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La luce in fondo al tunnel
17 lug 2015
17 lug 2015
I Los Angeles Lakers escono dai due anni più travagliati della loro storia, ma ora iniziano ad avere qualche speranza per il futuro. Forse.
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Nelle ultime due stagioni sulla Los Angeles gialloviola si è abbattuto un inverno nucleare che non accenna a placarsi: prima una stagione da 27 vittorie, poi un’altra ancora peggiore da 21, con due primavere consecutive senza playoff come non succedeva da 40 anni. Una situazione sostanzialmente inedita per una squadra che ha vinto un titolo su tre dal 1980 al 2010—ovvero nel periodo in cui Jerry Buss ha tenuto in mano le redini della franchigia, rendendola una delle più famose e vincenti dell’intero sport mondiale. Ma anche se al momento si è ancora in situazione post-apocalittica—con tutto il carrozzone di pazzoidi, fratelli-coltelli, sciacalli, fenomeni da baraccone e scherzi della natura assortiti (sì Swaggy, sto guardando te)—forse si inizia a intravedere qualche timido spiraglio, qualche barlume di speranza. Per questo, prima di tutto è necessario riassumere, in ordine cronologico, cosa è successo in queste torride, convulse settimane.

Il Draft

La prima buona notizia è il fatto stesso di aver scelto al Draft: fino all’ultimo momento sono girate voci fantasiose di possibili scambi che avrebbero potuto coinvolgere le prime scelte gialloviola, passate e future: la più insistente vedeva DeMarcus Cousins a L.A. in cambio di una non meglio precisata combinazione dei tre asset più preziosi dei losangelini—cioè Julius Randle, Jordan Clarkson e la seconda scelta assoluta.

Cedere uno solo di quegli asset per DMC avrebbe ovviamente avuto senso (ma perché i Kings avrebbero dovuto accettare?), ma cederne più di uno no: i Lakers in questo momento non si trovano a un solo uomo di distanza (per quanto dominante) dall’essere una contender, e tantomeno al 50% di vittorie (che a Ovest equivale a restare fuori dai playoff con un mese di anticipo). Un roster con Kobe, DMC, qualche comprimario e nient’altro, senza validi asset, non avrebbe portato da nessuna parte, né invogliato alcun ulteriore free agent di alto livello a unirsi all’allegra banda, né l’anno prossimo, né mai.

Può darsi che ci sia stato dell’arrosto sotto al fumo di questa potenziale trade, o può anche darsi che sia stato semplicemente il risultato della consueta opera di disinformacjia dell’agente di una stella scontenta del comportamento del proprio front-office (leggi: Fegan, Dan). Sta di fatto che i Lakers hanno tenuto le loro scelte, e le hanno usate bene, senza paura, semplicemente pensando al talento e alla futuribilità dei prospetti scelti. Già questo è un passo avanti.

Alla numero 2 assoluta è arrivato D’Angelo Russell, scelta coraggiosa e controcorrente non tanto per il talento del giocatore—che è cristallino, e da molti considerato tranquillamente al livello dei top-2—quanto per il fatto che, avendo già in casa un ottimo prospetto alla posizione di point guard come Clarkson e considerando “non rinunciabile” un potenziale All-Star di 7 piedi come poteva essere Jahlil Okafor, la prudenza suggeriva di cedere alla tentazione del safe pick.

Ma quando si sceglie così in alto bisogna andare con il Miglior Giocatore Disponibile, e così è stato, in barba ai ruoli e al roster attuale. Russell ha potenziale infinito, e in una Lega sempre più caratterizzata da ball-handler in grado di prendere decisioni rapide e istintive, potrebbe diventare un dominatore assoluto. Siamo davanti a un assist-man supremo, non solo per quantità, ma anche per la qualità dei suoi passaggi: la capacità di “vedere” i varchi giusti tra le maglie della difesa è immediatamente traducibile nel salto da NCAA a NBA, e il livello più alto dei compagni di squadra permetterà di sfruttare molto meglio questa sua innata capacità di base. In più, questi passaggi partono da un fisico già oggi da guardia NBA (1.95 per 82 kg), che non potrà che migliorare grazie al lavoro con i preparatori atletici dei professionisti.

Il suo problema fondamentale sta nelle troppe pause del suo gioco, su entrambi i lati del campo: in attacco, il gusto per il passaggio esteticamente gradevole scivola troppo spesso nel preziosismo, inducendolo a perdere palloni su palloni in modo rivedibile ed evitabile. La sua tendenza a difendere sull’uomo in modo ondivago, senza costanza, e il totale disinteresse per la difesa a palla lontana lo rendevano un difensore appena dignitoso anche a livello NCAA—e quindi gravemente insufficiente al piano di sopra. Potrebbero essere difetti dovuti banalmente a gioventù e “pigrizia mentale”—a livello collegiale non è mai stato veramente “sfidato” e spronato a migliorarsi—, oppure indice di carenze strutturali a livello di killer instinct, concentrazione e “focus”: solo il tempo ci darà la risposta e ci dirà se abbiamo di fronte un All-Star o un talento inespresso.

Quel che è certo è che la compatibilità con Clarkson, andando al di là della semplice considerazione del ruolo nominale, appare più che fattibile: quel che manca alla sorprendente seconda scelta dello scorso Draft è la morbidezza di mano e la visione di gioco di D’Angelo; quel che manca a Russell è l’esplosività, la grinta e la “cazzimma” di Clarkson. Dovranno entrambi imparare a deferire alcune responsabilità e giocare anche lontano dalla palla, dovranno entrambi costruirsi da zero una identità difensiva che al momento non hanno, ma ci sono tutte le potenzialità per riuscirci.

Come prosecco di benvenuto ci si può anche accontentare.

Ma non di solo Russell si compone il Draft dei Lakers. Alla scelta #27 è arrivato Larry Nance Jr, e in molti hanno storto il naso per la posizione di scelta, sicuramente troppo alta: il figlio d’arte (il padre è stato 3 volte All-Star, nonché primo vincitore della gara delle schiacciate) non aveva pedigree da primo giro, e sarebbe stato sicuramente disponibile alla scelta #34, ma è più un discorso di cause contingenti—una carriera collegiale di secondo piano, un grave infortunio al ginocchio nella scorsa stagione e la convivenza forzata con il morbo di Crohn, con cui dovrà lottare per il resto della sua carriera/vita—che non di puro skillset. I Lakers, invece, cercavano proprio questo tipo di giocatore: un 4 moderno, mobile, atletico, “cattivo”, forte difensivamente, ancora molto da sgrezzare in attacco, ma già pronto a essere buttato nella mischia per dare energia, atletismo e intangibles. E non ne erano rimasti molti di giocatori così a quel punto del Draft.

Molte delle perplessità dei tifosi sono scomparse già dalle primissime uscite stagionali in Summer League, in cui i cori “LARRY-LARRY-LARRY” si alzavano alti (più o meno) verso il cielo di Las Vegas: sono bastate un paio di stoppate esplosive, un paio di schiacciate a rimorchio e la sua inesauribile energia sui palloni sporchi per renderlo subito un beniamino dei tifosi. Ma al di là dell’aspetto folkloristico, rimane comunque un prospetto a lungo termine, tutto da costruire tecnicamente e tatticamente.

«This is getting good, people» dice Reggie Miller.

Alla #34 è arrivato un giocatore che non ha potenziale da prima o seconda opzione in una squadra NBA, ma può diventare un “giocatore di ruolo” extralusso: Anthony Brown sa tirare da tre (anche se con percentuali ondivaghe da registrare), sa usare il fisico (soprattutto a rimbalzo difensivo), non eccede i limiti delle sue qualità e conosce il gioco: deve solo dimostrare di essere abbastanza esplosivo da tenere il primo passo delle ali piccole NBA per poter diventare un solidissimo 3 & D, tipologia di giocatore richiesto da ogni allenatore in un gioco moderno fatto di spaziature e tempi di esecuzione.

La potenziale “steal” del Draft, però, è arrivata dopo il Draft propriamente detto: nel magma dei giocatori non scelti, i gialloviola si sono subito assicurati (mettendolo sotto contratto per due anni) uno dei prospetti più intriganti, ma ad alto rischio di tutto il lotto, l’irrequieto Robert Upshaw. A livello universitario è stato un difensore dominante, un rim protector ben al di sopra dei suoi pari età: ha un fisico particolare, con una parte bassa del corpo pesante e compatta, la testa incassata nelle spalle e quasi senza collo alla Shawn Marion, ma il tutto è sormontato da due braccia infinite e due delle mani più grandi mai misurate in sede di Draft (25.4 cm x 28): un mix che gli permette una vertical reach di 287 cm, degna di un giocatore alto 10-15 cm in più—la stessa di Shaq, per rendere l’idea. In più è un attaccante rozzo, ma tutt’altro che sprovveduto, potendo già vantare, prima ancora di iniziare a lavorare con un coaching staff NBA, un affidabile giro-dorsale-e-tiro sulla spalla destra e un dignitoso gancetto a corto raggio.

La prima apparizione in Summer League.

Dal punto di vista del talento fisico-atletico era un giocatore da top-10 a occhi chiusi. I motivi per cui è finito addirittura fuori dal Draft vanno cercati fuori dal campo, e sono di un certo peso: la sua carriera NCAA è finita anzitempo per essere stato cacciato da ben due università diverse, nonostante fosse la stella di entrambe le squadre, per carenze comportamentali legate alla dipendenza da cannabis—ma questa è la versione edulcorata rilasciata dai due college, mentre la realtà potrebbe essere più pesante. In più, dopo aver detto definitivamente addio al basket collegiale a gennaio 2015, anziché andare a farsi le ossa altrove o lavorare sul suo gioco, si è presentato ai provini pre-Draft in condizioni fisiche scandalose, fuori peso e fuori forma, e le visite mediche hanno addirittura lasciato trapelare possibili problemi al muscolo cardiaco.

Boom or bust, se mai se ne è visto uno, insomma: a fine stagione potrebbe essere il rookie dell’anno oppure il commesso in un supermercato, e il coaching staff ha già fatto capire che c’è molto, moltissimo da lavorare, iniziando dalla condizione fisica disastrosa. Il primo impatto, almeno a livello di dichiarazioni, è stato molto positivo: Upshaw ha parlato dei propri problemi passati senza cercare scuse, ma anzi dichiarando di aver iniziato a lavorare su sé stesso e sui suoi problemi, anche con l’aiuto di Bill Walton (che di dipendenze ne sa qualcosa).

Una classe di rookies estremamente interessante, la più luminosa e talentuosa che i Lakers abbiano mai avuto (anche perché, come detto, negli ultimi 40 anni si è sempre vinto…), a cui si aggiungono gli altri quasi-esordienti: Randle, che dopo aver saltato l’intera stagione scorsa per un infortunio nei primissimi minuti della prima partita ufficiale, ha fame di campo ed è dato in gran spolvero negli allenamenti; Tarik Black, che è un “giovane” sui generis (è del ’91, 5 anni più di Russell e 3 più di Upshaw), è un lungo solido e di sostanza; Jordan Clarkson è chiamato alla stagione della conferma in un ruolo diverso rispetto a quello della scorsa stagione, dovendo passare da bella sorpresa a leader tecnico, da play titolare abituato ad avere il pallone sempre tra le mani a off guard e portatore di palla secondario.

La free agency

Dopo la ventata di freschezza del Draft, il vero tasto dolente per il mondo gialloviola è arrivato al momento della caccia ai free agent, che ha reso dolorosamente chiaro quanto il mondo NBA sia cambiato. Se c’è una cosa che i Lakers hanno imparato sulla propria pelle è che ai giocatori in cerca di un nuovo contratto le attrattive di Hollywood, il clima, le star dello show-biz, le occasioni di mettersi in luce in un “big market”, semplicemente non interessano più. Lo dimostra chiaramente la scelta di un giocatore non certo dominante, Greg Monroe (giovane, talentuoso, ma non ancora affermato e non privo di difetti), cresciuto in una di quelle torride cittadine del sud della Lousiana dei romanzi di Nic Pizzolatto, che alle attrattive e al sole della California e al pedigree dei Lakers ha preferito il gelido Wisconsin e i “piccoli” Bucks.

I free agent vogliono vincere, subito, o quantomeno trovare un contesto che gli permetta di giocare i playoff dall’anno 1. Non hanno la minima intenzione di giocare nei Lakers “perché sono i Lakers”; un concetto che ai commentatori neutrali e ai tifosi più disincantati era già chiaro, ma che questa free agency ha illustrato, in modo cristallino, anche alla massa di followers lacustri e soprattutto alla dirigenza, entrambi, probabilmente, ancora abbagliati dai successi degli ultimi lustri.

Non si può dire infatti che i Lakers non ci abbiano provato: hanno tentato in tutti i modi di allettare i free agent di prima fascia, arrivando addirittura a generare una immensa campagna sui social (#LAtoLA) per convincere il più ambito, LaMarcus Aldridge, a trasferirsi in California: centinaia, migliaia di tweet in cui i tifosi, dall’ultimo dei finti-VIP alle più note celebrità, perdevano la dignità per invogliare, e spesso implorare, il giocatore a scegliere il gialloviola.

“Never to return again / But always in my heart”, eh Adam?

Una strategia che non solo ha fatto storcere il naso alla Lega (che ha chiesto di interrompere l’iniziativa, cancellarne le tracce e non pensarci mai più), ma si è rivelata totalmente inutile: Aldridge, seppur dedicando educatamente ai Lakers tutto il tempo di cui avevano bisogno—e addirittura concedendo un secondo incontro, dopo che il primo lo aveva lasciato tutt’altro che impressionato—ha detto “no, grazie” senza dare l’impressione di essere stato mai neppure sfiorato dall’idea di accettare. Del primo meeting si è scritto tutto, forse troppo: non è vero, ad esempio, che Kobe abbia tenuto un atteggiamento indisponente, o comunque tale da “spaventare” Aldridge. È vero, invece, che le proposte dei Lakers a LMA contenevano molti riferimenti al passato glorioso, e molte prospettive di quello che potrebbe succedere in un ipotetico futuro, partendo dall’estate 2016 in avanti. Sono state però spese poche, pochissime parole sul presente dei Lakers e sulla loro situazione tecnica e tattica, il che ha (giustamente) indotto Aldridge a dire “no grazie”, nell’ottica (di cui sopra) che ai free agent di alto livello non interessano le prospettive a 2-3 anni, bensì il fatto di avere una squadra competitiva subito.

L’assalto a Aldridge è stato il momento più eclatante, in negativo, dell’estate gialloviola, quello che ha scatenato i lazzi e cachinni nei confronti di dirigenza e tifosi. Non è stato però l’unico, perché non solo il pezzo più pregiato tra quelli disponibili ha risposto picche, ma tutti gli altri giocatori disponibili hanno snobbato platealmente i gialloviola: da Kevin Love a Marc Gasol, da Greg Monroe a Tobias Harris, tutti hanno preferito altre destinazioni.

Ai Lakers non è rimasto che rifugiarsi su figure non di secondo, ma terzo piano: i journeymen Lou Williams e Brandon Bass sono solidi veterani che possono portare rispettivamente instant offense e creatività in attacco (il primo) e versatilità a tutto tondo pur senza picchi particolari (il secondo). E anzi, il prezzo pagato per entrambi è stato più che congruo, quasi d’occasione—7 secchi a stagione per tre anni a Lou, circa 3.2 all’anno per due stagioni a Bass. Si tratta pur sempre di due eccellenti tasselli per la panchina, in grado di costruire una second unit temibile… ma qui c’è da pensare al quintetto titolare, e al momento l’unico giocatore arrivato dal mercato per giocare titolare è Roy Hibbert.

Il pennellone di origini giamaicane è reduce dalla peggiore stagione della sua carriera, in cui non ha mostrato non solo le qualità che avevano abbagliato la Lega non più tardi di due anni fa, ma neppure un livello minimo di impegno e dedizione. Non si tratta però di un giocatore finito, né demotivato, come dimostra il fatto che nel passaggio ai Lakers ha rinunciato quasi per intero a una clausola del suo contratto che gli avrebbe permesso di guadagnare 2.3 milioni in più. Se ne potrebbe dedurre che non arrivi a L.A. come “pacco postale” sbolognato suo malgrado, ma come giocatore che ha voglia di rimettersi in gioco e ritrovarsi, ripartendo da zero.

Hibbert è un giocatore unico nel suo genere, in un certo senso un super-specialista: è mediocre o insufficiente in molti aspetti del gioco anche essenziali (rimbalzi difensivi e offensivi, efficienza offensiva, visione di gioco, pick and roll), ma è straordinario—anzi, unico—in uno specifico fondamentale, la protezione del ferro. Un aspetto in cui è talmente dominante da mettere in difficoltà addirittura gli arbitri e i commentatori, dal momento che la sua interpretazione della “verticality rule” gli permette di infliggere, regolamento alla mano, devastanti punizioni corporali agli attaccanti che lo sfidano in penetrazione; un’abilità che non ha perso neppure in questa stagione, che per il resto si può definire negativa soltanto con un forte eufemismo.

Come dire: un discreto impatto.

È arrivato gratis (una seconda scelta del 2019), ha un ingaggio pesante (poco più di 15 milioni), ma che scade al termine di questa stagione, quindi rappresenta una scommessa senza rischi: se ritrova la voglia e l’efficacia di due stagioni fa, è un All-Star regalato; se conferma la sua involuzione, verrà lasciato andare senza rimetterci nulla e liberando il relativo spazio da offrire ad altri giocatori. In ogni caso, quest’anno potrà dare un’identità difensiva alla squadra, aiutando i rivedibili difensori perimetrali gialloviola, e sarà particolarmente prezioso nell’insegnare l’arte della rim protection a Robert Upshaw, che sembra fatto dal sarto per seguirne le orme e crearsi una analoga identità tecnica, se la testa lo asseconderà.

Il futuro

Tirando le somme, cosa resta ai Lakers di questa estate post-apocalittica? Sicuramente rimane un grande bagno di umiltà: i tifosi devono rendersi conto che questa, al momento, non è una grande squadra, non è appetibile per i free agent, non ha alcuna scorciatoia (a meno di miracoli del front office) per tornare competitiva prima di altre 2-3 stagioni. Nel frattempo, senza fretta e senza psicodrammi, dovrà far crescere con calma i talenti a sua disposizione, che iniziano a formare un discreto nucleo su cui poter costruire.

Quand’anche i tifosi dovessero farsene una ragione, sarà necessario però sentire cosa ne pensa Kobe Bryant, all’ultimo anno (da 25 milioni sull’unghia) del mastodontico, crepuscolare, insensato contratto che gli è stato elargito due anni fa; nelle sue intenzioni doveva essere il farewell tour, il giro d’onore con cui tentare (se possibile) un ultimo assalto al titolo, o quantomeno togliersi qualche soddisfazione, aggiungendo qualche altro record personale alla sua già affollata bacheca. Si sono rivelati invece un incubo non solo di squadra, ma anche personale: un lungo calvario di infortuni, brutte figure in campo, pernacchie e derisioni dei media. Non era così che voleva andarsene, ma d’altra parte non è neppure certo che questo sia veramente il passo d’addio: una chiara indicazione in tal senso ancora non è arrivata, e quindi probabilmente i giochi sono ancora aperti.

Cosa potrebbe invogliarlo a tentare un ulteriore, ultimo giro di giostra? È quasi impossibile che la prossima stagione si chiuda con un record positivo—quindi di soddisfazioni, a livello di squadra, ne arriveranno pochine. È anche molto improbabile che riesca a restare sano, abile e arruolato per 82 partite e 35-40 minuti a sera—quindi anche dal punto di vista dell’ego e dei record personali ne verrà fuori poco. Con queste premesse, forse soltanto una grande stagione dei giovani gialloviola potrebbe dare un senso a un ulteriore prolungamento della sua carriera, a un 2016-2017 giocato da “vecchio saggio” di un gruppo lanciato verso un futuro luminoso. Sempre che questa sia una ipotesi che possa allettarlo.

Peraltro, prima di poter anche solo sperare in un futuro luminoso, dovrà essere affrontato il vero problema che spegne sul nascere qualsiasi entusiasmo, vale a dire la guida tecnica di Byron Scott. La sua presenza appare un ostacolo non solo per i risultati in campo, ma anche per lo sviluppo dei giovani: la sua versione macchinosa e ottusa della Princeton Offense già dalle prime uscite in Summer League ha dimostrato di non poter valorizzare la velocità e gli istinti di Russell e Randle, riducendosi spesso a 10-15 secondi di movimenti senza alcun costrutto, che si concludono con isolamenti prevedibili o giocate improvvisate. I (pochi) sprazzi di bel gioco visti in queste prime partite sono arrivati da soluzioni veloci, transizioni istintive, pick and roll: situazioni che formano la pietra angolare di qualsiasi attacco NBA moderno e funzionale, ma che il vetusto Scott vede come il fumo negli occhi.

Un altro anno di questa amara medicina avrà effetti disastrosi sul morale, sulla classifica e sullo sviluppo del roster: potrebbe avere, come unica, magra attrattiva, il fatto di potersi tenere la scelta del prossimo Draft, che rimarrà a L.A. nel caso in cui i Lakers finiscano nelle prime 3 posizioni della prossima Lottery—anche se l’unico modo per avere buone possibilità di tenerla è finire con il peggior record della Lega, ovvero un’altra stagione da 60+ sconfitte, non una prospettiva esaltante per i tifosi e i facoltosi abbonati gialloviola, e tantomeno per l’ultimo anno di Kobe. Ma aggiungere un altro pezzo “giovane” di alto livello potrebbe permettere ai Lakers di presentarsi davanti a un potenziale free agent e proporgli, oltre alle solite, inutili blandizie, un roster di talento—ed eventualmente anche il fatto di aver voce in capitolo sulla scelta del nuovo allenatore.

Una magra prospettiva, ma nel deserto post-nucleare ci si abitua ad accontentarsi di poco.

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