Ecco la quarta puntata dell’originale e innovativa rubrica nella quale rispondiamo alle domande dei lettori. Avete domande sul vostro giocatore o sulla vostra squadra del cuore, volete condividere i vostri dubbi esistenziali e le frustrazioni? Siamo qui per rispondere. Scriveteci a ultimouomomailbag@gmail.com.
Sono rimasto sorpreso dagli scontri nel derby tra le squadre di New York. Mi interrogo e cerco di capire la natura di questo episodio. Mi sembra assurdo, cosa può portare i tifosi di due squadre, nate rispettivamente nel 2006 e nel 2015 per pure operazioni di marketing promosse da colossi economici, a violenze fra di loro? Non c’è nessuna tradizione o rivendicazione sociale. Il mio parere, provocatorio, è che siano scontri organizzati a tavolino. Non sarebbe sorprendente in un mondo americano spesso plastificato e finto, avente lo scopo di avvicinare il prodotto calcio ai canoni europei. L’alternativa, peggiore, è quella di un calcio dove i tifosi sono rastrellati secondo la logica del marketing e si fidelizzano ai marchi e alle pubblicità di riferimento e non alla squadra o al suo significato sociale. Assisteremo così alla nascita di una curva Red Bull o cose simili. Uno schifo insomma, la morte del calcio.
Fabio
Risponde Fabrizio Gabrielli
Rispetto a te, amico, intorno agli scontri tra tifosi newyorchesi del 9 agosto ho fatto dei pensieri che muovono i passi da presupposti diversi (non sono rimasto per niente sorpreso, tanto per dire) e che in qualche modo finiscono per portarmi a conclusioni diametralmente opposte: ad esempio credo che tra il fake artato e lo scimmiottamento goffo ci sia una terza spiegazione possibile, una specie di Terzo Binario. Tanto per cominciare, però, bisognerebbe tornare a vedere il video:
In New Jersey and immediately encounter crowd trouble ahead of the New York derby (Red Bulls-City). Video: pic.twitter.com/slY3hYn5aM
— Rob Harris (@RobHarris) 9 Agosto 2015
Trenta secondi scarsi in cui l’highest-peak di riottosità non rasenta neppure lontanamente il livello minimo di violenza cui siamo abituati noialtri in Europa (ma capisco che non si possono stilare le scale Mercalli partendo dalla magnitudo nove, non avrebbe senso).
Siamo davanti a una Bakery & Deli che si chiama Carmelita, a Newark nel New Jersey, a un miglio scarso—ho scoperto più tardi—dalla Red Bull Arena, nel mezzo del tragitto che si fa venendo da Penn Station, cioè da dove presumibilmente arrivano i tifosi del New York City Football Club in trasferta (lo scorso agosto, alla fine, erano 500). Si vedono tipi dalla testa rasata, a petto nudo, tatuati, molto muscolosi: sembra uno spinoff di Jersey Shore con ambientazione calcistica.
L’impatto è rapido e per certi aspetti anche timido, con un curioso senso del ridicolo: vola qualche cartellone con i sandwich di Carmelita, due o tre buste dell’immondizia, c’è anche qualche volto—tipo il ragazzo con gli occhiali da sole neri, a sinistra nel video—che si lascia scappare un sorriso: insomma, sembra la scena (brutta) di un film (peggiore) girato in fretta e furia, un take venuto neppure troppo bene, di quelli che da qualche parte si intravvede un microfono o un assistente alla regia con le cuffie e ci sarebbe da rifare tutto da capo, se non fosse che il tempo.
Il gruppetto che ne esce vittorioso—a occhio, perché non portano maglie né indossano sciarpe, sono dei Red Bulls—grida all’avversario, messo in fuga più che dalla veemenza dello scontro dall’intervento tempestivo della polizia, who are ya?, e lo fa due o tre volte, con l’irriverenza molto british indeed, molto hooligan, del branco che afferma la propria identità negando quella dell’opposto.
NYCFC have only been around for about a year or something and they’ve got hooligans fighting and shouting “who are ya?”. Made my day that.
— . (@CityMatthew) 9 Agosto 2015
Uno scambio di battute su Twitter che mi pare eloquente di quanto il meccanismo dello scontro tra tifoserie sia comprensibile al pubblico sportivo americano, che si inceppa già allo stadio who-is-who.
Le due squadre di New York hanno una tifoseria che si aggruma attorno ai due gruppi più rappresentativi, rispettivamente i Garden State Ultras (lato Red Bulls) e il Third Rail, che prende il nome dal celebre terzo binario del sistema metropolitano di NYC, quello che corre parallelamente ai due che convogliano i vagoni e che è deputato al rilascio dell’energia (mi pare una metafora, quella scelta dal Third Rail, che funziona alla grande).
Al di là della loro riconducibilità alla società (sono strettamente connessi al Management dei NYCFC, ne sono stati volano e braccio armato del marketing durante la campagna abbonamenti e il loro logo è stato disegnato dallo stesso designer che ha concepito quello della squadra), il Third Rail è forse quanto di più genuino e non sintetico esista all’interno dell’universo NYCFC, e forse si può dire lo stesso dei Garden State Ultras per i NYRB, e più in generale la riflessione, forse semplicistica, da fare sulla MLS (e nello specifico sulle squadre di NYC) è che un team si può costruire in provetta, mentre i sostenitori, invece, no.
Tony Meola, l’ex storico portiere della USMNT, che peraltro è del New Jersey e ha giocato con i NYRB quando ancora si chiamavano New York/New Jersey MetroStars, nell’occasione ha detto: «C’è davvero odio, non è fabbricato». I motivi attorno ai quali viene concepita, nasce e cresce una tifoseria organizzata possono essere un miliardo, dall’identificazione nazionale (i tifosi del New Jersey sono quasi tutti figli di immigrati britannici, nel Third Rail c’è una forte presenza ispanica) a quella geografica (le distanze—non solo fisiche—tra chi vive nel NJ e chi vive a NYC sono ben radicate, non servivano certo due squadre di soccer a sublimarle).
Meola ha anche raccontato un aneddoto su un suo amico del college che ora fa il poliziotto a Newark, e che gli ha confessato di non voler più essere in turno nei giorni in cui sono previsti i derby di MLS, perché ogni volta si tratta di arrestare tipo 30 persone.
Fino a oggi siamo stati abituati a vedere i sostenitori del calcio negli States come spettatori dotati di un forte senso civico, di un discreto attaccamento ai colori, con quella goliardia e gioia ingenua negli occhi che non somiglia neppure per un po’ alla cultura da stadio imperante in Europa o in Sudamerica: la violenza non è mai stato il grimaldello attraverso il quale legittimare l’esperienza calcistica, negli States.
Mi sono fatto l’idea che per dare al movimento calcistico yankee una credibilità, i primi ad aver bisogno di vedere degli americani impegnati in America (e non in Inghilterra come Elijah Wood) in uno scontro tra tifosi di squadre di calcio, fossimo proprio e soltanto noialtri europei: mi pare significativo che il primo a immortalare e soprattutto dare un significato a quel tafferuglio sia stato un giornalista britannico, Rob Harris di Associated Press.
Tutto sommato quella del 9 agosto è stata un’epifania sommamente democratizzante: prendendo consapevolezza (quella consapevolezza che ti sanno dare solo i lividi) della loro rivalità fuori dal campo, i tifosi hanno scisso la loro anima da quella corporate dei club, l’hanno un po’ sporcata forse, ma di certo resa più vera. In termini di genuinità e street credibility, altro che choc: hanno reso un servigio più grande di quanto immaginino, alla MLS.
Gentilissimi,
seguo l’Ultimo Uomo con interesse e passione. Vi scrivo per una domanda sulla mia Lazio.
Per ovviare alla mancanza strutturale di introiti, mi pare che la dirigenza della S.S. Lazio stia incentrando la propria politica aziendale sulla formazione e valorizzazione di nuovi talenti. Lotito dispone di una squadra “satellite” in Serie B, la Salernitana, nel quale far crescere i giovani prodotti della vivaio biancoceleste; prospetti che altrimenti vengono mandati in prestito in altre realtà importanti della cadetteria (Latina, Crotone, Bari). La società ha infine fondato un’Academy e affidato a un guru come Joop Lensen (ex Ajax) l’intero settore giovanile.
Come recentemente evidenziato da M. De Santis, l’invidiabile equilibrio economico sembra essere il maggior vincolo per la competitivitá sportiva della Lazio. L’articolo peraltro non segnala come sulla societá gravino la mancanza oramai pluriennale di uno sponsor, la rateizzazione del debito con il fisco (6 mln all´anno, fino al 2013), lo svantaggio strutturale del sistema di ripartizione dei diritti tv e la mancata pianificazione di uno stadio di proprietà. Per questo, viene il dubbio che questa politica aziendale sia funzionale unicamente alla realizzazione di cospicue plusvalenze da mettere a bilancio.
Conoscendo poco altri esempi virtuosi di società che investono sul proprio vivaio, come l’Ajax, l’Atlético Madrid o il Borussia Dortmund, vi chiedo: qual è l’orizzonte sportivo, a breve e lungo periodo, al quale può ambire il modello societario proposto dalla S.S. Lazio? Possiamo diventare una fabbrica di sogni o dobbiamo rassegnarci a essere una realtà periferica, seppur virtuosa, del calcio di oggi?
Abrazo,
Marco
Risponde Marco De Santis
Fare calcio in Italia è molto difficile, soprattutto se si vuole evitare di rimetterci soldi come da chiara volontà di Lotito. È vero, come dici, che alcune mosse potrebbero portare dei ricavi maggiori in futuro (in particolare la realizzazione di uno stadio di proprietà, visto che sui criteri di suddivisione dei diritti tv una società da sola può far poco), ma va anche tenuto conto che scelte di questo tipo richiedono investimenti molto onerosi e un orizzonte temporale di lungo periodo per rientrare delle spese, due cose che poco si adattano al calcio d’oggi, dove si cerca quasi sempre il risultato immediato, anche perché i supporter in media non sono molto propensi ad accettare lunghi anni di transizione accettando la motivazione che parte degli investimenti da destinare al mercato vengano invece dirottati ad altre cose, come per esempio la costruzione dello stadio di proprietà.
Tutto questo senza contare l’enorme difficoltà di fare un proprio stadio in Italia, come dimostra il recente caso Milan, ma anche quello della Roma, che forse ci riuscirà, ma che si è trovata e si troverà ad affrontare ancora molti ostacoli prima di riuscire a dar vita finalmente al progetto presentato in questi anni. Per quanto riguarda la mancanza di uno sponsor (altra situazione condivisa con la Roma) credo sia una scelta societaria per non svalutare la maglia: piuttosto che incassare 1 o 2 milioni in più all’anno si preferisce tenere lo spazio libero nella speranza di incassare di più da qualche altro soggetto. Non è comunque lo sponsor sulla maglia che alza enormemente i ricavi, soprattutto per una società con un bacino d’utenza inferiore ad altre big come può essere la Lazio.
A fronte di tutte queste difficoltà è chiaro che un progetto basato sui giovani sia la strada più sostenibile economicamente, anche considerando che le plusvalenze poi possono essere investite per comprare altri calciatori. Va comunque evidenziato che, se è vero che negli ultimi anni gli attivi di bilancio della Lazio sono stati più dei passivi, e quindi la società ha creato utili non tutti reinvestiti sulla squadra, è anche vero che la somma dei milioni guadagnati non è così elevata da far pensare che se fossero stati spesi tutti sul mercato ora la squadra sarebbe notevolmente più forte di quanto già è. Quei soldi sono serviti proprio a creare un team con una solidità importante a livello economico.
In conclusione, credo che purtroppo per i tifosi laziali lo scenario di “realtà periferica, seppur virtuosa” sia quello più probabile per il medio periodo della Lazio, a meno di un cambio al vertice della società che preveda l’ingresso di imprenditori che vogliano investire accettando il rischio di rimetterci—sempre fermo restando, però, tutti gli eventuali vincoli del Fair Play Finanziario.
Non è comunque detto che pur partendo da una situazione economica di svantaggio non possano verificarsi exploit significativi e non si possano “fabbricare sogni” in caso di campagne acquisti particolarmente azzeccate nonostante le limitate risorse disponibili.
La partenza di Benatia è stata vista da molti come una delle principali cause della difficile stagione della Roma. La sua capacitá di impostare il gioco dalla difesa è mancata a una squadra che in più veniva attaccata molto alta. C’è chi (D. Manusia per es.) auspica l’acquisto di un difensore che possa sopperire a tale assenza. Mascherano sarebbe l’ideale sostituto del marocchino e anzi garantirebbe qualcosa in più. E io sarei l’uomo più felice del mondo se vestisse i nostri colori. Ma cercando di essere realisti, mi chiedo se non sia possibile una soluzione alternativa assai più economica: arretrare De Rossi sulla linea difensiva. Fare cioè di DDR un Mascherano de noantri. Ipotesi che è stata spesso ventilata in passato ma che non è stata riproposta di recente quando forse ce ne sarebbe bisogno più che mai. Che ne pensate?
Grazie in anticipo,
Luciano Scorza
Risponde il direttore Daniele Manusia
Ciao Luciano, da quando ci hai scritto De Rossi è stato messo in difesa tre volte contro Juventus, Sampdoria e Carpi, quindi ho anche un po’ di materiale su cui basare le mie fantasticherie. Prima però vorrei chiarire che la principale novità rispetto a quanto ormai si dice da anni, e cioè che il suo futuro potrebbe essere da difensore centrale, è che il futuro di Capitan Futuro è sempre più corto e ormai dovremmo inquadrare la questione in un contesto più pragmatico del tipo: con De Rossi al centro della difesa possiamo svoltare qualche partita in questa stagione o nella prossima? E se la risposta è sì, che ci guadagniamo rispetto a far giocare interno a sinistra un marcatore destro come l’anno scorso poteva essere Mapou e quest’anno Rüdiger (visto che l’alternativa migliore, un mancino che sappia impostare, Castan oggi per ragioni diverse da Astori lo scorso anno, non funzionano)?
La risposta alla prima domanda è: sì. Per il motivo a cui accenni te: avere un centrocampista in difesa è un vantaggio da non sottovalutare per una squadra che deve affrontare molte avversarie guardandole dall’alto in basso, con la palla tra i piedi cioè. Hai citato me che citavo Mascherano, ma il week-end appena passato mi offre un esempio perfetto: Daley Blind. Sul primo gol dello United è salito all’interno della metà campo del Sunderland e ha lanciato alle spalle della difesa avversaria per Mata (come esattamente non l’ho capito, nei replay da dietro sembra quasi che il lancio parta prima che Mata esegua il movimento), che ha messo a pochi centimetri dalla porta Depay.
Sia Mata che Depay in realtà non fanno altro che mettere il piede dove era necessario, il gol andrebbe attribuito a Blind come una buca a mini-golf con due sponde. Anche De Rossi con il Carpi è salito ogni tanto palla al piede, con un movimento inverso a quello che fa di solito aggiungendosi alla difesa dal centrocampo (la famosa salida lavolpiana che se non sai cos’è ormai non puoi più parlare di calcio nei bar di Roma Est), permettendo, almeno in teoria, un movimento maggiore ai tre “veri” centrocampisti, e qualche inserimento in area in più a una squadra che ha problemi ad attaccare.
Ne avrebbe giovato molto Keita (qualcosa si è visto nei venti minuti prima dell’infortunio), che è un giocatore più associativo che altro, che ama cercare spazio e muoversi per creare spazio ai compagni, giocando la palla a due tocchi o non toccandola affatto. Meno Pjanic e Nainggolan, che preferiscono la palla sui piedi, il primo perché vuole il tempo di alzare la testa e decidere dove indirizzare il gioco (in ogni caso una linea di gioco più avanti), il secondo perché non riesce a organizzare i neuroni al servizio del dinamismo, un giocatore straordinario sotto alcuni aspetti, ma senza palla sembra un turista che si è perso la guida: o copre una posizione precisa, come ha fatto quando è stato spostato davanti alla difesa, o sfrutta le sue doti atletiche, tutte e due le cose insieme è impossibile (o è fermo o è disordinato).
Insomma, per rispondere alla tua domanda: il vantaggio è chiaro in fase offensiva. Però lasciami dire che, quando la palla ce l’hanno gli avversari, De Rossi si dimostra un difensore molto limitato. Contro la Sampdoria ha fatto una partita stupenda in marcatura preventiva su Éder, e in effetti in anticipo avrebbe da dire la sua contro attaccanti che non lo sovrastano fisicamente. Basta però un Borriello qualsiasi per rendere palese i suoi limiti quando c’è da mantenere il contatto in campo aperto e, possibilmente, contendere la palla all’attaccante avversario. Più che l’anticipo di Borriello sul gol, guardati l’occasione avuta sullo 0-0, guarda quanto fatica a girarsi e a correre in diagonale verso sinistra.
La mobilità di De Rossi nei cambi di direzione è molto poca e non è un problema di età, anche a centrocampo ha sempre avuto problemi a girarsi e inseguire l’avversario che lo aveva superato (mi sono sempre chiesto se in famiglia non abbiano problemi alle articolazioni, alle anche in particolare, se sia una questione anatomica o muscolare). Solo che se lo superano a centrocampo c’è qualcuno che lo copre, in difesa rischia di lasciare un tappeto rosso che arriva fino alla porta. Spero di averti aiutato a riflettere su De Rossi, ma anche sul dilemma contemporaneo dei centrocampisti in difesa: anche Blind non difende bene e dubito che van Gaal lo farà giocare lì contro avversari di livello; Mascherano è un caso quasi unico di centrocampista che difende meglio di molti difensori.
I Memphis Grizzlies con Gasol e Z-Bo, i Bulls del (sempreverde) Pau e Noah e aggiungerei anche gli Spurs di Duncan e LMA sono veramente old school nel puntare su quintetti con dei veri 4-5 o addirittura con due pivot naturali? Il concetto di small ball è veramente il futuro del basket come qualcuno dice?
Nicola
Risponde Dario Vismara, caporedattore basket
Più che il futuro del basket, direi che ormai lo small ball è il presente della NBA—come dire, i buoi sono già ampiamente scappati dalla stalla e la rivoluzione è già iniziata da mo’. D’altronde, i campioni in carica hanno chiuso quasi tutte le partite di quest’anno con Draymond Green, che in uscita dal college sembrava un ibrido tra 3 e 4, come centro titolare. Sul tema dello small ball come soluzione fissa, però, invito l’ascolto del solito, eccellente podcast di Zach Lowe in compagnia di Shane Battier di qualche settimana fa. Riassumendo brevemente il Battier-pensiero, uno che sostanzialmente ha reso lo small ball possibile a Miami: andare “piccolo” è un’eccellente arma tattica per cambiare il ritmo delle partite e ogni squadra dovrebbe avere in faretra questa opzione, ma il costo che ha sul fisico del “3-che-viene-spostato-4” nel corso dell’intera annata è enorme—ed è il motivo per cui LeBron James, o anche Paul George in questi giorni, non piace moltissimo essere schierati da 4 in pianta stabile.
Detto questo, spesso si sottovaluta quanto lo small ball sia un’arma difensiva ancor prima che offensiva: in una Lega in cui i pick and roll sono la principale soluzione offensiva, avere la possibilità di cambiare su tutti i blocchi ed eliminare il “vantaggio” cercato dagli avversari è un lusso incalcolabile. Certo, teoricamente si dovrebbe subire la mancanza di centimetri e chili in post basso contro lunghi “tradizionali”, ma potendo schierare 4 o anche 5 esterni mobili e rapidi spesso i passaggi in post nemmeno ci arrivano, perché vengono negati dalla difesa d’anticipo—cosa che gli Warriors, ad esempio, facevano magistralmente. L’altra grande lacuna dello small ball è la sofferenza a rimbalzo difensivo e nella protezione del ferro, ma anche qui si può ovviare mandando più uomini in area, specialmente quando gli esterni nei ruoli di 2 e 3 hanno un vantaggio fisico rispetto agli avversari—un altro dirty little secret dello small ball (vedi: Wade e LeBron negli Heat 2012-14).
Tornando alla domanda originaria, però, direi che la strutturazione tradizionale con due lunghi “veri” non è necessariamente morta: sempre rifacendoci al Vangelo Secondo Lowe, consiglio questo pezzo di qualche mese fa sui possessi in post basso nell’epoca moderna, che è sicuramente più completo di quanto io possa mai dire qui. Sicuramente, però, squadre con coppie di lunghi come Z-Bo-Gasol o anche LMA-Duncan devono adattarsi al nuovo ambiente in cui si trovano: nella NBA contemporanea non si possono più dare 20 palloni in post basso a partita e sperare di cavarne fuori dei tiri efficienti senza muovere il pallone, perché le difese sono diventate troppo intelligenti e preparate. E, soprattutto, quei due lunghi “veri” devono essere in grado di difendere contro i quintetti avversari senza costare punti alla propria squadra. Trovare il modo di “far pagare” agli avversari lo svantaggio di chili & centimetri senza concedere tiri aperti nella propria è la sfida per le squadre con strutturazione tradizionale, e sarà interessantissimo osservare in che modo ci proveranno nella prossima stagione.
Nel casino generalizzato del calciomercato del Milan, e sapendo che Mihajlovic ha bisogno di un trequartista e Honda non lo è, perché non si è cercato di prendere un giovane che costa ancora poco tipo Praet, invece di stare appresso a Witsel che costa troppo? O, se si vuole un trequartista di inserimento, perché non Klaassen?
Stefano
Risponde Federico Aquè
Ciao Stefano, non sono d’accordo con te quando dici che Honda non è un trequartista. Per me è quello il suo ruolo naturale, anche se è vero che ha passato buona parte della carriera a giocare sulla fascia. Ma, per intenderci, non gli si può chiedere di essere Robben.
Potrei risponderti dicendo che il Milan ha deciso di puntare su Honda e che quindi ha cercato giocatori in ruoli diversi dal trequartista. Personalmente è una scelta che condivido, anche se so che lo schieramento anti-Honda tra i tifosi milanisti è molto numeroso. Mi piacerebbe approfondire gli aspetti sottovalutati del suo gioco, ma non è questa la sede.
In generale trovo davvero complicato capire le logiche del calciomercato di tutte le squadre, non solo quello del Milan. Ci sono troppi fattori da considerare, e molti non li conosciamo. Mi pare, comunque, che la direzione del mercato rossonero sia stata abbastanza chiara. Bacca e Luiz Adriano sono due giocatori fatti e finiti, Bertolacci, Romagnoli, Kucka, José Mauri e Balotelli hanno un rendimento in Serie A già testato.
Praet e Klaassen sono fuori da queste categorie. Non sono giocatori fatti e finiti, al contrario di Witsel (a proposito, non ti piace proprio o lo reputi solo troppo costoso?) e non hanno alcuna esperienza in Serie A. Certo, sono giovani e di talento, il profilo ideale per far sognare un tifoso, ma mi pare che per il Milan il risultato immediato conti molto di più delle prospettive future.
Ovviamente è una scelta criticabile, a prescindere da Praet e Klaassen, che comunque sono già conosciuti e sono seguiti da tante squadre. Forse è anche per questo che il Milan non li ha cercati e probabilmente, parlando in particolare di Klaassen, sarebbe scappato dopo aver sentito le richieste dell’Ajax, se è vero che gli olandesi hanno rifiutato 18,5 milioni di euro offerti dal Napoli.
Se mi chiedi chi avrei preso dei due scelgo Klaassen, anche se Praet ha più talento. Del belga mi piace il fatto che possa giocare in tutte le zone del campo, al centro o sulle fasce, e che abbia un raggio d’azione davvero ampio. È un calciatore moderno, che dà il suo contributo in tutte le fasi di gioco. Può fare ancora molti progressi: al momento incide meno di quanto potrebbe, nonostante sia l’Under-21 belga che l’Anderlecht l’abbiano messo al centro del proprio gioco.
Klaassen mi sembra già pronto, invece. È il capitano dell’Ajax ed è titolare nella Nazionale olandese (il che spiega perché il club di Amsterdam lo valuti molto): avrebbe meritato un investimento, anche pesante. Anch’io lo avrei visto bene a sfruttare gli spazi creati da Bacca e Luiz Adriano, sia partendo sulla trequarti che a centrocampo. Però, appunto, bisognava crederci ed essere disposti a spendere tanti soldi.
Spero sia una risposta soddisfacente, anche se poi, a dirla tutta, non c’era bisogno di andare sul mercato alla ricerca di un nuovo trequartista. Il giovane talento da far giocare dietro le punte il Milan ce l’aveva già.
Quello che poteva essere e non è stato. Riccardo Saponara è stato ceduto per 4 milioni di euro. Quanti ne varrà a fine anno?
Secondo voi Cuadrado può avere un futuro alla Di María stile Real di Ancelotti, solo dal lato opposto del trio di centrocampo?
Antonio
Risponde Fabio Barcellona
Ciao Antonio. Capisco la necessità di trovare una soluzione al cubo di Rubik che pare essere la composizione di un XI tipo per la Juventus, piena di incompatibilità e difficili incastri. Ma, no. Secondo me, no. Sia per caratteristiche del giocatore che, soprattutto, per la composizione della squadra attorno a lui.
L’intuizione di Ancelotti al Real Madrid, considerando la poca voglia di Ronaldo di sbattersi in fascia in fase di non possesso e di fare l’ala sinistra in quella di possesso, fu quella di impiegare Di María come “falsa mezzala”. Con Cristiano Ronaldo che, partendo nominalmente dall’esterno, finiva sempre per gravitare negli spazi centrali liberati da Benzema, Di María si muoveva sulla diagonale interno-esterno fornendo ampiezza alla manovra del Real. Con questo movimento, il 4-3-3 di partenza transitava avanti e indietro, in maniera fluida, verso una sorta di 4-4-2. Fondamentali in questo meccanismo le caratteristiche di Di María e quelle dei compagni che gli gravitavano attorno, in particolare degli altri due interni di centrocampo.
Partendo da posizione più arretrata e ampliando il suo campo d’influenza il “Fideo” riusciva a sfruttare appieno il suo bisogno di dinamismo e riusciva ad affrontare gli avversari in maniera lanciata, attaccando gli spazi liberati da CR7. Cuadrado è un giocatore diverso: il colombiano per rendere al meglio ha come compagna fidata e riferimento spaziale la linea laterale. Muovendosi parallelamente a quella fascia rende al massimo. Meno abile è invece nel muoversi in funzione di movimenti dei compagni. Un meccanismo come quello visto al Real con Di María richiede una sensibilità in termini di spazio e tempo dei movimenti che Cuadrado non sembra possedere.
Ancora più importante, Cuadrado non avrebbe accanto a sé Xabi Alonso e Modric. Il primo forniva geometria e scelte sempre corrette in fase di prima impostazione, mentre il secondo svolgeva splendidamente il ruolo di raccordo del gioco tra la fase di preparazione e quella di rifinitura. All’interno di questa configurazione di centrocampo, assieme a un regista e a un facilitatore di gioco, un giocatore dinamico, di strappi e capace di dare ampiezza come Di María era perfetto.
Gli ipotetici compagni di reparto di Cuadrado, nel centrocampo della Juventus, sarebbero prevalentemente Marchisio e Pogba. Fondamentale sarebbe il lavoro dell’altra mezzala, ma Pogba non è certo un equilibratore di gioco e di posizione come Modric e a mio parere il centrocampo della Juventus diverrebbe troppo spesso sguarnito e la squadra poco compatta, nelle due fasi. In quest’ottica, la configurazione originale pensata per il reparto mediano della Juventus, con Marchisio mediano e Khedira e Pogba intermedi è chiaramente la più coerente, oltre ad avere il pregio, non indifferente, di schierare assieme i migliori tre centrocampisti in rosa. Se sta bene il tedesco può essere estremamente utile tatticamente per la squadra di Allegri. Una delle sue migliori qualità in fase di possesso palla—trovare lo spazio in cui smarcarsi per facilitare il passaggio al compagni, giocare semplice e muoversi per smarcarsi nuovamente—lo rende prezioso per la fluidità del possesso palla bianconero. Se disponibili tutti e tre ci sono pochi dubbi su quello che possa essere il centrocampo della Juve. Il problema principale è assemblare il resto della squadra attorno. E chissà che il vecchio 3-5-2 rivisitato con Cuadrado e Alex Sandro sugli esterni non sia la soluzione più adatta.
Ciao stimatissima redazione di UU,
la mia domanda è questa: che ne pensate dell’introduzione del tempo effettivo nel calcio? Se non in tutta la partita almeno negli ultimi 10-15 minuti. A volte le gare ad eliminazione sono davvero insopportabili e nella seconda metà del secondo tempo praticamente non si gioca più.
Grazie, René Pierotti
Risponde ancora il direttore Daniele Manusia
Caro René, sarò breve. Il calcio è uno degli sport più conservatori in assoluto e si gioca per un’ora e mezza dal 1897. Il vincolo simbolico è più forte di quello pratico e questa è la principale motivazione per cui credo che non vedremo mai una partita di calcio con il tempo effettivo. Ma ci sono altri dubbi a cui non è semplice rispondere e che, secondo me, rendono la tua richiesta meno scontata di quello che sembra. Anzitutto il tempo effettivo varia, oggi, da partita a partita, quanto dovrebbero essere lunghi i tempi? Venticinque minuti? Mezz’ora? Va tenuto conto del fatto che il gioco cambierebbe molto dal punto di vista dell’intensità e cinque minuti in più o meno potrebbero modificare l’esito delle partite (non so se ti capita mai, giocando a calcetto, calcio a sette o quello a cui giochi te con gli amici, a oltranza, che una squadra domini l’altra per un’ora e l’altra venga fuori negli ultimi dieci minuti dando vita a parziali ridicoli tipo 10-2 → 10-11…).
Un giocatore in svantaggio cerca di prendere la palla dal raccattapalle di casa avversario.
E poi: sei sicuro che le interruzioni diminuirebbero e non il contrario? Di certo, visto che stiamo parlando di una riforma che dovrebbe rendere il calcio uno spettacolo maggiormente efficiente, verrebbero gestiti break pubblicitari appositi, magari inserendo anche la possibilità di fare dei time-out. Ma, se non cambiamo anche la regola delle 3 sostituzioni a partita, un calciatore potrebbe benissimo fingere un infortunio per recuperare fiato o per spezzare un momento buono degli avversari, e a quel punto l’arbitro non avrebbe alcuna leva per farlo rialzare o far riprendere il gioco con una disparità numerica tra una squadra e l’altra.
Bene o male, così sappiamo che un giocatore non può restare a terra più di tanto. Per quanto riguarda la possibilità di introdurre il tempo effettivo solo negli ultimi minuti mi sembra davvero troppo barocca, provaci con i tuoi amici e poi dimmi come è andata, perché non riesco a immaginare cosa potrebbe succedere. Ti lascio con una proposta ancora più estrema: e se invece abolissimo i fuori interrompendo il gioco solo per falli e gol?
Vorrei chiedervi una top 3 delle partite più emozionanti giocate da Sua Maestà Roger Federer.
Marco
Risponde Fabio Severo, caporedattore tennis
Difficile fare un top 3 su una carriera lunga come quella di Federer. In più “emozionanti” può riferirsi a grandi vittorie intese come trofei importanti, oppure partite vinte giocando molto bene, oppure maratone, sconfitte particolarmente dolorose, etc. Quindi si potrebbero fare diverse micro-classifiche, per esempio:
Top 3 maratone vinte:
– Finale di Wimbledon 2009, Federer b. Roddick 5-7, 7-6, 7-6, 3-6, 16-14
– Semifinale Giochi Olimpici 2012, Federer b. del Potro 3-6, 7-6, 19-17
– Ottavi di finale Roland Garros 2009, Federer b. Haas 6-7 (4-7), 5-7, 6-4, 6-0, 6-2
Top 3 maratone perse:
– Finale di Wimbledon 2008, Nadal b. Federer 6-4, 6-4, 6-7, 6-7, 9-7
– Semifinale Australian Open 2005, Safin b. Federer 5-7, 6-4, 5-7, 7-6, 9-7
– Finale di Wimbledon 2014 Djokovic b. Federer 6-7, 6-4, 7-6, 5-7, 6-4
Quali sono le più emozionanti o le più belle tra queste? Wimbledon 2008 ha avuto un livello di dramma altissimo, con uno dei tie-break più incredibili di sempre a chiudere il quarto set. Ma i più ritengono che da un punto di vista puramente tecnico la semi del 2005 contro Safin sia stata di livello superiore. La rimonta contro Haas è stata permessa anche da un calo progressivo del tedesco, ma rimane come una delle prove a denti stretti più dure affrontate da Federer, che era costretto ormai a vincere quel Roland Garros (poi effettivamente vinto), poiché la nemesi Nadal era stata eliminata.
Quindi, nell’impossibilità di scegliere tre partite che in tutto superino le altre, ne scelgo soltanto una che a mio giudizio rimane la più bella partita di tennis in assoluto almeno degli ultimi cinque anni: la semifinale tra Federer e Djokovic al Roland Garros del 2011.
Perché questa partita? Quell’anno Djokovic era ancora imbattuto, con 43 vittorie consecutive, e se avesse vinto quell’incontro sarebbe diventato numero 1 per la prima volta in carriera. Federer l’ha sconfitto in quattro set, raggiungendo quella che a oggi è stata la sua ultima finale a Parigi, affrontando Djokovic a tutto campo in un modo che non si è più ripetuto. Il punto non è la posta in gioco, il valore di questa partita è la pura qualità del tennis di entrambi: attacco e difesa impressionanti da parte di tutti e due, su una superficie come la terra battuta, dove non si vince di velocità, ma di resistenza e lucidità mentale costanti.
Quattro set tiratissimi, l’incontro finito quasi al tramonto, con Federer che con l’ultimo ace vince il tie-break del quarto e scongiura un quinto set che sarebbe stato giocato il giorno dopo per l’imminente oscurità. Djokovic era già il mostro di oggi, Federer all’ultima (forse) grandissima prova sul rosso. Una mezza maratona corsa con l’intensità di una gara sui 400 metri, vincenti a non finire, scambi lunghissimi pieni di intelligenza e coraggio tattico da parte di tutti e due, un’opera minore per gli albi d’oro, ma capolavoro premio della critica.
Sono un grande appassionato di calcio ed essendo italiano non posso che amare la Serie A, ma nello stesso modo non posso non rimanere deluso dallo stato in cui oramai da 7-8 anni è ridotto il campionato, anni luce distante da quello tedesco, ingese o spagnolo. Questo declino secondo voi si riuscirà a fermare? Per me sarebbe utile una riduzione del numero di squadre in tutte le categorie.
Grazie, Marco
Risponde Diego Tarì
Attualmente le squadre di calcio che partecipano ai campionati professionistici sono 96, divise fra Serie A (20), Serie B (22) e Lega Pro (54). In questa stagione si è osservata una prima riduzione in Lega Pro (erano 60) a seguito della mancata iscrizione per inadempimenti amministrativi, cui ha fatto seguito il ripescaggio di un numero più limitato di squadre per carenza dei requisiti richiesti.
Il dibattito in seno alla FIGC vorrebbe ulteriormente sfoltire questo numero, riducendo la Serie A da 20 a 18 club e la Serie B da 22 a 20 club. La discussione, più che sulla scelta in sé, verte in realtà sul modo in cui procedere e, soprattutto, sui meccanismi futuri di promozione e retrocessione: le squadre di Serie A spingono ovviamente per un criterio che limiti i rischi, con ciò però portando a un forte rischio di cristallizzazione degli equilibri.
Le ragioni per la riduzione sono essenzialmente di natura economica, anche se qualcuno prova a introdurre qualche concetto sportivo, sostenendo ad esempio che 18 squadre in Serie A consentono un numero più contenuto di impegni in campionato e quindi, potenzialmente, un rendimento migliore nelle competizioni europee. Si ritiene che un sistema più concentrato possa consentire una migliore distribuzione delle risorse, siano queste provenienti da potenziali nuovi investitori, ovvero per la gestione ordinaria (diritti televisivi). Questo vale in particolare per la Serie A, perché le altre due Leghe sono molto più povere.
Tutto ciò, però, si scontra con due fatti:
– da un lato il sistema è involuto perché strutturalmente mal organizzato e con poche attrattive per investitori potenziali. Non ci aiuta il “sistema Italia” in generale, con i suoi lacci e lacciuoli burocratici e fiscali, ma soprattutto il fatto che la distribuzione delle risorse televisive (si torna sempre lì, ma sono un buon 60% delle entrate della Serie A!) avviene in maniera da non consentire un vero salto di qualità a chi raggiunge risultati sportivi importanti e non appartiene all’elite;
– d’altro canto, se si guarda in Europa fra i campionati principali (le Big 5) solo la Bundesliga ha 18 squadre, mentre le altre ne hanno 20. Ci sono poi altre nazioni con un numero più contenuto di squadre partecipanti, ma il tutto è dovuto anche alle dimensioni della competizione (ad es. Grecia, Olanda, Portogallo e Turchia ne hanno 18, altre fra le quali Belgio, Repubblica Ceca e Russia 16).
La Serie A è in crisi economica, ma la situazione è comune ad altre competizioni che condividono i nostri stessi problemi, ovvero la polarizzazione dei ricavi intorno a pochi soggetti. Si salva in parte la Germania, dove il pur crescente dominio del Bayern Monaco va di pari passo con una Lega che ha saputo costringere le squadre ad adottare modelli di gestione virtuosi; emergerà sempre di più la Premier League, grazie all’enorme disponibilità economica e finanziaria derivante dai diritti televisivi, ma anche da una tradizione (e politica di sviluppo) che ha consentito di sviluppare merchandising e ricavi da stadio.
In sintesi: possiamo anche ripensare il format dei campionati riducendo il numero di squadre, ma se questo non va di pari passo con cambiamenti strutturali, è un benessere effimero che verrà presto sperperato. In questo senso la FIGC ha già introdotto una riforma interessante a marzo 2015, che produrrà i suoi effetti concreti nei prossimi 2-3 anni, e che imporrà maggiore rigore nella gestione dei club. Manca la seconda parte dell’intervento necessario (che però difficilmente arriverà): la rivisitazione dei criteri di ripartizione dei diritti televisivi.