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La pace di Mario
27 feb 2017
27 feb 2017
La vita interiore di Mario Mandzukic, ossessionato dalla lotta e amante della pace.
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È il tipo di giocatore che qualsiasi tifoso vorrebbe in squadra. Non molla, pensa al bene comune, fuori dal campo ha un comportamento ineccepibile. Ha evidentemente ragione, perciò, quando dice: “Ovunque ho giocato, ho sempre avuto un rapporto meraviglioso con i tifosi”.

Lo dice, alla fine del 2015, in un'intervista al giornale croato "Sporstke Novosti" dove contestualmente spiega di non gradire le interviste: «Amo la mia pace».

Il punto è che non gli interessa aggiungere niente a quello che dà in campo. A trent'anni ha vinto sei campionati nazionali, una Champions League e quattordici coppe in quattro Paesi. Ha messo insieme quasi quattrocento presenze in squadre di club e segnato 29 gol in nazionale maggiore. Nonostante questo, se ne parla relativamente poco. Nella rappresentazione condivisa gli manca il luccichio dei top player. Lui non pare soffrire la cosa.

Oltre la forza

Quando arriva alla Juventus, è appena partito Tévez. Negli ultimi tre anni ha realizzato un minimo di venti gol a stagione, ha giocato in club prestigiosi, col Bayern è andato a segno in finale di Champions League. Arriva in Italia con la benedizione di un altro croato ex juventino, Alen Bokšić. Eppure la situazione di Mandžukić non è semplice, il suo nome è poco altisonante. «Alcuni tifosi, com'è ovvio che sia, avevano i loro dubbi su di me. Ma è normale» ha ricordato tempo dopo.

Il blasone della società lo impressiona, ma è consapevole che non bisogna adagiarsi: «Non basta indossare la maglia e aspettare che gli altri cadano ai nostri piedi. Dobbiamo essere belve feroci, così si vince».

Mandžukić è ossessionato dalla lotta. Tutto è battaglia, determinazione. La lotta va intesa come espressione d'impegno. Non c'entra la forza, come si potrebbe pensare. Anzi, secondo lui è sopravvalutata: «Dobbiamo vedere oltre la forza fisica. Si trascura troppo l'importanza dell'esperienza di un calciatore».

Si riconosce come dote principale il pressing, il gioco per la squadra. E quello che chiama “il coraggio incondizionato”.

Tutti i gol della prima stagione importante, al Wolfsburg nel 2010/11. Quello a 0:36 è particolarmente indicativo, per l'idea follemente ambiziosa che ha dietro e per la velocità di quel corpo che si fa immarcabile.

Un titolo, quello di capocannoniere della Bundesliga 2013/14, l'ha solo sfiorato. Secondo lui la colpa è di Guardiola, il suo tecnico, che a fine stagione non l'avrebbe schierato proprio per togliergli questa gioia. Oggi Mandžukić dice che non ci prenderebbe neanche un caffè.

È l'unico caso in cui parla male di un tecnico che ha avuto. Il problema evidentemente non è la concorrenza, il fatto di non essere la prima scelta. La maglia da titolare se l'è sempre dovuta sudare. Al Wolfsburg c'è Džeko e lui viene dirottato sull'ala sinistra. All'Atlético ha la concorrenza di Fernando Torres e Griezmann, ma con Simeone il rapporto è leale e lui segna 20 reti in 43 presenze. E anche nelle ultime due stagioni riesce a trovare spazio, nonostante il parco attaccanti della Juventus.

In generale, Mandžukić pensa che ogni giocatore deve farsi apprezzare dall'allenatore: andare lui verso la maglia, non il contrario. Anche qui, l'ossessione: “Bisogna lottare per ricevere attenzione dall'allenatore”.

Pronto a mettersi a disposizione, duttile, elastico mentalmente, non sembra casuale l'ottimo impatto che ha sempre avuto con le sue squadre.

Ha segnato all'esordio sia con l'NK Zagabria, sia con la Dinamo. Ha segnato alla seconda con l'Atlético Madrid, un gol pesantissimo nella Supercopa vinta contro il Real. E ha segnato alla prima assoluta con la Juventus, in finale di Supercoppa italiana contro la Lazio. Lui che pure non è un goleador. O almeno, non è quello che gli interessa essere.

Leader by example

C'è anche una storia brutta legata a un esordio. È la sua prima gara in serie A, contro l'Udinese, e colpisce un cartellone pubblicitario. Gli si apre una ferita sul gomito, che si infetta e lo tormenta per settimane, deve fare cicli di antibiotici: «Qualche volta sono rimasto sveglio tutta la notte, pensando a cosa mi stava accadendo. Non riuscivo a vincere la paura».

Non ne parla pubblicamente: «Si sarebbe detto che cercavo degli alibi. Non voglio lamentarmi, non sono quel tipo di persona». Si confida però con i compagni di squadra: «Sentivo la necessità di giustificarmi. Ho chiesto pazienza. E ho detto che avrei lottato per cambiare le cose».

«Non sono più lo stesso, quando non mi sento al cento per cento per combattere» conclude.

Non conosce autoindulgenza. È quindi una manifestazione di enorme stima per il Paese in cui vive da due stagioni, quando dice: «Gli italiani sono molto obiettivi nelle loro opinioni, sono severi con loro stessi».

Per i compagni di squadra cerca di essere un esempio: «Se io corro al massimo, magari anche loro corrono di più. In questo sento di poter essere un leader».

Il senso del collettivo è una pietra angolare della sua interpretazione del calcio. Dice che per aiutare mette tutta l'energia che ha. Non dev'essere stato sempre così, se a Wolfsburg il tecnico Magath gli ha fatto 10mila euro di multa perché non tornava a difendere. Già in Spagna, comunque, Mandžukić aveva le idee chiare: «Devi sbucciarti le ginocchia sul campo, per la squadra».

Oggi ripiega in aiuto di un reparto difensivo composto da persone che stima. Li conosceva da avversari, per le gare nazionali e gli incroci in Champions League. Buffon era stato anche uno dei suoi idoli da giovanissimo. Con Barzagli aveva giocato insieme nel primo anno a Wolfsburg, 2010/11. Con Chiellini invece c'erano stati scontri duri ma onesti: «Un duello tra veri uomini. Niente pacche sulle spalle o pianti». Erano i Quarti della Champions League 2012/13, nel ritorno Mandžukić aveva segnato, il Bayern aveva eliminato i bianconeri.

In quell'occasione il compagno Javi Martinez commentò: «Mario ha fatto l'attaccante, il centrocampista e il difensore».

Copre tutti i ruoli. A Monaco di Baviera ha fatto anche il portiere in allenamento. In questo spot arriva a sdoppiarsi e fare anche l'arbitro.

«Volevo essere il migliore»

Da ragazzino era piccolo, fisicamente. «Però ero tenace, avevo molta resistenza» ricorda. Resistenza e velocità, se a undici anni copriva 3.300 metri nei 12 minuti del test di Cooper.

Comincia tutto con suo padre, “un bravo stopper” come lo definisce, un uomo che lo avvicina al calcio, a quello che considera “un amore viscerale”. Oggi la figura del marcatore è l'avversario di Mandžukić. Ed essere sostituito, smettere di giocare, lo addolora. Lui stesso paragona il momento a quando da bambino stai giocando in cortile e ti chiamano, devi tornare a casa. In quei casi protesta, si dispiace. «Non riesco a nascondere le mie emozioni. Non sono un robot» ha detto.

È nato il 21 maggio 1986, nella regione storica della Slavonia, a Slavonski Brod (“Guado della Slavonia”), una cittadina di sessantamila abitanti sul fiume Sava. Allora quella era Jugoslavia, oggi è Croazia ma a una manciata di chilometri dal confine bosniaco.

Nel 1992 con i genitori e la sorella lascia i Balcani in guerra. La famiglia si trasferisce a Ditzingen, vicino Stoccarda, dove il padre si aggrega alla squadra della cittadina, e gioca in Regionalliga con i futuri nazionali Fredi Bobic e Sean Dundee. Mario inizia ad allenarsi con le giovanili locali, dove viene ricordato così: «Era veloce, irrequieto, e calciava palloni forti come bombe».

Quattro anni dopo la guerra è finita e la famiglia Mandžukić torna a Slavonski Brod. Mario gioca nella squadra della città, l'NK Marsonia (il toponimo ai tempi di Roma antica), dove vorrebbe essere schierato da centrocampista invece che da attaccante, e intanto studia nella scuola per artigiani piastrellisti. I colori sociali della squadra sono il bianco e il nero, addirittura indossano le maglie ufficiali della Juve con lo stemma del Marsonia sopra.

Nel 2012, dopo un gol al Norimberga, Mandžukić fa il saluto militare e tende il braccio in onore dei generali Ante Gotovina e Mladen Markač, che il tribunale dell'Aia ha appena assolto in appello dopo la condanna per crimini di guerra e contro l'umanità. Scoppiano grosse polemiche, lui si difende in un modo ambiguo: “Ho salutato la Croazia e i suoi tifosi”.

Da ragazzino, in tuta bianco-verde. Il suo amico al centro ha uno zuccotto dei Chicago Bulls veramente anni Novanta.

Si distingue nel Marsonia e ruba l'occhio a Blažević, che pochi mesi dopo sarebbe stato il Ct della mitica Croazia dei Mondiali francesi. Con il suo favore nel 2005, dopo una parentesi in prestito al Zeljeznicar, lascia la società in cui è cresciuto e va a vivere a Zagabria.

Due stagioni con l'NK e tre con la Dinamo. Qui il controverso presidente, Zdravko Mamić, lo adora, lo odia, gli dedica una poesia e lo punisce con una multa pesantissima per essere andato in discoteca. Nel suo Paese, Mandžukić vince tre campionati, due coppe nazionali e un titolo di capocannoniere.

Quando lascia la Croazia, per andare in Germania come da bambino, mantiene il contatto attraverso la Nazionale, con cui ha esordito nel 2007.

Il punto di svolta lo segnano gli Europei del 2012: segna tre gol, uno contro l'Italia di Buffon, si vede a occhio nudo quanto sia pronto per un'evoluzione. In quell'estate passa dal Wolfsburg al Bayern Monaco. Ha ventisei anni, non ha bruciato i tempi. “Quando sei giovane la cosa più importante è avere pazienza, lavorare e migliorare” ha detto alcuni mesi fa.

Con la maglia a scacchi ha giocato 74 gare, da anni è il centravanti titolare, ha indossato la fascia da capitano. Eppure, ancora a ridosso di Euro 2016, l'esperienza in Nazionale non lo soddisfaceva. «Passare i gironi non mi basta. Dobbiamo sviluppare ambizioni maggiori». Nel girone della Croazia c'era la Turchia, che lo preoccupava: “Grandi lottatori”.

Nell'autunno 2015 la selezione è in crisi di risultati. Il tecnico Niko Kovač paga con l'esonero, Mandžukić dice che questo non dev'essere un alibi per i giocatori: “Non vogliamo fuggire dai nostri insuccessi. È una cosa che non faccio con me stesso per primo”.

Il nuovo Ct, Ante Čačić, lo colpisce da subito: dopo gli allenamenti si sente molto stanco, “segno che ho lavorato duro”.

Slavo e costante

Un metro e novanta in corsa per novanta minuti. Mandžukić contraddice le attese sul rapporto tra fisicità e ruolo. È l'evoluzione della torre intesa classicamente, non più statica nell'attesa ma partecipe di ogni fase di gioco.

E contraddice anche gli stereotipi culturali più vieti. Il calciatore slavo incostante, un po' matto, diventa con Mandžukić un modello di affidabilità e rigore. Il gigante duro e puro diventa uno che a proposito del suo cane, il carlino Leni, dice che lo “rende felice”.

Prima di ogni gara si fascia ritualmente entrambi i polsi. Sembrano le bende di uno sport da combattimento. D'altronde Salihamidzic, suo compagno a Wolfsburg, lo ha definito uno Straßenkämpfer, un combattente di strada.

Sembra riguardare la scaramanzia anche il numero 17, che ha sulla maglia della Juve ma viene da lontano: è quello che porta in nazionale e con cui ha esordito tra i professionisti.

Tra i suoi molti tatuaggi, spiccano un poker d'assi sull'avambraccio e il brano di una preghiera in croato rivolta all'angelo custode. Ma più degli altri, si conosce la storia di quello sulla schiena, la massima di Nietzsche: “Ciò che non mi uccide, mi rende più forte”, dove però i caratteri ebraici sono scritti al contrario e ci sono errori grammaticali.

Quest'anno ha già superato i duemila minuti di presenza in campo, giocando più di Dybala e poco meno di Higuaín. Mandžukić avrebbe potuto chiedere la cessione, ha osservato pubblicamente il suo tecnico, ma il posto gliel'avrebbe garantito solo una squadra di livello inferiore. E insomma: “Ha capito”, per dirla con Allegri.

La concorrenza sembra il suo luogo naturale, perché invita alla lotta. La devozione al lavoro gli permette di farsi trovare pronto.

Una volta ha detto: «Quando sentirò di non essere più lo stesso, allora ringrazierò e mi ritirerò. Nessun altro può deciderlo per me». Si riferiva alla nazionale, ma è un ragionamento che si può estendere al calcio giocato.

In futuro Mandžukić si vede allenatore. Di certo vuole restare nel calcio, “perché questa è la mia vita”. «C'è ancora molto tempo, adesso devo combattere per essere un giocatore che merita di stare in grandi club e fare gol per vincere tutti i trofei che esistono».

Per lui che ha vinto quasi tutto, deve significare al tempo stesso: dare l'esempio, non adagiarsi, restare belve feroci.

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