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La leggenda della Mão Santa
24 ago 2016
24 ago 2016
Mai dimenticarsi di Oscar Schmidt, il più grande cestista brasiliano di sempre.
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Questa storia parte da lontano, e da un aneddoto personale. Era l'estate del 1992 e davanti a me si prospettava la scelta che tanti bambini si trovano a dover fare a quell'età: il primo sport da praticare. La fortuna, perché non posso considerarla diversamente, fu che sotto l'ombrellone accanto al mio in un paesino della Liguria c'era Armando Santi, allenatore di mini-basket della Fernet Branca Pavia — società che un anno prima, nel 1991, riconquistò la Serie A1 dopo 33 anni di assenza grazie al protagonista di questo articolo. Scelsi di abbracciare la palla a spicchi e in settembre scoprii chi fosse Oscar Schmidt: per gli altri un “Dio” in maglietta e pantaloncini, per me “solo” il papà di Felipe, mio coetaneo e compagno di squadra. Fu mio allenatore solo un anno, coincidente con il suo ultimo a Pavia e in Italia, ma bastarono i primi appuntamenti comandati per capire che quell'uomo di oltre due metri e un centinaio di chili era qualcuno di importante, uno a cui chiedere l’autografo, uno di cui stampavano le maglie per regalarle ai bambini. Bambini come noi.

Perfezionista, solista e solitario

Oscar era un allenatore silenzioso, poco pressante anche perché poco presente. Doveva allenarsi, cercare di trascinare la squadra di nuovo in Serie A1 come aveva già fatto al suo primo anno in riva al Ticino (esattamente come nel 1982-83, sua prima esperienza italiana a Caserta) — ma quando c'era si sentiva. Parole ne diceva poche ma la presenza molto paterna, per via del figlio, era rassicurante. A 7 anni pochi di noi si rendevano conto di chi ci fosse al nostro fianco, ma da grandi e cestisticamente informati il suo ricordo ha reso più vividi quei momenti, durati appena una stagione ma sufficienti per farne un mito. I racconti di chi in quel periodo lo allenava o ne seguiva le gesta quotidianamente parlavano di un lavoratore instancabile, che non lasciava il parquet prima di aver segnato 100 liberi consecutivi (e li faceva, potete giurarci). Un perfezionista, solista e solitario, che curava tutto: dal tiro, che l'ha reso grande e l'ha fatto ribattezzare “Mão Santa”, alla forma fisica, che ai tempi più di oggi per uno sportivo sudamericano poteva essere un problema.

Oscar lasciò Pavia a 35 anni, e per noi il suo nome divenne una specie di mantra di cui vantarsi con gli amici (“Oh, io sono stato allenato da Oscar!”) a cui era legato il ricordo suo e di Felipe — un ragazzo esuberante oggi diventato personaggio che gravita nel mondo della tv brasiliana, che amava il basket e raccontava di vacanze insieme a Magic Johnson; anche lui a 7 anni, mi perdoni Oscar, non era uno sconosciuto.

Nonostante l'età avanzata per un atleta, la carriera di Schmidt era solo più o meno a metà: dopo l’ultima tappa italiana sarebbero seguite due stagioni a Valladolid (a 28.3 punti di media per un totale di 2.009 punti in 71 partite), con pochi successi di squadra ma tantissimi canestri e gloria personale, come è sempre stato nella sua carriera. Nel 1995 il ritorno a casa, in Brasile, per gli “ultimi” otto anni di basket giocato. Per tutti e otto fu il miglior marcatore del campionato (33.5 punti a partita), si tolse la soddisfazione di giocare insieme al figlio Felipe e chiuse a 45 anni (nel 2003) dopo averne trascorsi quattro a Rio de Janeiro, città con la quale il rapporto si estende fino a oggi: Oscar infatti è stato testimonial delle Olimpiadi.

Oscar fa tutto

Vedendo questo video avrete notato sicuramente due cose: Oscar (maglia numero 11) segna sempre e in qualsiasi maniera, oltre a essere l'unico terminale offensivo della squadra. Quello che invece forse solo i più attenti avranno colto è quella frase che il telecronista, probabilmente “avversario” dato il tono dimesso del commento, si lascia scappare con disarmante schiettezza: “Oscar fa tutto”. È l'espressione più indicativa che riesce a descrivere il suo impatto su un campo da basket.

Sono highlights, d'accordo, ma partite da 61 punti — a cui peraltro Oscar non era nuovo — non sono per tutti nemmeno nell'epoca dei super-atleti NBA. Oggi siamo abituati a vedere isolamenti continui, giocatori che partono palla in mano e spaccando la difesa vanno a concludere anche quando questa è schierata, ma una squadra che giocava solo ed esclusivamente per servire un giocatore, che puntualmente scollinava i 50, era un'assoluta primizia.

Va detto che il sistema di gioco di Tonino Zorzi, coach di Pavia prima dell'avvicendamento con Attilio Caja, era perfetto per le caratteristiche del fenomeno brasiliano e che quella partita contro Caserta fu un unicum — ma sostenere sulle proprie spalle così tanto i destini della propria squadra è cosa per pochi. A lui invece veniva tutto estremamente facile e in campo sapeva effettivamente fare tutto: tirare sugli scarichi, mettere palla per terra, andare in post basso per sfruttare i centimetri — tutto sembrava semplice come andare oltre i 50 a referto in decine di partite con 8-10 triple a gara; duellare con Drazen Petrovic per anni con club e nazionale dando vita a partite memorabili come la finale di Coppa delle Coppe del 1989 tra Caserta e Real Madrid; segnare 55 punti in una gara olimpica firmando così un record ancora imbattuto. E altri record sono legati alle Olimpiadi, competizione cui è sempre stato molto legato (ne ha disputati cinque): miglior realizzatore assoluto di sempre (1.093), media punti più alta in un'edizione (42.2 a Seoul 1988 con 338 punti in otto match), maggior numero di presenze tra i cestisti (insieme al portoricano Teo Cruz). Per lui è stato facile anche affrontare e battere Team USA degli universitari David Robinson e Danny Manning nei giochi panamericani del 1987 segnando 46 punti (“Il mio più grande successo sportivo”, dice lui), oppure farne 24 (seppur con pessime percentuali) al Dream Team di Barcellona '92, nonostante la rovinosa sconfitta 102-87.

La vittoria più difficile

Quello che però Oscar non sapeva come affrontare, l’unica evenienza alla quale non era allenato, era la malattia. Un cancro al cervello che nel 2011, a soli 53 anni, rischiò di portarlo via senza che di lui si sentisse più molto parlare al di qua dell'oceano. Tanto spavento per poi arrivare al sollievo: il nodulo presente nella parte frontale sinistra, asportato dai medici dell'Albert Einstein di San Paolo, si rivelò benigno. Due anni di quiete, poi la ricaduta e di nuovo mesi a correre dietro alla vita. Rispetto alla prima volta, il nodulo era maligno — ma fortunatamente un altro sospiro di sollievo, o un altro regalo di Dio, in cui Oscar ha sempre avuto fede. Lo stesso Dio che figurativamente gli si presentò in forma umana due mesi dopo, nel luglio del 2013, in Brasile, nelle vesti di Papa Francesco, impegnato nel primo viaggio da Pontefice sul suolo natio. Oscar — icona sportiva locale e testimonial delle Olimpiadi — fu uno degli ammessi all'incontro col Santo Padre e da questo uscì decisamente rinfrancato, positivo, come un sesto uomo che sbuca dalla panchina per segnare il canestro decisivo della Partita, quella con la P maiuscola.

Hall of Fame

Una serie di segnali positivi che lo hanno portato a entrare ancora di più nella storia del basket e dello sport, non solo brasiliano. Sempre nel 2013 — annus horribilis che però a suo modo possiamo anche definire, più che in altri casi, “di grazia” — una chiamata inattesa lo avvisò che sarebbe entrato nella Hall of Fame, quella di Springfield, quella che conta (nella Hall of Fame della FIBA c’era già dal 2010). Alle parole del funzionario non credette, ma la sua grandezza era ed è tale da farlo considerare all'unanimità uno dei migliori giocatori di tutti i tempi. Credette ancor meno di poter presenziare alla cerimonia quando nei mesi successivi la salute tornò a presentargli il conto.

Ancora una volta però la tenacia dell'uomo di Natal (una città il cui nome è tutto un programma visti gli eventi della vita di Oscar) ebbe la meglio. L'8 settembre, con coppola e sorriso divertito, fu lui, fiero, a salire sul palco della Hall of Fame per tenere il tradizionale discorso accompagnato dal suo idolo d'infanzia, Larry Bird — che per l'Oscar ragazzo non si discostava molto dal Papa.

18 minuti ben spesi del vostro tempo

Una soddisfazione immensa è stata quella di rappresentare il proprio paese alle Olimpiadi: il CIO non ha avuto dubbi nello scegliere a chi affidare il ruolo di testimonial dei Giochi in una parte di mondo in costante sviluppo, che più di altre ha bisogno di esempi positivi. Un uomo buono, atleta integerrimo devoto da sempre alla propria nazione e nazionale tanto da rinunciare all'NBA per vestirne la maglia. Una scelta voluta e dovuta.

Meglio di Barkley

Già, l'NBA, sedotta e abbandonata da Oscar che ha avuto l'occasione di entrare nel mondo a stelle e strisce dalla porta principale ma ha preferito la Nazionale e l'Italia, dove i contratti all'epoca valevano un viaggio intercontinentale. Come tante storie “da Draft”, anche quella di Oscar è affascinante. Il 19 giugno 1984, dopo due stagioni a Caserta, Schmidt viene scelto dai New Jersey Nets al numero 131 su un totale di 228 giocatori (ai tempi c’erano meno franchigie, ma soprattutto dieci giri). Arrivare ad essere protagonista in NBA era difficile, la concorrenza era tanta e i posti meno rispetto ad oggi, ma Oscar si era venduto bene.

Il director of player personnel dei Nets, al tempo Al Hernandez, aveva visto nel talento brasiliano qualcosa di più anche del rookie Charles Barkley, scelto proprio in quel Draft — lo stesso di Hakeem Olajuwon alla 1 e Michael Jordan alla 3. In quegli anni erano ancora pochi i non americani nella lega – Marciulonis e Petrovic i primi a starci con continuità – ma Oscar valeva quella NBA. Peccato che venisse visto come uno specialista dalla panchina e che il suo contratto di un anno prevedesse uno stipendio di tre volte inferiore a quello di Caserta (era la stagione del primo salary cap). Usò la scusa della Nazionale (in caso di firma con i Nets non avrebbe potuto partecipare alle Olimpiadi di quell’estate), ma anche i soldi hanno sicuramente aiutato il giocatore a restare per altri 11 anni in Europa. Quello con l'NBA e gli USA è diventato così un incontro solo in chiave olimpica o panamericana, oppure a fine carriera da “santone”, come in questa visita alla nazionale di un giovane Kobe Bryant.

Kobe e Oscar a colloquio durante un allenamento della nazionale USA

O Rey do Triple

Ma come giocava Oscar Schmidt? Quali erano le sue caratteristiche tecniche?

Fin troppo facile rispondere guardando i video: le immagini parlano da sole.

La tecnica di Oscar era una rarità, invidiabile anche per tanti giocatori moderni. Oltre a “Mao Santa, lo chiamavano anche O Rey do Triple, e non serve traduzione. “Mi faceva fare un sacco di strani esercizi, correggendomi la posizione delle mani per il tiro. All’inizio non mi ritrovavo, ma lui mi disse: l’importante è cominciare a lavorare come si deve, diventerai un gran tiratore”, disse Oscar nel suo discorso d'insediamento nella Hall of Fame riferendosi all'insegnante di educazione fisica che lo portò dal calcio al basket quando era un ragazzino. Quegli esercizi strani, diventati pane quotidiano nel corso della carriera, hanno costruito un movimento di tiro tra i più fluidi e soprattutto più prolifici che la storia ricordi.

È infatti abbastanza semplice ritrovare nel basket moderno tiratori mortiferi (Kyle Korver, Ray Allen o andando indietro Reggie Miller) che abbiano mantenuto l’efficienza ben oltre i 30 anni, ma quanti di questi hanno avuto la stessa prolificità e costanza per oltre 25 anni di carriera? Nessuno, perché nessuno ha avuto — e difficilmente avrà — una simile longevità in campo a certi livelli. Sono ben 29 le stagioni “a referto” per Oscar da professionista e la sua capacità di fare canestro è rimasta la stessa dai 20 ai 40 anni inoltrati. Per trovare qualcosa di simile, con la stessa continuità, dobbiamo pescare tra le superstar. Michael Jordan, per intenderci.

A differenza dei grandi “tiratori seriali” però, grazie all'altezza Oscar aveva la capacità di partire anche spalle a canestro, sfruttare il fisico per avvicinarsi al tabellone con buona mobilità (non velocità) negli arti inferiori oppure prendere spazio dal difensore per tirare, sua mossa prediletta. “Il canestro è grande come una vasca da bagno” usava dire nelle serate buone (la maggior parte), ma questa apparente spocchia era in realtà solo sicurezza nei suoi mezzi, basata su tantissimo lavoro - anche perché chi ha conosciuto Oscar tutto direbbe tranne che fosse presuntuoso.

Assodato che il talento fosse di casa, l'ossessione con cui lavorava sul proprio tiro aveva dello psicotico: sessioni lunghissime, solitarie e ripetitive, come conferma la storia dei 100 liberi segnati prima di andare a casa ai tempi di Pavia. Non ha mai creduto che il talento fosse sufficiente per diventare il migliore, bensì che su quel dono si dovesse sempre lavorare, come a ringraziare Dio ogni giorno, in ogni allenamento. E condizionava chi gli stava intorno: allenatori, ragazzini, persino la sua futura moglie, conosciuta a 17 anni e “drogata” fin da subito. Lei gli passava la palla e Oscar non poteva chiedere di meglio: “Dopo un mese in cui mi aiutava ogni giorno le ho detto che avrei dovuto sposarla. È stata la mia macchina da rimbalzi per tutta la vita”, dice di Maria Cristina Victorino, poi mamma di Felipe e Stephanie.

Così è nato il mito di “Mao Santa”, un non-atleta che aveva la capacità tecnica di beffare gli avversari con le finte, di batterli dal palleggio o di tirargli in faccia con estrema naturalezza. Non a caso il suo idolo era Larry Bird, l’anti-atleta bianco nel mondo dei supereroi afroamericani, un tiratore infallibile diventato leggenda: “Non correva, non saltava, ma giocava meglio di chiunque altro. Per questo è il più grande giocatore di sempre, secondo me”, diceva dell'ex Celtic.

Veneziano dal cuore d'oro

Oscar aveva bisogno della palla in mano, sempre e comunque, per poter incidere e per essere utile. Se tanti sono i pregi e le cose positive dello Schmidt giocatore, inevitabile trovare dei difetti in un modo di stare in campo ben lontano dal concetto di squadra su cui la pallacanestro si basa. Scientificamente un solo giocatore non può vincere partite e campionati, e Oscar ne è la prova. Si ricorda la vittoria nel campionato panamericano, una Coppa Italia con Caserta, una Coppa Intercontinentale con l'EC Sirio a 21 anni, due ori ai campionati americani ('84, '88) e otto titoli brasiliani. Questi i successi dei club in cui ha militato per un bottino più scarno di quanto avrebbe meritato la sua storia, ma allo stesso tempo dimostrazione che da soli non si vince e non è un caso che i 15 titoli di capocannoniere (tra Serie A e campionato brasiliano) sono ciò che racconta meglio la sua carriera.

Non ha mai giocato in grandi club, non ha mai potuto far parte di squadre con altri numeri 1 perché i palloni dovevano finire nelle sue mani – pensate oggi quanto un giocatore così possa essere complesso da inserire in un sistema con due/tre stelle. Non ha mai avuto una grande attitudine difensiva e non era considerato un giocatore da ultimo tiro perché per lui i tiri erano tutti uguali e i suoi 50 punti li faceva durante il corso della partita, che doveva essere vinta prima, altrimenti meglio affidarsi a qualcuno con più killer instinct. Era una macchina che andava azionata con costanza, guai a chiedergli di fare assist. Senza poter tirare, senza avere più del 70% dei palloni in attacco, la sua presenza in campo aveva poco senso, idem partendo dalla panchina. Un giocatore fortissimo, ma tremendamente condizionante: un veneziano, ma timido e simpatico. Così, veneziani, vengono definiti solitamente in ambito calcistico i giocatori che tengono spesso la palla per cercare la soluzione solitaria. A Oscar la palla la passavano, non la portava lui, ma sapeva che l'avrebbe ricevuta. Eppure il suo carattere era ed è lontano dal “faso tuto mi” e dalla ricerca di gloria a tutti i costi. Certo, ne ha avuta tanta, ma senza mai vantarsene. Fa specie pertanto vedere che oggi, spinto dal figlio Felipe che lavora nel mondo della televisione, sia diventato protagonista di una produzione tv: Familia Schmidt.

Dietro le quinte di Familia Schmidt, il reality di Fox Sports interpretato da Oscar Schmidt e famiglia

Un reality sulla vita di casa Schmidt che mostra il lato più intimo di Oscar e dei suoi, quello sconosciuto ai più. Sei episodi in cui tutti i componenti della famiglia si presentano nel loro essere più vero, tra problemi comuni e una notorietà che evidentemente non è cosa per nuclei “normali”, ma sempre trattata con grande dignità. Chi ha partecipato e seguito le riprese racconta di un ambiente straordinario, sereno, allegro, come è sempre apparso Oscar fin dai tempi in cui provava a fare il coach a noi bambini della Fernet Branca.

Il venezianesimo, nel gioco come nella vita, non fa parte di Oscar che in 58 anni di vita, con 29 di carriera e due operazioni al cervello, sa che le partite da vincere sono in altri campi, senza pallone né telecamera. Boa sorte, Mao Santa!

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