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Sport Fabio Severo 14 luglio 2015 9'

La presa del potere

Come Novak Djokovic è diventato il mostro agonistico che è oggi: solo contro tutti, all’ombra di Federer e Nadal.

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Fino a qualche anno fa Novak Djokovic era considerato soltanto il precoce vincitore di uno slam, l’Australian Open del 2008, il più forte tennista serbo di sempre installatosi nella top ten, ma comunque incapace di ripetere quel primo successo. Caduto in mezzo a narrazioni già costruite, schiacciato tra i padroni Federer e Nadal e con il posto di nuova promessa già occupato da un giovane Andy Murray con il megafono della stampa britannica, Djokovic si è ritagliato a forza un quarto posto nell’élite tennistica mondiale, e dopo un po’ di tempo quel posto è diventato il terzo, poi il secondo e infine il primo, ormai indiscusso.

 

Djokovic ha continuato a crescere in mezzo ai campioni più coccolati, troppo distratti dai loro successi e dai loro obiettivi futuri per intuire l’arrivo di un nuovo rivale. Djokovic saliva in classifica, ma rimaneva sempre sotto di loro, andava avanti negli slam, ma soltanto per sbattere contro i favoriti, sempre quelli, sempre vincenti. Non si guardava con attenzione ai segnali che la sua carriera mandava, al fatto che all’improvviso non scendeva più al di sotto della terza posizione e che nei major arrivava come minimo ai quarti, in fondo era sempre un attaccante da fondocampo meno capace e maturo di Nadal e meno talentuoso di Federer: un buon avversario per ottenere vittorie tirate, ma quasi sempre garantite, uno sparring partner di alto livello.

 

Ma guardando indietro si possono ritrovare tutti i segnali non ascoltati, le avvisaglie di una mutazione non compresa, la trasformazione anno dopo anno di un atleta che ha provato, ha sbagliato, ha imparato e poi ha fatto pagare a tutti quanti le angherie subite nel corso degli anni, ripagando i soprusi uno a uno, adattandosi alle regole del gioco per poi riprendersi tutto quanto, o quasi. Basta guardare alcuni frammenti della sua storia con Federer, sconfitto domenica per la seconda volta consecutiva in finale a Wimbledon, per capire come si è fatto troppo poco, e troppo tardi, per arrestare l’ascesa di Nole. Come non si è capito che si stava nutrendo una rabbia, una fame che si sarebbero rivoltate contro l’ordine costituito.

 

Australian Open 2007, ottavi di finale.

 

Presagi del Nole che sarà

Così, forse, Federer all’epoca si è immaginato che Djokovic sarebbe sempre rimasto un volenteroso diciannovenne che corre molto e colpisce forte, una tempesta in un bicchier d’acqua da gestire nelle fasi in cui spinge di più, concedergli l’occasionale break e poi mettere a tacere con il proprio arsenale infinito. Batterlo da fondo, batterlo al servizio, sorprenderlo a rete, passarlo inesorabilmente quando si permette lui di avvicinarsi per colpire al volo. Poi dopo la vittoria gli dai una pacca e lo inviti a stringere la mano dell’arbitro prima di te, col fare secco di chi conosce le procedure meglio del proprio avversario, giovane ancora un po’ spaesato.

 

Ma già un anno dopo si incontrano di nuovo nello stesso torneo, questa volta in semifinale, e Federer si trova di fronte un altro avversario. Vince Djokovic in tre set, è l’anno in cui vincerà il torneo, e già si intravede la lucida follia del futuro dominatore, che sarà offuscata temporaneamente solo dall’appagamento del trionfo e dalla difficile gestione della propria ambizione.

 

Sul 5-3, mentre Djokovic serve per il secondo set dopo aver vinto il primo, il giudice di sedia Pascal Maria gli infligge un time violation: Djokovic riprende la preparazione per il servizio, e dopo aver fatto rimbalzare la pallina sedici volte mette dentro la prima e chiude con un dritto a metà campo. Lo sguardo che rivolge al giudice di sedia dopo il punto vinto è il presagio dell’agonismo allucinato del Djokovic che verrà, uno sguardo di sfida, fuori luogo, ma comunque aperto, senza aggressività repressa. Dopo altri sedici rimbalzi della pallina serve un ace e vince il secondo set. Poi vincerà anche il terzo set, e poi il torneo.

 

«I still love you guys, don’t worry».

 

Dopo aver battuto Jo-Wilfried Tsonga in tre set nella finale, Djokovic riconosce le preferenze della folla per il giovane francese che in semifinale aveva demolito Nadal giocando una partita meravigliosa, un assolo in cui ha fatto intravedere un futuro da campione. A contendersi il trofeo dunque due esordienti in una finale slam, poco più che ventenni, ma già lì la regolarità di Djokovic ha prevalso nettamente sull’istrionismo di Tsonga. Sette anni dopo sappiamo meglio il perché. «Lo so che il pubblico voleva che vincesse lui», ha detto Djokovic con il trofeo in mano, «ma non c’è problema, vi voglio bene lo stesso, non vi preoccupate». Una rassicurazione che suona quasi come una minaccia.

 

«Be quiet».

 

Il re è ancora vivo

Pochi mesi dopo, Federer rincontra Djokovic in semifinale a Monte Carlo, e sul 3-2 in suo favore viene chiamata fuori una palla di Djokovic. Mentre Federer va a controllare il segno si gira verso la tribuna dove sono seduti i genitori di Djokovic e dice in modo assai seccato: «Be quiet», poi cancella il segno e concede il punto a Djokovic. Il gossip vuole che a Melbourne a gennaio i genitori di Novak cantassero dal loro box: «The king is dead. Long live the king» dopo che Djokovic aveva battuto Federer; ed è curioso ascoltare il telecronista di Monte Carlo commentare: «No love lost between these two», ovvero «non corre buon sangue tra i due», una dichiarazione così secca da sembrare di decenni fa, a confronto con l’impenetrabile sistema di comunicazioni corporate di oggi in cui nessuno dice più nulla su nessuno, tranne complimenti e espressioni di gran rispetto. Ma il fastidio di Federer e lo scalpitare dei Djokovic sono in bella vista, e non passeranno mai.

 

«I know they are already against me».

 

La partita di Monte Carlo con Federer si era conclusa con il ritiro di Djokovic sotto 6-3 e 3-2 per “problemi respiratori”. Un articolo dell’epoca intitola “Djokovic lascia un’altra volta”: nei mesi si era verificato un bizzarro pattern di ritiri che aveva cominciato a infastidire gli addetti ai lavori, e la stampa aveva preso a parlarne con tono di rimprovero. Era appena successo contro Nadal al Roland Garros, e in altre occasioni. Mai per veri e propri infortuni fisici, sempre per disagi non meglio precisati, affaticamento o altro. A fine estate, durante il suo ottavo di finale agli US Open contro Tommy Robredo, Djokovic chiama il trainer lamentando problemi allo stomaco, a una caviglia e a un’anca. Andy Roddick, suo prossimo avversario, in conferenza stampa elenca tutti gli altri guai che potrebbero capitare a Djokovic: «La schiena, le anche, l’influenza aviaria, l’anthrax, la SARS, la tosse, il raffreddore».

 

Dopo aver battuto Roddick nei quarti, intervistato in campo Nole rilancia: «Andy ha detto che nella scorsa partita avevo 60 infortuni diversi, mi pare chiaro che non ce li ho, no?». I fischi che seguono sono forse l’ultimo episodio di confronto non filtrato tra pubblico e star nel tennis contemporaneo, come se la franchezza spavalda di Djokovic fosse stata il segnale di una necessaria regimentazione delle comunicazioni, senza lasciare spazio all’improvvisazione, agli umori del momento, alle rivalità sanguigne. «Tanto lo so che sono tutti contro di me perché pensano che fingo gli infortuni», ha proseguito Djokovic tra i fischi. Tutti hanno pensato che fosse uno sfogo estemporaneo, a posteriori abbiamo capito che Novak stava solo cominciando ad abituarsi a essere solo contro tutti, per nutrire la convinzione di poter vincere sempre.

 

Lob smash.

 

Ci pensa Federer in finale a mettere in riga la testa calda, in veste di emissario delle forze dell’ordine tennistico: servendo per il terzo set risponde a un attacco a rete e smash di Djokovic con un colpo così improbabile da sembrare offensivo per l’avversario, un contro-smash in forma di pallonetto che lascia Djokovic immobile a guardare la palla cadere dietro di lui. Lo svizzero numero 1 alza il braccio al cielo e poi punta il dito seccamente per chiedere l’asciugamano a un raccattapalle, mentre il pubblico di New York gli regala la milionesima ovazione. Djokovic neanche lo inquadrano, relegato a comparsa di cui non importa neanche la reazione al capolavoro fatto da Federer. Nessuno si rende conto che il seme della vendetta è stato piantato, e qualcosa prima o poi crescerà.

 

«It’s happened before».

 

Riconfermato campione a New York, Federer arriva alle semifinali dell’Australian Open a gennaio, dove incontra Andy Roddick, vincitore su Novak Djokovic di nuovo per ritiro. Un altro abbandono misterioso, questa volta colpa del caldo australiano. Intervistato dopo il suo quarto di finale a proposito del ritiro di Djokovic, Federer continua nel suo ruolo di garante del corretto agonismo: «Ho visto tutto», esordisce, «mi ha sorpreso vedere uscire il campione in carica in questo modo».

 

Lui che da questo ragazzetto serbo era stato battuto l’anno prima, ora può commentarne il fallimento, mentre si prefigura l’ennesima demolizione che infliggerà a Roddick. «È già successo», rincara, «non è che non si sia mai ritirato prima in carriera». Federer prosegue descrivendo i ritiri di Djokovic come delle rese («giving up») e auto-elogiandosi per aver saltato un solo match in tutta la sua carriera. «Sono cose su cui ti interroghi», è la pietra tombale della sua ramanzina.

 

Federer ancora non si rende conto del pericolo che Djokovic potrebbe rappresentare, ancora lo percepisce come un cortigiano, è come se il Maestro non riuscisse a vedere oltre l’ostacolo Nadal, come se immaginasse tutta la sua carriera come un eterno duello con lo spagnolo, tra erba e terra, volée e maratone. Pensa che il tennis sia ancora uno sport di contrasti, di scelte stilistiche: se c’è un tennis totale, fatto di tocco e potenza, corsa e tattica, pensa che sia soltanto il suo stesso gioco, certo non quello di qualcun altro. Purtroppo da domenica scorsa sa che non è più così.

 

«Thank God the hard court season’s over».

 

A marzo 2009 Djokovic batte Federer in semifinale a Miami: sotto 0-2 nel terzo set Federer manda in rete un dritto da metà campo e distrugge la racchetta, la prima che spacca in almeno sette anni, l’ultima a oggi. In conferenza stampa l’insofferenza della partita si traduce in atteggiamento passivo-aggressivo: «Sono riuscito a giocare peggio di lui», «Meno male che la stagione sul cemento è finita, ora si passa alla terra». Per uno che viene da tre finali (più una semifinale) consecutive perse al Roland Garros contro lo stesso giocatore (Nadal), è difficile crederci. Djokovic sta diventando invadente, come un ospite che non se ne va più da casa.

 

L’ultima offesa.

 

Il momento della svolta

Sempre nel 2009 Federer e Djokovic si incontrano per la terza volta consecutiva agli US Open: è la semifinale, e avanti due set a zero e 6-5 nel terzo, Federer va a triplo match point con il celeberrimo passante di schiena colpito tra le gambe, meglio conosciuto come tweener. Djokovic questa volta viene mostrato a rete con il capo chino e un’espressione tra l’abbattuto e il disgustato, ma è lì che comincia il piano per la futura dominazione globale: basta ritiri, basta polemiche, di lì a poco basta anche con il glutine. Nessuno potrà più fargli un colpo così, e se lo faranno ne riceveranno uno peggiore indietro. Federer e Djokovic si incontreranno agli US Open anche nei due anni successivi e sempre in semifinale, e in entrambi i casi Djokovic vincerà 7-5 al quinto set, dopo aver salvato due match point in ognuno dei due incontri. Questione di karma.

 

The shot.

 

Nel 2010 Djokovic racconta i due match point salvati contro Federer come due colpi tirati “a occhi chiusi”, grato per l’esito dell’incontro. In finale perde in quattro set contro Nadal, e tutto sembra continuare a scorrere come prima, con il serbo che fa il comprimario di lusso, la vittima sacrificale che impreziosisce gli allori dei senatori. I match point salvati nel 2011 sempre agli US Open in semifinale contro Federer sono una storia tutta diversa: il Maestro si trova 5-3 e 40-15 al servizio nel quinto set, serve una prima a uscire e Djokovic risponde con un dritto incrociato su cui Federer neanche si muove.

 

In quei minuti c’è tutto quello che sono stati Djokovic e Federer nei quattro anni trascorsi da quella partita: Djokovic prima annuisce polemico verso il pubblico tutto per Federer, poi dopo la risposta fulminante alza le braccia e aizza il pubblico, che comincia a apprezzare la sua gigioneria, mentre Federer, impietrito, aspetta di servire il secondo match point. Sbaglia anche quello, e da lì non vincerà più un game nell’incontro. In conferenze stampa gli chiedono spiegazioni, e Federer continua a rinchiudersi in una negazione assoluta del mostro agonistico che si è trovato di fronte.

 

«Confidence? Are you kidding me?».

 

«Alcuni giocatori giocano così, sotto 2 a 5 nel terzo cominciano a sparare colpi. Io non ho mai giocato così, personalmente credo nel duro lavoro che poi alla fine ti ripaga… Come si fa a tirare un colpo simile su un match point? Forse lui lo fa da vent’anni e per lui è normale. Chiedetelo a lui».

 

Cieco di fronte all’evidenza dell’invasione ormai compiuta, Federer liquidava una partita in cui era stato bruciato da un giocatore che soltanto in quella stagione era arrivato al numero 1 del mondo, aveva già vinto due slam, 43 partite consecutive e 5 Masters 1000. Come se parlasse di un qualificato a cui era capitata la partita fortunata, Federer quel giorno a New York ha tentato un’ultima volta di negare cos’era diventato Novak Djokovic, e cos’è tuttora, quattro anni dopo.

 
 

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Fabio Severo scrive di tennis, di cinema, di cultura, ma non solo, per la carta e per il web. Copre eventi sportivi e non per agenzie e network internazionali e ha curato per anni il blog di fotografia contemporanea hippolytebayard.com.

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