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Foto di Kevork Djansezian / Stringer
NBA Francesco Andrianopoli 9 ottobre 2017 6'

La lunga strada di Brandon Ingram

Dopo una stagione da rookie complicata, l’ala dei Lakers è pronta a prendersi la Lega.

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Chi nasce a Kinston, North Carolina, è abituato alle partenze ad handicap, alle gare che si mettono subito in salita, a dover affrontare avversità di ogni tipo prima di riuscire ad affermarsi. È una cittadina di 20.000 abitanti sperduta nella Atlantic Coastal Plain, tra Raleigh e il mare, con pochissimo lavoro — a causa della crisi dell’industria del cotone e del tabacco, che hanno reso celebre questo stato anche a livello sportivo, la famosa “tobacco road” collegiale — e in compenso un tasso di criminalità tra i più alti degli Stati Uniti.

 

In questa disastrosa situazione, una delle poche oasi di serenità era ed è rappresentata dalla palestra gestita da Donald Ingram, ex giocatore semi-professionista dell’“Hoop it up tour”, uno dei circuiti di 3 contro 3 in giro per gli USA. Ex poliziotto, e soprattutto ex sparring partner di Jerry Stackhouse, da ragazzino amava allenarsi contro veterani grossi e scafati per farsi le ossa e con il tempo è divenuto il miglior prodotto cestistico della città e della contea. E non è roba da poco, perché rispetto alla popolazione esigua e alla sua appartenente irrilevanza, Kinston ha prodotto un numero impressionante di giocatori NBA: da Cedric “Cornbread” Maxwell a Reggie Bullock, passando per lo stesso Stackhouse e Charles Shackleford, leggendario lungo anni ’90, stella della Phonola Caserta e del basket europeo, l’originale “The Shack” prima che arrivasse Shaq, assurto a fama imperitura per la sua uscita “Tiro indifferentemente con la destra e la sinistra: sono anfibio”.

 

Nella palestra di Donald le regole erano semplici: si metteva un pezzo di carta sul muro al mattino, i primi cinque a scrivere il proprio nome formavano la prima squadra, i secondi cinque gli avversari; chi vinceva rimaneva in campo, chi perdeva lasciava il posto ai successivi cinque della lista, e così via per tutta la giornata, senza distinzione di età, peso, pedigree cestistico. In quegli interminabili pomeriggi in palestra Donald insegnava anche i fondamentali ai due figli: il massiccio Bo, che ha ereditato il suo fisico compatto ed esplosivo (attualmente gioca da semi-professionista a Lubbock, Texas), e Brandon, che fino alle medie era “un playmaker cicciottello di 185 centimetri”.

 

Quel playmaker cicciottello, però, negli anni di liceo ha pensato bene di iniziare a crescere 5-6 centimetri all’anno, trasformandosi in un airone di due metri e passa, modellato proprio da Jerry Stackhouse fino a diventare uno dei giocatori più corteggiati dell’intera NCAA. Venendo dal “Down East” ci si aspettava che scegliesse North Carolina, NC State, al massimo i Demon Deacons di Wake Forest, considerati gli unici “veri” atenei della zona depositari del sacro fuoco del basket della Carolina del Nord; Brandon invece si dichiarò per Duke — una scelta presa come uno smacco, uno schiaffo morale dai maggiorenti del basket locale, Stackhouse in testa, ma che lo ha catapultato alla seconda posizione assoluta del Draft 2016, dove lo hanno selezionato i Los Angeles Lakers.
Anche i più ardenti supporter del ragazzo erano convinti che l’apprendistato NBA fosse destinato a essere lungo e sofferto: i reclutatori di Duke lo consideravano troppo gracile addirittura per reggere i contatti a livello NCAA, figuriamoci al piano superiore, in cui è entrato non solo come più giovane giocatore del Draft dopo Dragan Bender, ma anche come uno dei più giovani “one and done” di tutti i tempi.

 

 

L’impatto con il basket professionistico è stato però ancora più duro di quanto ci si potesse immaginare: le prevedibili difficoltà fisiche si sono rivelate in realtà insormontabili, e in attacco ogni sua iniziativa in penetrazione finiva per deragliare miseramente al primo contatto, anche se di entità minima e contro avversari di taglia più ridotta, persino contro le point guard dopo un cambio.

 

A rimbalzo la situazione si è rivelata più o meno la stessa: pur avendo confermato il discreto fiuto per il pallone già mostrato a livello collegiale, si è trovato costantemente spinto via al momento di prendere posizione. Il risultato sono state percentuali a rimbalzo inferiori a quelle di José Calderon (35 anni, 190 cm molto scarsi, elevazione non pervenuta).

 

In difesa si sono visti sprazzi di potenzialità interessanti, soprattutto sulle linee di passaggio, grazie alla interminabile lunghezza delle sue braccia, ma in generale è stato e si è trovato totalmente allo sbando nella difesa di squadra (concetto peraltro estraneo ai Lakers nel loro complesso).

 

Il fondamentale in cui è stato però maggiormente deludente è stato però il tiro, visto che nella sua carriera collegiale vantava infatti rispettabili percentuali dalla distanza (41.7% da tre ai Blue Devils): il suo movimento di tiro si è però rivelato inadatto alle distanze NBA, visto che per riuscire a coprire la distanza maggiore dalla distanza lanciava il pallone con un movimento e un rilascio frontale, rendendone la parabola estremamente piatta, oltre che facilmente contestabile.

 

L’insieme di queste lacune e problematiche ha condotto ad una stagione che si può definire complessivamente disastrosa: 29.4% da tre con 2.4 tentativi a partita, addirittura 26.9% da tre dopo l’All-Star Game, periodo in cui ha preso più confidenza ma non è migliorato in questo specifico fondamentale. Nelle votazioni per il Rookie of the Year non è entrato nemmeno nei dieci giocatori ad aver ricevuto voti. Nella storia della lega ci sono stati 76 giocatori ad aver giocato almeno 500 minuti in stagione all’età di 19 anni o meno: tra questi, soltanto sei sono risultati statisticamente peggiori di lui.

 


Un riepilogo statistico “severo ma giusto” dell’efficienza di Brandon Ingram nei vari aspetti della sua prima stagione NBA dal punto di vista del suo rendimento offensivo.

 

Il quadro è indubbiamente deprimente, ma molti tifosi e appassionati hanno già marchiato Ingram come bust, e questo appare altrettanto eccessivo e ingiusto; stiamo parlando di un giocatore che è a tutt’oggi uno dei più giovani dell’intera lega, nato più tardi di buona parte dei rookie scelti in questo ultimo Draft (ha solo un mese più di Lonzo Ball, per fare un esempio), e la storia della Lega è piena di esempi di ventenni che nei primi anni di carriera hanno stentato, salvo poi sbocciare in giocatori meravigliosi (primo fra tutti Dirk Nowitzki, che da segaligno ventenne era irriso dai suoi tifosi, che lo chiamavano “Irk”, piangeva letteralmente quasi tutti i giorni e pensava seriamente di tornarsene in Germania e farla finita con il basket NBA).

 

Va inoltre sottolineato come i presupposti per un miglioramento ci siano tutti: a Ingram viene universalmente riconosciuta un’etica del lavoro ineccepibile, è sempre il primo a presentarsi in palestra, i compagni e il coaching staff stravedono per lui, e anche con l’ultimo arrivato Lonzo Ball sembra essere immediatamente sbocciata una affinità elettiva in campo e fuori.

 

Durante l’estate ha lavorato duramente per correggere i suoi difetti più plateali: per aumentare la sua massa si sta sottoponendo a una dieta “nauseante”, e per correggere la meccanica di tiro si è affidato ad Adam Keefe, solido giocatore di ruolo degli anni ‘90 che a suo tempo fu essenziale nella maturazione tecnica di Kevin Durant.
Anche KD al primo anno faticava al tiro dalla lunga distanza (28.8% nelle triple); dopo aver lavorato specificamente con Keefe, assistente a Seattle e Oklahoma City nelle prime sette stagioni di Durant nella lega, l’MVP delle ultime Finals è balzato immediatamente al 42.2% al secondo anno, iniziando il cammino che lo ha portato ai suoi livelli di eccellenza assoluta.

 

Keefe e Ingram hanno lavorato sodo per tutta l’estate, cercando di modificare il movimento in modo che fosse più compatto e fluido, limitando la sua tendenza a “sbracciare” e puntando a movimenti delle braccia (sproporzionatamente lunghe, anche per un giocatore NBA) più controllabili e ripetibili.

 

Qualsiasi ipotesi di miglioramento, quindi, deve passare da questi due capisaldi, maggiore forza fisica/resistenza al contatto e migliori percentuali al tiro. Se si dovessero veramente vedere dei passi avanti in questo senso, si potranno sbloccare le indubbie potenzialità che ne hanno giustificato la seconda scelta assoluta — e che anche nella scorsa, travagliata stagione si sono comunque intraviste: le sue notevoli abilità di passatore (che derivano dal suo retaggio di playmaking e dai continui allenamenti nei fondamentali con papà); la sua fluidità e coordinazione nei movimenti (che resta sensazionale per un giocatore con quei centimetri); la sua capacità di leggere il gioco e di saper fare la scelta giusta piuttosto che la giocata ad effetto; i suoi istinti naturali in attacco e in difesa.

 

Insomma, la partenza è stata ad handicap, la strada è subito in salita: ma se sei nato a Kinston, North Carolina, non ti aspetti niente di meno.

 

 

Tags : brandon ingramlos angeles lakers

Francesco Andrianopoli: classe 1980, avvocato, folgorato dal basket NBA nell'adolescenza dopo essere stato cresciuto esclusivamente a pane e calcio. Parla di NBA su Ball don't lie e ne ha scritto su Play.it Usa.

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