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(di)
Lorenzo Iervolino
La medaglia spezzata
16 ott 2018
16 ott 2018
Storia del bronzo di Giuseppe Gentile a città del Messico.
(di)
Lorenzo Iervolino
(foto)
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«Ho sognato la terra,
scorrere sotto di me.
Il mio corpo in aria, leggero,
si distendeva con ali d’aquila.


            In quelle notti appartenevo agli dèi,
sfioravo l’immortalità.
Come tanti, sognavo di volare.
O forse, semplicemente,


            il salto perfetto».




 

«Gigi Rosati, il mio allenatore, mi diceva sempre che io dovevo andare là, fare un salto, e tornarmene a casa, perché gli altri non sarebbero stati all’altezza. Diceva

Allora una volta fermai l’allenamento e gli dissi

,

».

 

L’uomo che ti siede davanti ha settantacinque anni, i baffi grigi sottili. Ti guarda con gli occhi del marinaio che si è perso nella tempesta del tempo. Le gambe lunghissime sono infilate sotto un tavolino bianco, al centro di un ufficio bianco, irradiato di luce bianchissima e gelida. Il corpo massiccio e i movimenti energici, netti, ti convincono che anche lui (come tanti altri ex atleti), appartenga a quella categoria di uomini nati per vivere all’aria aperta. All’aria aperta soltanto.

 

«Così quando rientrai in Italia e ci incontrammo di nuovo – perché lui la FIDAL non lo mandò in Messico – e mi chiese

Io gli risposi

. E chiusi l’argomento».

 



Non sei qui per lui. Dopo (quando lascerai la Scuola dello sport affaticato dalle sue ferite), ti accorgerai che non era vero. Che non era completamente vero. Ma adesso non sei qui per lui. E glielo hai detto. Sei qui per continuare a immaginare Messico ‘68. Per capire che aria si respirava attorno al podio della finale dei 200 metri, dal quale Tommie Smith e John Carlos mostrarono i pugni chiusi nei guanti neri, accanto a un Peter Norman orgoglioso e complice. Smith e Carlos sui quali stai scrivendo un romanzo. O un saggio narrativo. O una seduta spiritica letteraria. Smith e Carlos: due atleti nel posto giusto, ma con la pelle del colore sbagliato.

 

Di Giuseppe Gentile sai poco (poi conoscerai tutto, leggerai centinaia di pagine scritte di suo pugno, ascolterai parole dalle voci di altri), e del salto triplo solo qualcosa in più. Sai che la prima medaglia d’oro delle Olimpiadi moderne se l’aggiudicò proprio un triplista; uno studente americano che raggiunse Atene il giorno stesso dell’inaugurazione, il 6 aprile 1896, appena in tempo per saltare. Si chiamava Connolly. Si ritirò dall’Università di Harvard perché non volevano lasciarlo partire. Poi, forse per vendetta, finì a fare il romanziere. Sai che già da quella prima edizione il salto triplo venne giudicato ambiguo, irrisolto, contraddittorio: si salta in alto o in lungo? E poi non sembrava un gesto nobile. Ricordava i bambini che giocano tra i fossi –

– evitando l’acqua, rimbalzando sulle pietre. Sai che il triplo non proviene dai venerati giochi greci, ma da quelli celtici. James Brendan Connolly, il primo campione, non a caso, era americano di passaporto ma irlandese di sangue.

 



 

Sai che per rispondere a quell’ambiguità (

si edificarono scuole di pensiero. Giapponesi. Sovietici. Polacchi. Ciascuno con la propria concezione della distanza perfetta tra i salti, del numero di passi in pedana, dell’altezza da far raggiungere all’atleta nelle fasi di sospensione. Ricordi

a Londra 2012. Anche lui bronzo, a trentasei anni. Lo avresti voluto abbracciare.

 

E sai, poi, soprattutto, che la gara che ha fondato l’epica di questa disciplina ha visto l’uomo che hai davanti – lo sguardo del marinaio, i baffi grigi sottili – come assoluto protagonista. Ma non sei qui per lui e glielo hai detto. Infatti di Giuseppe Gentile sai quel che sanno tutti. Il suo prozio Giovanni ministro del Fascio, la Roma bene, i record inutili. Sai di Giasone e della

Callas, di un giovane uomo dalla bellezza struggente. Quello che non sai (e che stai per imparare) è che vincere una medaglia olimpica può significare, in qualche rarissima circostanza, la morte di un sogno. Un sogno sognato per anni. Tutte le notti, senza eccezione. Planare come un’aquila, oltre ogni limite umano.

 

«Dopo trentacinque anni mi sono reso conto che avevo fatto una grande fesseria a dare quella risposta e mi decisi, dopo tanta macerazione, a rimediare. E per rimediare ho intrapreso prima di tutto un processo personale, ho incominciato a ripercorrere tutta la mia strada, e da questa sono usciti fuori tutti i ricordi che avevo cancellato, e anche la positività di questi episodi. In più è uscito fuori che – finalmente – ho fatto i conti con la mia sconfitta e l’ho accettata, che per me era la cosa più importante. Ma ti sto parlando di me e non di Carlos e Smith, non so se va bene…»

 

Sai che la memoria funziona come una pulsantiera. La sai usare, la memoria degli intervistati. Ne hai avuti davanti a centinaia. Una foto, un vecchio documento. Un episodio di guerra. Trovare il pulsante giusto. E la memoria riconsegna. Perché la memoria funziona come una pulsantiera, e come un registro emotivamente codificato. Per far scattare il congegno ci vuole tempo. Devi accettare di lasciar fluire quello che non sai. Infilarti nell’imprevisto. Nei cerchi concentrici. Percorsi che si azzannano come cannibali. Cogliere le immagini, i flash, capire se si tratta degli inneschi giusti. Far tornare indietro il tempo divorato dalla polvere. Ogni intervista un giro diverso. Ogni memoria la sua traiettoria. E allora dici che sei contento di sentire la sua storia. E aggiungi che lo sei di più, ora che sai che la sofferenza è finita, perché nel DVD che hai portato per lui, c’è proprio il video della gara. Di

gara.

 

«Va benissimo. Ripartiamo dall’inizio, allora» gli dici. E ti metti comodo. Ogni intervista un giro. Ogni memoria la sua traiettoria.

 



«Credo che tutto ebbe inizio all’interno di una sala cinematografica. Avrò avuto dieci o undici anni, e da un paio avevo preso l’abitudine di andare al cinema, di pomeriggio, rigorosamente da solo. All’epoca abitavo a Montesacro e andavo a vedere spesso i film che facevano al Cinema Espero, che stava vicino casa dei miei. Neanche guardavo che c’era in programma, andavo là a prescindere. Mi piaceva l’idea di ritrovarmi una storia che scorresse davanti ai miei occhi. E una volta davano

, con Burt Lancaster che interpretava il grande campione americano Jim Thorpe, l’atleta pellerossa che aveva strabiliato il mondo alle Olimpiadi del 1912. Quel giorno scattò in me la scintilla. Quel giorno nacque

».

 

Il sogno. L’ossessione. Il bambino che s’immagina aquila. Il bambino che rimane nel corpo dell’uomo. Solo così l’atleta sarà un professionista che gioca. Gentile prende fiato e ti guarda. Anzi ti fissa. La pausa è indagatrice. Ti chiede infatti se conosci la storia di Jim Thorpe e tu la conosci appena. Poi leggerai tutto il possibile su di lui, ma adesso sai solo che quelle medaglie olimpiche vinte a Stoccolma gli vennero ritirate per presunta infrazione della regola del dilettantismo. A Thorpe imputarono di aver partecipato a esibizioni di baseball assieme ai pro, e quindi via i due ori. Un pretesto, ovviamente. Quel che non andava bene era che Jim fosse nato in una riserva di nativi americani dell’Oklahoma e che fosse al contempo il miglior atleta statunitense vivente. Saltava in alto, gareggiava nell’eptatlon e nel decathlon, era un running back dominante a livello universitario e dopo quelle Olimpiadi giocò nelle Majors Leagues di baseball. Per i giornalisti suoi connazionali è lui

. Più di Babe Ruth. Più di Muhammad Ali e Michael Jordan. All’epoca, questa sovraesposizione era inammissibile, per un

.

 

All’inizio degli anni Cinquanta la famiglia Thorpe tentò di farsele dare indietro, le medaglie. Alla presidenza del Comitato olimpico statunitense era salito un ex compagno di nazionale di Jim, un certo Avery Brundage. I figli del campione ormai anziano pensarono potesse essere clemente. Inoltrarono richiesta ufficiale. Tentarono di farsi ricevere. Infine implorarono. Loro padre morì nel 1953, alcolizzato e in miseria. Fece in tempo a vedere il film sulla sua vita. Non la riconsegna delle medaglie. Brundage infatti era tra quelli che si opponevano con fermezza ai diritti delle minoranze. Nel suo circolo di atletica a Santa Barbara, in California, l’accesso era proibito ai neri e agli ebrei. Nel 1968, in qualità di presidente del CIO, fu proprio Brundage a espellere dal Villaggio olimpico Tommie Smith e John Carlos, dopo i loro pugni stretti innalzati dal podio dei 200 metri, e a radiarli dalla competizione. Sempre Brundage, ottantacinquenne, diede il via al terribile

, dopo l’assalto di

al cuore vivo di Monaco ‘72. Lo spettacolo doveva andare avanti. Tutto quel sangue, essere dimenticato in fretta. Le medaglie di Thorpe tornarono alla famiglia solo all’inizio degli anni Ottanta. Tardi. Troppo tardi, per ritenerla una vittoria.

 

«La prima volta che saltai il triplo fu per caso. Diciamo

, ma poi non è mai per caso. Avevo avuto risultati sul Decathlon (dove non era previsto il triplo, ti dice,

), correvo abbastanza bene i quattrocento ostacoli e saltavo in alto. Ma nel ’59 – era, mi sembra, primavera – un giorno vado al campo e Gigi mi dice che avremmo provato il triplo. Perché la società sportiva aveva bisogno di qualcuno che coprisse questa gara un po’ strana.

 

Dissero

. Così andai al campo e Gigi mi disse

. Mi disse si fa così così e così, io allora salto e lui mi disse

fece lui. Io sono andato e ho fatto una misura che mi hanno chiamato subito in nazionale. Dovevo fare undici metri e ho saltato 13.92. Cioè dopo una settimana dal primo salto triplo della mia vita ero già convocato in nazionale juniores. Ecco, ho iniziato così».

 

Gentile va ad allenarsi a Formia, il

dell’atletica italiana. E intraprende la sua pratica di solitudine, di applicazione. Di devozione alla sacralità della routine. Ma è stato bravo, ti dici, a infilarsi nel minuscolo e criptico spazio che il caso ti lascia, dove spesso c’è tutto quello che basta a un uomo per sentire, istintivamente, l’approssimarsi di un’opportunità. La sua.

 

Salterà ancora, saltuariamente, in alto; più spesso in lungo. Del lungo (diversi anni dopo) si prenderà anche il record italiano con 7.91, un record che durò dodici anni e che scalzava quello di Arturo Maffei (sì, proprio il Maffei testimone del saluto – o del “non-saluto”, a seconda di come vediate un episodio raccontato da un solo osservatore – tra Hitler e Jesse Owens a Berlino ‘36), che aveva resistito oltre tre decenni. Amerà sempre i 400: «lo sforzo perfetto, in cui l’atleta si gioca tutto in un solo giro di pista». Ma d’ora in avanti, il caso –

– lo ha trasformato in un triplista.

 

A Formia cresce e migliora. Dal primissimo salto in cui non aveva raggiunto i 14 metri, in due anni e mezzo è già arrivato a saltare 15.79. A vent’anni è il talento italiano emergente nella sua disciplina. Ma a quel punto va in crisi. Succede qualcosa che non si sa spiegare. Forse, la colpa è proprio della sua eccessiva sicurezza. E di alcuni infortuni che lo destabilizzano mentalmente. Nel ‘62 gli Europei di Belgrado sono per lui un disastro. Inizia un periodo in cui sfiora la depressione. Per tre anni non salta più di 15.50. Si è bloccato. La testa si disconnette. Poi Rosati gli “cambia piede”, gli dice

Intende: per il salto finale.

 

La sua sequenza di salto non sarà più sinistro-sinistro-destro. Ma destro-destro-sinistro. Per un saltatore di triplo, una rivoluzione. Per fortuna Gentile è ambidestro, e abbastanza disperato da acconsentire. Il 29 giugno 1965 nello stadio della Farnesina, a Roma, salta 16.17, nuovo record italiano. Staccando col sinistro. Già ad agosto, alle Universiadi di Budapest, fa 16.31. Sembra la sua rinascita. Un’ascesa, stavolta, definitiva. Ma lo aspettano altri tre anni di alti e bassi. Più bassi che alti, in realtà, tanto che la FIDAL inizialmente lo estromette dalla lista per il preolimpico del 1967. Alla fine ci va, ma non gareggia per un infortunio. Però respira l’aria delle successive Olimpiadi estive. E, evidentemente, gli fa bene.

 

All’inizio della stagione 1968 riparte. Salta 16.52 a Trieste, nei campionati italiani che vince senza rivali. Fa 16.74 a Katowice. E prima di partire per il Messico salta alle Terme di Caracalla: mentre è in fase di volo si accorge che la pedana romana è però troppo corta, e rischia di superare la buca. Allora abbassa le gambe invece di distenderle. Affonda nella sabbia strozzando la fase finale del salto, per non sfracellarsi sulla pista. Fa comunque 16.70. È in una forma grandiosa. Nella sua testa sente i 17 metri. Li percepisce nettamente. Quei mitici e inarrivabili 17 metri, superati per la prima volta dal polacco Josef Szmidt, col quale Gentile si è allenato spesso a Formia. Medaglia d’oro a Roma ‘60. Medaglia d’oro a Tokyo ‘64. Trentatré anni: un monumento vivente. Gentile parte per Città del Messico sentendosi al suo livello, al livello del Josef Szmidt detentore del record del mondo: 17 metri e 3 centimetri. Un record del mondo che – l’italiano ne è convinto – ha, ormai, i giorni contati.

 



«Da quando arrivi fin quando tocca a te gareggiare, sei un po’ fuori dalla vita vera. Apprezzi la bellezza del Villaggio, ti confronti con atleti di ogni provenienza, ma esci dalla realtà. Io ad esempio vivevo la preparazione in uno stato di trance. Da una parte è bello, ma dall’altra è anche una sorta di vita da escluso. Da escluso dalla realtà di tutti gli altri, intendo. La condivisione con gli atleti è particolarmente gratificante: si sta insieme con chi non ce la farà, con chi si farà male ma anche con chi vincerà. E io l’ho sempre percepita come una élite mondiale, non di tipo fisico, però: di tipo culturale. Perché là ci sono tutti i migliori, tutti i candidati a diventare primatisti mondiali. Il problema è il dopo. Perché nel dopo, sia che tu abbia vinto che abbia perso, ritorni nella normalità. Se hai vinto, vivrai una parte di carriera in maniera diversa, spinto dai benefici che la vittoria olimpica ti porta. Se perdi, secondo me, avrai una crescita culturale e personale nettamente superiore, perché dovrai affrontare una realtà traumatica che ti richiede un impegno superiore.

 

Pensi che sei ancora lontano. O meglio: che

ancora

, perché questo percorso si fa in due. Lontani, sì, ma non poi così tanto. Ti tiri su sulla sedia. Spalanchi i tuoi centri percettivi. Fammi vedere le Olimpiadi, Beppe, pensi. «Mi racconti quel che vede», gli dici.

 

«Provi a iniziare dalla prima cosa che le viene in mente».

 

«

Mi vengono in mente le camere. Le camere in cui alloggiavamo erano enormi, potevano contenere quattro letti e invece ne avevano due. Io, per questioni di altezza, ero in camera con Giacomo Crosa. Avevamo questi letti di quasi due piazze e lunghi due metri e quaranta, che erano per i giocatori di basket ma erano scomodissimi, perché io ero abituato a poggiare i piedi sul fondo del materasso e là non ci arrivavo. Ho dormito alcune notti mettendomi in basso in basso fino a che non mi uscivano un po’ i piedi, come facevo a casa mia. Da quando ero bambino».

 

Qui i suoi occhi cambiano. E te ne accorgi. Se potesse si rannicchierebbe in posizione fetale. I processi mnestici si stanno saldando alla sfera emotiva. Eccoci. Sei arrivato, ti dici. Adesso il tuo lavoro inizia per davvero. Dalla questione del letto lo porti a visualizzare quel che ha intorno. I suoi occhi si aprono nel 15 ottobre del 1968, latitudine 19°25′42″ Nord, a duemila duecentoquaranta metri sul livello del mare: siete a Città del Messico. Gentile vede gli arredamenti, sente gli odori. Entra in mensa e ti descrive i piatti, le stoviglie, il bianco del gesso sulle lavagne rettangolari. I volti delle persone. I suoi dettagli si aggiungono a quelli degli altri campioni di allora con cui hai già parlato. Tu la chiami

. Elementi visivi, sensoriali, emotivi. Ti racconta di tutti i secondi passati ad aspettare il momento della gara. Il

momento. Li ha contati, uno per uno, con Giacomo Crosa, che tu immagini con gli occhi semichiusi e aggrottati, abbagliato dai riflettori dello studio del TG5, ma che, invece, nella sua vita precedente, era stato saltatore in alto (sesto, a quei Giochi).

 

Intanto le Olimpiadi vanno avanti. Non aspettano. «Le seguivate?» chiedi. Lui non le seguiva. Guardava i suoi compagni e stop. Li guardava sui televisori, perché c’erano i televisori. Stanze apposite in ogni piano. Affinché gli atleti potessero guardare lo spettacolo. Ed è in televisione, ti dice, che vede John Carlos alzare il braccio sinistro. Dice John Carlos, ma è ovvio che ha visto anche Tommie Smith con il destro, e Peter Norman, con la sua inamovibile dignità. Stai per chiedergli cosa pensò di quei pugni chiusi sul podio dei duecento. Ti interessa la sua posizione. Sei qui anche per questo. Ma ti scivola via. E torna indietro. Ormai è un flusso incontenibile. Ha voglia di ritornare alla gara. Di guardare in faccia tutti i suoi avversari, soprattutto quello con il pettorale 308 sulla canottiera azzurra, nato a Roma il 4 settembre 1943, di nome Giuseppe Gentile. Ha voglia, credi, di tornare a sbagliare. Di vedere se fa male, quanto fa male. E, pensi, tutto sommato, ne hai voglia anche tu: voglia di andare a soffrire con lui.





«Due tre giorni prima della qualificazione ero andato al campo a fare un po’ di corsa e di corsa a balzi. Contrariamente a quello che si può pensare, sono stato talmente stupido che mi sono messo a fare salto in alto. Mi divertivo, mi distendeva molto, ma non avrei dovuto farlo, perché… me lo ricordo come fosse adesso… l’asticella era a 2.01, l’avevano appena rimessa su. Aveva saltato qualcuno che non era riuscito e io sono andato là e l’ho saltato. Ma ho sentito un dolore qua (si tocca la coscia, stende la mano sotto il tavolo bianco e tu sai con certezza che va a toccare proprio il punto esatto, quello in cui le fibre si sono smagliate, in cui il dolore è partito per andare a sabotargli il cervello: il punto da cui è iniziata la frana inarrestabile delle sue certezze. Infatti, dice) un dolore che mi ha alterato gli equilibri. Sia mentalmente che fisicamente. Mi rendevo conto della stupidità del salto ma, fino in fondo, solo tanti anni dopo mi resi conto che quella stupidità era dovuta a un’eccessiva sicurezza nei miei mezzi. Io pensavo di poter fare tutto: saltare in alto senza problemi, saltare triplo e vincere, ero giovane e mi sentivo infallibile. Ma, ovviamente, non era così.

 

Comunque, a parte questa stupidaggine, ero pronto a dare il meglio. Come probabilmente sai, io feci in qualificazione il record del mondo, il giorno prima della finale, il 16 ottobre. Il primo salto era nullo. I salti sono tre, per qualificarti. Allora pensai

Mi dissi

e feci 17.10, il nuovo record del mondo! Ma è stato un errore fare il record del mondo in quell’occasione. Nel senso: non avrei dovuto farlo. Dovevo fare 16.10 per qualificarmi, quindi non era sicuramente un problema, lo facevo con una gamba sola. Avevo saltato un metro in più. Avevo scoperto le mie carte troppo presto».

 


Record del Mondo di Gentile durante le qualificazioni a Città del Messico. Con la coscia fasciata, ed erroneamente chiamato “Giovanni”, come il celebre prozio.


 

Intanto hai inserito il dvd. Sono passate le immagini delle prime gare. Arrivati al salto di Fosbury, Gentile si mette a commentarlo come fosse un manuale, e intanto annuisce. «Io saltavo ventrale», aggiunge. «Ma poi è arrivato lui!». Ci sono altri giri di pista. Uomini, donne. Millecinquecento. Cinquemila. Si ritorna sui salti. Gentile si vede. Vede il ragazzo con la coscia fasciata. Se potesse gli darebbe un ceffone. «Stoppa un attimo» ti dice, e tu credi che ci proverà, a dargli quello schiaffo. Invece si dedica a te. Si stacca dallo schermo e ti porta a quella volta in cui sono stati fatti cinque record del mondo in trentasei ore. Due dei quali, portavano la sua firma.

 

«Una cosa bella della gara è il momento della

. Ricordo le facce. Le facce delle persone che stavano là assieme a me e che aspettavano la loro chiamata. C’erano due gruppi, ciascuno con la propria

. Quando si aspetta prima che ti chiamano, stai là seduto, in una stanza tipo questa; saremmo stati una quindicina di persone e… c’erano tutti: c’era Sanaeev, c’era Areta, c’era Prudencio, c’era Dia Mansur, c’era Szmidt. E c’era Perez Duena, un cubano allenato da un russo, che aveva fatto 17.01 o 17.02 quindi 1-2 centimetri dal record del mondo. Era uno dei candidati migliori ma era poco accreditato perché era mezzo infortunato. Mi ricordo gli sguardi: c’erano quelli sinceri, quelli dubbiosi, e poi c’era chi aveva sguardi che non erano quelli veri: cioè volevano dimostrare una sicurezza che non era reale, ma che poteva servire a ingannare l’avversario».

 

Gentile è nella sua

Lo capisci. Lo vedi nettamente. Ma ci sei anche tu. Seduto, tremante, assieme all’élite mondiale del salto triplo. Uomini che si guardano, si studiano. Si truffano. E che tra poco saranno là fuori a fare i conti con la pedana. Con la propria emotività. E con il desiderio di gloria. Gentile aspetta e non parla. Ma sai quel che c’è da fare. E lo fai. «Allora, vado?» chiedi. «Sì» risponde lui, esalando un respiro pesante, infinito. «Vai!» dice, e tu spingi nuovamente

.

 

Si sentono i passi. I passi della gara, nel silenzio della stanza in cui siete. I passi con i rumori degli appoggi e della caduta sulla sabbia rifatti in studio. Gentile guarda.

salta. 17.22 al primo giro: nuovo record olimpico, nuovo record del mondo. Ma dura poco. Venti minuti dopo Saneev sposta il suo paradiso un centimetro più in là. Uno soltanto. Il sovietico fa 17.23: il sogno dell’aquila si trasforma in incubo.

 

Al quinto giro il brasiliano Prudencio salta 17.27. Gentile prova a superarlo tirando al massimo la rincorsa, spingendo sui salti. Gliene rimangono due. Ne fa solo uno valido, troppo corto. Nell’ultimo tentativo Saneev vola a 17.39, scrivendo il quinto record del mondo, in un giorno e mezzo di salti. «Rimetti indietro, per favore». I passi. Gli appoggi e la sabbia. Gentile guarda. E con un filo di voce dice «Prudencio… è morto di recente, sai?». Poi sta di nuovo a

, e si azzittisce completamente. Osserva il venticinquenne di allora correre sulla pedana con la coscia fasciata. 41 metri e 20 centimetri da coprire in circa 6 secondi. La velocità è fondamentale per il salto. E poi conta il ritmo. E conta la postura. Il salto triplo è tutta una questione di velocità, ritmo e postura. Sia che tu vada in alto, dolcemente, come i sovietici, o scelga di saltare radente come i polacchi. Destro. Destro. Sinistro. In tutto passano otto secondi. Un lampo, a riguardarli ora. Un’eternità, a essere dentro quel corpo in tumulto. E fa ancora una volta 17.22, nuovo record olimpico, nuovo record del mondo: «Tutto sbagliato» dice il Gentile settantacinquenne.

«Tutto inutile e tutto sbagliato».

 


Record del Mondo di Gentile in finale a Città del Messico (17.22). Prima Prudencio e poi Sanaeev lo superano: “una delle più grandi gare dell’atletica di tutti i tempi”.


 

«Rimetti indietro che ti spiego. Ecco, qua. Ma non fanno vedere di lato, gli errori si vedono solo di lato, non con l’inquadratura frontale! Comunque, all’arrivo del primo balzo le anche devono rientrare, nel senso che tu arrivi così (è emerso da sotto il tavolo bianco come l’orso polare nelle ultime disperate settimane di caccia tra i ghiacciai norvegesi. Immenso, scattoso. Completamente perso). Poi devi aspettare e spingere sulle anche, così, vedi? Le anche devono stare avanti perché se tu spingi senza che le anche siano in linea… eccolo qua, ferma! Io ho spinto senza che le anche fossero in linea… sono rimasto con le anche indietro. Era per evitare questo errore, che Rosati mi fece cambiare piede di stacco. Per non lasciare le anche indietro. L’avevo evitato sempre, ma in quella gara è tornato. Quel difetto forse… (qui ti sembra rassegnato, impotente, ma in qualche modo – non sai di preciso in quale modo – anche un superstite), quel difetto forse faceva parte del mio DNA».

 

Rimane zitto per un po’. Rimani zitto per un po’. Siete soli nella stanza, ma ti sembra affollata e strettissima, adesso. Piena di presenze. «Ah, eccoli qua,

» dice a un certo punto Gentile, facendo dissolvere quell’aria densa di fantasmi. Nel video John Carlos si guarda due volte sulla sinistra. Tommie Smith, a sessanta metri dal traguardo lo ha infilato. Dall’altro lato, il destro, Carlos non vede l’australiano Peter Norman mettersi tra lui e Tommie, e prendergli la medaglia d’argento. Tutti e tre sul podio, comunque. Nel modo in cui, da quel 16 ottobre 1968 in poi, nessuno potrà più dimenticare. Smith e Carlos su cui stai scrivendo qualcosa a cui non vuoi affibbiare una definizione. Smith e Carlos: due atleti nel posto sbagliato, ma con la pelle del colore giusto.





«Il 16 ottobre era il giorno della qualificazione del triplo e anche quello della finale dei 200 metri. A quell’epoca, qualificazione e finale erano un giorno dopo l’altro, oggi no, c’è un giorno di riposo per fortuna. Come ti dicevo, io la protesta del podio dei duecento la vidi alla televisione del Villaggio. Ricordo le mie sensazioni di quel momento.

 

Quel fatto mi fece acquisire una visione diversa dalla mia; simile a quando Andreotti andò a partecipare alle Olimpiadi in Russia, da ministro, e tenne fuori gli atleti militari, che si erano allenati anni per avere l’occasione della loro vita, ma non la ebbero perché Andreotti decise di non dargli questa occasione per motivi extra sportivi. Nel caso di Smith e Carlos quella era un’ottica e un gesto che andavano al di là della mia; se Andreotti non mi avesse mandato alle Olimpiadi, probabilmente gli avrei messo le mani addosso…»

 

Dopo Messico ‘68, nonostante avesse assunto le sembianze deteriori dello sconfitto, grazie all’apparizione in una pubblicità di un’automobile, Gentile viene visto e successivamente contattato da Pier Paolo Pasolini, in cerca del volto giusto per il ruolo di Giasone. Il film

si sarebbe girato la primavera successiva, quella del 1969. A Pasolini Gentile piace, ma il provino, in un certo senso, glielo fa Medea in persona: Maria Callas.

 

«La Callas era al centro delle attenzioni della produzione e di Pasolini. Penso proprio che fu lei a concedermi il nullaosta per la parte. Mi convinsi ad accettare l’offerta anche perché nel febbraio del ‘69 mi ero procurato un infortunio alla caviglia giocando una partitella di pallamano. Fu in quell’occasione, grazie a una radiografia, che appresi di aver saltato alle Olimpiadi con una frattura al piede. Rispetto alle inesistenti entrate dell’atletica di allora, il compenso per il film non era male. Non accettai però per motivi economici, anche se, devo dire, con quella cifra mi comprai la prima

della mia vita, a Rocca di Cambio. Accettai perché cercavo una sfida. E quella era una sfida. La lavorazione fu piuttosto faticosa: mi sentivo una sorta di marionetta nelle mani del costumista, del truccatore, del direttore della fotografia e soprattutto del regista. Nonostante fosse una persona sensibile, Pasolini faceva il suo lavoro con estremo rigore e, talvolta, con durezza.

A volte mi sentivo ridicolo in quel contesto.

 

Dopo le riprese, tutte le mie scene furono doppiate da Nino Castelnuovo. Quando rividi il film rimasi assolutamente scontento. Non ero soddisfatto, mi sentivo ridicolo. Il mio dilettantismo emergeva e strideva con il desiderio di professionalità che da sempre avevo coltivato e praticato nello sport. Ero solo un corpo, e una faccia, al servizio del film. Pasolini dava retta solo alla Callas. Rispettava e si fidava tantissimo del suo senso artistico. Lei era una donna speciale. La Callas che conobbi io fu completamente diversa da quella che avevo conosciuto di fama, fino a quel momento: austera, intransigente e capricciosa. Invece era una persona fragile, e molto dolce.

 

Mentre stavamo girando nella vallata di Göreme, in Turchia, le esigenze di copione prevedevano che Medea e Giasone dovessero scambiarsi un bacio appassionato. Dovevamo camminare venendoci incontro e, una volta vicini, abbracciarci e baciarci. La prima parte era facile, ma la seconda presentava dei problemi. Al momento del bacio, se io piegavo il volto a destra, lei la girava a sinistra, e viceversa. Pasolini si alterò.

Eravamo così imbarazzati che siamo arrivati a ripetere la scena sei o sette volte, fino a quando non siamo riusciti ad avere un primo, timido, contatto con le labbra. Poi nelle ripetizioni successive, siamo finalmente riusciti a trasformare quel contatto impacciato in un bacio appassionato».

 


Gentile compare al minuto 2:45, mantato d’arancione. Da 4:30 l’appassionata scena del bacio


 

Dopo Medea Gentile torna a saltare, ma fa molta fatica. Non è più sui livelli di Città del Messico. Se ne rende conto, in maniera definitiva, sul palcoscenico che più ha inseguito in carriera. Quello olimpico. Dopo una sequela di infortuni, arriva a Monaco‘72, ma non va oltre il 16.04 necessario a qualificarsi. Dopo il ritiro, la FIDAL non gli darà mai l’occasione vera di lavorare per l’atletica. Lo farà attraverso i Giochi della Gioventù, a cui seguiranno una serie di incarichi con altre federazioni, in particolare quella di rugby. Prima che vi congedate, però, pensi sia rimasta una cosa da dirsi. Una cosa alla quale prima di incontrarlo non hai dedicato neppure un minuto. Ma adesso non puoi certo andartene senza sapere.

 

«Com’è andata a finire?» chiedi infatti.

dice lui.

Tu alzi le spalle, e decidi di chiamarla così: «la storia della Medaglia spezz

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