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La parabola dei Clippers
11 ott 2016
11 ott 2016
Al sesto anno dell’era Lob City, i Clippers sono all’ultimo giro di danza: sarà questo l’anno buono per vincere?
(articolo)
14 min
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Nel suo libro d’esordio intitolato Grit: The Power of Passion and Perseverance, la psicologa Angela Duckworth ha teorizzato che la caratteristica più importante per avere successo nella vita sia la grinta, intesa come mix tra passione e perseveranza. Il successo quindi non è legato al talento o al “genio” — anzi, a volte ne è inversamente proporzionale — ma piuttosto all’aspetto caratteriale di una persona e alla sua capacità di sviluppare una “mentalità di crescita”, smettendo di credere che il fallimento sia una condizione permanente e rendendosi disponibile a fallire, sbagliare e ricominciare daccapo per raggiungere il successo nel lungo periodo.

Gli L.A. Clippers negli ultimi cinque anni — cioè da quando, con l’arrivo di Chris Paul, hanno dato inizio all’era di Lob City — pur disponendo di dosi massicce di talento hanno raccolto più che altro delusioni, dato che non sono mai riusciti ad andare oltre il secondo turno di playoff, perdendo contro tutte le migliori squadre dell’ultimo lustro di Western Conference. I primi sono stati i San Antonio Spurs (0-4 nel 2012), a cui sono seguiti i Memphis Grizzlies un anno più tardi (pur essendo sopra 2-0); dopodiché gli Oklahoma City Thunder hanno vinto in sei partite una serie che sarebbe potuta girare a favore dei Clippers in gara-5, se non fosse capitato il peggior finale di partita della carriera di Chris Paul; quindi la più cocente delusione in assoluto, la serie persa nel 2015 contro gli Houston Rockets dopo essere stati sopra 3-1. L’epilogo della scorsa stagione, l’eliminazione al primo turno contro i Portland Trail Blazers, può sembrare più sopportabile solo a prima vista: i Clippers avevano appena abbozzato i primi sogni di Finale NBA in seguito all’infortunio di Steph Curry che — come a ricordare la loro condizione di perenni perdenti — hanno visto infortunarsi Chris Paul e Blake Griffin in meno di 24 ore. Clippers being the Clippers.

Come buttare via la prima finale di conference della storia della franchigia

Tutti questi risultati deludenti hanno portato a creare una sorta di cliché attorno a questa versione dei Clippers: una squadra di grande talento capace di finire sempre tra le prime cinque a Ovest (mai sotto il 60% di vittorie dall’arrivo di CP3), ma alla resa dei conti incapace di fare quel passo in più per consacrarsi definitivamente e competere per quel titolo che finora è sempre stato un miraggio. Una squadra, in definitiva, a cui secondo il sentire comune manca la grit di cui parla la Duckworth.

Quello che sta per cominciare potrebbe essere l’ultimo anno in cui questo “nucleo storico” di giocatori ha la possibilità di cambiare la percezione attorno all’era che hanno costruito, perché a fine anno Chris Paul, Blake Griffin e J.J. Redick avranno la possibilità di diventare free agent. E se c’è una cosa che Kevin Durant ci ha insegnato nell’ultimo anno, è che non bisogna dare mai nulla per scontato quando si tratta di mercato NBA.

The Last Dance (?)

È inevitabile che la situazione contrattuale di tre dei quattro migliori giocatori del roster getti un’ombra diversa su tutta la stagione, facendole assumere i contorni di una sorta di “ultimo ballo”. I Clippers hanno già il monte stipendi più costoso della NBA a ovest di Cleveland e i prossimi contratti al massimo salariale di Paul e Griffin partiranno indicativamente da quota 35 e 30 milioni l'anno, senza considerare che Redick, pur 33enne, comanderà un contratto da almeno 15 milioni a stagione (ma è una stima molto conservativa) dato che la sua riserva, Jamal Crawford, ne ha ricevuti 42 in tre anni pur avendo scavallato le 36 primavere. Il proprietario Steve Ballmer si è detto disposto a pagare quanto serve per trattenere tutti i migliori, ma confermando quei tre a quel prezzo e sommando i contratti garantiti dei vari Crawford, DeAndre Jordan, Austin Rivers, Diamond Stone, Wesley e Brice Johnson si sfonda facilmente quota 136 milioni di dollari, con ancora 6 contratti per chiudere il roster. Sarebbe la squadra più costosa della storia della NBA, senza alcuna flessibilità salariale e con la spada di Damocle del non sapere se può davvero competere per il titolo.

Anche per questo motivo la stagione che sta per cominciare servirà per capire se questo gruppo di giocatori merita di essere confermato in blocco oppure se, alla vigilia del sesto anno assieme, ha fatto il suo corso ed è arrivato il momento di smontare il giocattolo. Non una decisione semplice, perché per quanto nell’album dei ricordi degli ultimi anni spicchino soprattutto le eliminazioni raccolte ai playoff, è anche vero che quest’ultimo lustro è di gran lunga il più vincente della storia della franchigia (ok, la concorrenza del passato non è esattamente insuperabile). In più, nella serie contro i San Antonio Spurs del 2015 — rimontando da uno svantaggio di 1-2 e poi di 2-3 — questo gruppo ha dimostrato di saper tirare fuori qualcosa in più quando messo con le spalle al muro. Esattamente dove si trova ora, come ha sottolineato giusto qualche settimana fa Blake Griffin in un pezzo su The Players’ Tribune: “Siamo al nostro meglio quando scendiamo in campo con una mentalità da ‘non abbiamo niente da perdere’. Di sicuro l’abbiamo avuta nella serie contro gli Spurs, che è stato probabilmente il punto più alto della mia carriera finora”. Ma i Clippers sono quella squadra o sono quelli che hanno perso al turno successivo contro Houston? Questa è la domanda a cui dovranno rispondere nel corso della stagione, e che li rende così tremendamente interessanti.

Quartetto d’élite

Da qualunque parte la si guardi, il quartetto formato da Paul, Redick, Griffin e Jordan è uno dei migliori dell’intera NBA ed è capace di produrre uno dei migliori attacchi della lega anche giocando con uno in meno. Le qualità dei quattro, arrivati al quarto anno insieme, si completano perfettamente: citando dal Vangelo secondo l’Annual NBA League Pass Ranking di Zach Lowe, “Chris Paul e Blake Griffin giocano un pick and roll mentre J.J. Redick taglia a ricciolo sul lato debole; Paul serve Griffin sullo short roll; il difensore di DeAndre Jordan si stacca per aiutare; Griffin alza il lob per la schiacciata di Jordan”.

Quando giocano così, possono segnare anche con Lance Stephenson completamente ignorato dalle difese

Nei 666 minuti in cui quei quattro sono stati in campo assieme, i Clippers hanno battuto gli avversari di 16.3 punti su 100 possessi, buono per il sesto posto dell’anno passato tra quelli che hanno giocato 500+ minuti. Ci sono due notizie a riguardo di quella classifica, una buona e una cattiva: la buona è che solamente un quartetto tra quelli che li precedeva è rimasto intatto, mentre gli altri sono stati smembrati dal mercato; la cattiva è che quel quartetto è il migliore in assoluto ed è quello formato da Curry, Thompson, Iguodala e Green a Golden State, che vantano un Net Rating di +33.5 a cui aggiungeranno Kevin Durant. Ma su questo torneremo poi.

Parliamo di quartetto e non di quintetto perché uno dei più grossi limiti di queste stagioni dei Clippers è stata l’incapacità di trovare il quinto elemento in grado di completare quei quattro, che idealmente avrebbero bisogno di un profilo di ala 3&D à-la-Jae Crowder che né Matt Barnes né Wesley Johnson sono stati in grado di ricoprire negli ultimi anni (e né tantomeno i vari Jared Dudley, Jeff Green, Reggie Bullock, o Lance che-Dio-ce-ne-scampi Stephenson). Nella scorsa stagione Doc Rivers ha provato vari esperimenti prima di promuovere stabilmente Luc Richard Mbah a Moute, commovente per dedizione e impegno difensivo, ma semplicemente inadeguato per un ruolo da titolare in una squadra che vuole considerarsi contender, visto che è completamente sprovvisto di tiro da fuori, azzoppando di conseguenza tutte le spaziature. Ciò nonostante, la sua presenza è servita a migliorare la difesa quel tanto che basta per farla passare da una mediocre a una da top-5 a fine anno, con il miglior rating difensivo dell’intera squadra quando è in campo. Non è una scelta ideale — soprattutto in vista dei playoff —, ma almeno in regular season ha funzionato, e per questo probabilmente verrà riproposto in questa stagione se il tentativo con Alan Anderson, partito titolare in pre-season, non dovesse funzionare. La scelta offensiva porta al nome di Jamal Crawford, che però concede un’emorragia di punti ogni volta che viene impegnato difensivamente (e nella sua carriera coi Clippers non ha mai tirato sopra il 37% da tre), oppure a Wes Johnson per alzare un po' l'atletismo. Coach Rivers ha anche annunciato che molto spesso inserirà suo figlio Austin — uno dei pochi atleti presenti tra le guardie — per marcare le point guard avversarie, permettendo a Paul di non sfiancarsi in difesa. Ma il ruolo di quinto elemento è un punto di domanda piuttosto grosso nella costruzione di questa squadra.

Un altro punto interrogativo riguarda la panchina, che pur potendo contare sul Sesto Uomo dell'Anno Jamal Crawford nella scorsa stagione ha chiuso concedendo 0,5 punti su 100 possessi agli avversari, soffrendo soprattutto nei minuti in cui Paul andava a riposarsi (rating offensivo a livelli Sixers/Lakers senza di lui). Nel corso dell’estate “Doc the GM” ha cercato di intervenire per migliorare la qualità di quelli che si siedono vicino a lui alla palla a due, ma ha perso Cole Aldrich (che quantomeno teneva la difesa in linea di galleggiamento mentre DeAndre era fuori) e lo ha sostituito con Marreese Speights (mai stato noto per le qualità difensive), aggiungendo gli indispensabili minimi salariali dei vari Raymond Felton (che a quanto pare sarà la point guard di riserva), Anderson, Dorell Wright e Brandon Bass ai confermati Crawford, Rivers, Johnson e Paul Pierce (all’ultima stagione NBA), oltre ai rookie Diamond Stone e Brice Johnson (fuori a tempo indeterminato per un’ernia del disco).

L’ombra lunga della Baia

Se se ne fa una questione di mero talento, sono veramente poche le squadre che possono contare su talenti del calibro di Paul, Griffin e Jordan a cui aggiungere un tiratore da 47.5% da tre come Redick. E guardando un po’ il resto della Western Conference, viene difficile non vedere come questa squadra — con l’ovvia necessità di rimanere sana, che però vale per tutte e 30 le franchigie e aleggia come uno spettro sopra tutte le preview che vengono scritte in questo periodo — non possa giocarsela di nuovo per arrivare tra le prime tre: gli Spurs sono alle prese con la transizione post-Duncan (oltre che già battuti due anni fa), i Thunder affrontano l’ignoto della vita dopo Durant; i Blazers e i Rockets non hanno le qualità difensive per reggere il confronto; ai Jazz potrebbero ancora mancare quelle offensive; i vari Grizzlies, Mavericks e T’Wolves sono o troppo vecchi o troppo giovani per rappresentare una reale concorrenza. Anche solo andando per esclusione, i Clippers insieme agli Spurs rimangono come la principale alternativa allo strapotere di Golden State nella Western Conference.

Da un punto di vista tecnico/tattico, i Clippers avrebbero anche il personale per poter pensare di dare fastidio agli Warriors: la coppia Griffin-Jordan è una delle poche combinazioni di lunghi “veri” in grado di stare in campo contro avversari veloci, facendogli sentire la loro presenza a rimbalzo offensivo grazie al loro atletismo e le doti in post di Griffin, che risultano indigeste alla maggior parte della lega. Chris Paul, poi, quando è al suo massimo rimane un mammasantissima della NBA sui due lati del campo, ed è dannatamente difficile quando gioca "corna" con Blake e DeAndre e può scegliere il modo migliore per vivisezionare una difesa. Solo che questi punti di forza rimangono più che altro teorici visto che Paul e soci, nonostante una serpeggiante rivalità, non battono Curry e gli altri dal Natale del 2014 — per quanto negli ultimi sei incontri solo una volta lo scarto sia stato superiore alla doppia cifra, con il +16 dello scorso marzo.

In quella occasione i Clippers erano privi di Griffin, che ha vissuto una stagione tremenda sia a livello personale (con la ben nota storia dei pugni al magazziniere della squadra, che ora non è più ai Clippers) che di infortuni, con un quadricipite che non gli ha dato sollievo fino alla ricaduta nei playoff contro Portland. In quel periodo però i Clippers sono riusciti a rimanere in linea di galleggiamento scoprendo quanto è bella la vita nell’era dello Small Ball: attorno al pick and roll centrale tra Paul e Jordan, i Clippers hanno costruito un attacco atomico (114.1 punti su 100 possessi nei minuti con Redick ma senza Blake) pur concedendo di più in difesa (105.2), facendo nascere da più parti la frettolosa idea che scambiare Griffin — considerando anche i problemi extra-campo — fosse la soluzione migliore per sistemare i problemi di profondità e di difesa del roster, raccogliendo una serie di ali versatili in grado di aprire il campo e di accoppiarsi specificatamente con gli Warriors.

I Clippers hanno poi deciso di non seguire questa strada, dando un’ulteriore possibilità a questo gruppo e sperando di ripercorrere le orme dei Dallas Mavericks campioni nel 2011: una franchigia che anno dopo anno ripropone una squadra da 50+ vittorie sperando di azzeccare la giusta congiunzione in cui tutti i pianeti — forma delle stelle, sanità del roster, percentuali dall’arco, coesione difensiva — si allineano perfettamente, senza smontare un gruppo di talento che, nel grande schema delle cose, tutto sommato funziona e si completa bene dal punto di vista personale.

Solo che il confine tra continuità e stagnazione è sottilissimo, soprattutto quando nella propria conference si presenta un avversario del livello di questi Golden State Warriors, che ridefiniscono la concezione stessa dell’aggettivo “forte” in NBA, ponendo l’asticella a un livello a cui solo i Cleveland Cavaliers — per la presenza di LeBron James e il rispetto dovuto ai campioni in carica — possono aspirare. Tutto il resto rimane sotto, con un gap ben visibile nella prima uscita di pre-season tra Warriors e Clippers al di là dei 45 punti di scarto finali.

Sì, “è solo pre-season”. Però leggiamola anche dall’altra parte: quando inizieranno a conoscersi meglio, fino a dove possono arrivare?

Grit

All’inizio del pezzo ho scelto di citare il lavoro della Duckworth per un semplice motivo: è uno dei libri più citati da J.J. Redick nel suo meraviglioso podcast su The Vertical, che rappresenta l’esperimento più interessante in questa epoca storica in cui tutti gli atleti professionisti hanno la possibilità di proporre contenuti editoriali in prima persona — che sia attraverso un pezzo su The Players’ Tribune o un video su Uninterrupted. A differenza di tutti gli altri, però, quando Redick si mette davanti al microfono non ha il filtro di un social media manager/ghost writer/autore tra quello che realmente dice e quello che arriva nelle cuffie dei nostri smartphone (se non un lavoro di preparazione delle domande e di editing in post-produzione), e per questo mi piace pensare che ciò che dice sia autentico. Ascoltando la sua puntata successiva all’eliminazione dai playoff con Jamal Crawford, avevo la sensazione non solo di trovarmi nello spogliatoio con loro dopo la sconfitta in gara-6, ma quasi di assistere a una seduta di psicoterapia per condividere e superare la delusione sportiva di due giocatori che, ben oltre i 30 anni, per l’ennesima volta si trovavano a contemplare la sconfitta e la prospettiva di ricominciare da capo la lunga e sfiancante routine di allenamenti, dieta e sacrifici che contraddistingue la vita di qualsiasi professionista di alto livello.

Per questo Redick si ritrova nelle parole della Duckworth e la cita ogni volta che può: lui è convinto di essere in possesso della giusta dose di grinta, intesa come passione per il proprio lavoro e determinazione a non arrendersi davanti alla sconfitta, per arrivare un giorno a vincere il titolo NBA. Soprattutto — e questo è ancora più interessante — non perde l’occasione per ripetere a noi e anche un po’ a se stesso che il gruppo storico dei Clippers è in possesso di quella mentalità teorizzata dalla Duckworth, ma che per qualche motivo non è mai riuscito a raggiungere il suo pieno potenziale.

Redick stesso, nella puntata registrata settimana scorsa con il proprietario Steve Ballmer, dice che “il più grande punto di domanda sulla nostra squadra è la parte mentale: abbiamo quella marcia in più, possiamo salire a un altro livello durante i playoff e vincere tutto?”. Dopo la risposta di Ballmer, Redick dice: “In ogni stagione della mia carriera decennale ho fatto i playoff e quella contro San Antonio è stata di gran lunga la serie più dura in cui ho mai giocato. Con i Magic abbiamo vinto in gara-7 a Boston contro i Celtics campioni in carica, ho giocato in gara-7 contro gli Warriors nel 2014, ma non vanno neanche vicine a quella con gli Spurs. E per questo penso che abbiamo la giusta mentalità per vincere”.

Ma è davvero così? Perché il tempo per teorizzarlo è finito, dato che questa potrebbe essere l’ultima occasione per dimostrare che il resto del mondo si sbaglia. In America dicono “make it or break it”, o la va o la spacca: la parabola dei Clippers è arrivata a quel punto lì, e scoprire se ce la faranno è una delle storie più intriganti della stagione NBA che non vediamo l’ora di iniziare a seguire.

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