosi a una palla più lenta e lavorata, spesso trovando l’errore per eccesso. Alla fine della partita Anisimova ha prodotto quasi il doppio dei vincenti di Sabalenka. In conferenza stampa le hanno chiesto se avesse la sensazione di avere lei il gioco in mano, viste le statistiche: «Non mi sentivo così, per niente, mi metteva molta fretta, era difficile trovare momentum o ritmo. E certo, sapevo che dovevo essere la giocatrice più aggressiva se volevo vincere, era solo molto difficile oggi. Stavo solo cercando di restare nel match e trovare un modo per renderlo più difficile per lei, però sì gli scambi non erano per niente lunghi e non mi sono resa conto che stavo facendo più vincenti».

La numero uno al mondo è stata coraggiosa, non nel modo in cui lo è Anisimova. Coraggiosa, come aveva detto di non essere stata dopo le partite perse, nell’affidarsi al piano, nel credere di essere la più forte e la più capace. Esaltata, non più consumata, dalla pressione di essere lei l’ostacolo da battere. Coraggiosa come la migliore dovrebbe essere.

Durante la disastrosa cerimonia di premiazione – per colpa delle interruzioni fuori luogo di Mary Carillo che non ce la fa a non far capire a tutti che è di New York – Sabalenka ha guardato per prima Anisimova, ancora in singhiozzi dopo la seconda sconfitta in finale in uno slam nel giro di due mesi: «Lo so quanto fa male, perdere nelle finali. Ma nel momento che vincerai lo capirai. Vincerai, giochi un tennis incredibile. È stata dura quest’anno. In quelle finali ero veramente terribile, ma ne è valsa la pena no? Grazie a tutti».

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