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John Carlos
La Harlem che ha cresciuto John Carlos
19 gen 2024
19 gen 2024
Un estratto dall'autobiografia del velocista statunitense.
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John Carlos
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IMAGO / WEREK
(foto) IMAGO / WEREK
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Pubblichiamo un estratto di “Autobiografia di una leggenda. I pugni olimpici che hanno cambiato il mondo", il racconto autobiografico di John Carlos, edito in Italia da DeriveApprodi. Se volete acquistare il libro potete farlo cliccando qui. Harlem. Nato e cresciuto. Sono giunto sulla terra il 5 giugno 1945. Ho avuto un parto podalico, il che significa che sono arrivato con il sedere rivolto al mondo, rendendo le cose molto più difficili a tutti quelli che mi circondavano. È buffo. Il 626 di Lenox Avenue è stato il mio primo indirizzo. Si trovava a circa mezzo isolato dal Savoy Ballroom e a pochi passi dal Cotton Club. Se non conoscete i nomi di questi due luoghi magici, dovete cercarli. Qui si trovavano la musica, la danza e i migliori artisti del XX secolo. Proprio nel cuore di Harlem, dove i giorni erano duri e le notti si animavano come se le mareggiate raggiungessero uptown, perché eravamo la casa dei migliori. Crescendo così vicino a tanta grandezza, mi sono sentito di non dovermi sedere sul retro dell’autobus di nessuno. Sì, ero lì, nel bel mezzo dell’Harlem Renaissance. E poi l’ho vista diventare una vittima, strangolata nella culla, che piangeva per la musica che aveva smesso di suonare. La Harlem di allora è quella che definirei «sale e pepe». C’erano bianchi, neri e una comunità unita, almeno così appariva ai miei giovani occhi. In quel periodo particolare eravamo, per così dire, un’insalatiera. La nazione era segregata, Harlem era integrata. Ma poi, proprio mentre vedevamo sugli schermi televisivi la gente marciare verso Sud per l’integrazione, con i cani e i cannoni ad acqua, ho iniziato a vedere questo esodo. Avevo nove anni. I bianchi decisero di fare i bagagli e lasciare Harlem, portando con sé i loro risparmi. Sapete quanto costano oggi gli immobili ad Harlem? Scommetto che ora la rimpiangono. Ma questo processo, chiamato gentrification, ha un suo prezzo. Troppe zone di uptown sono diventate off-limits, in quanto siamo stati semplicemente espulsi dal mercato. Sono contento che il mio vecchio quartiere non sia più una zona di guerra, ma mi sento come se non potessi tornare a casa perché la mia casa è un ricordo. Nella mia cerchia di amici, ero uno dei ragazzi fortunati perché avevo una mamma e un papà nel nucleo familiare. L’epidemia di droga stava iniziando a bruciare lentamente ad Harlem e troppi membri della mia comunità si trovavano un cappio in fiamme appeso al collo. C’era la «King Kong», che era come la polvere d’angelo. La droga ha sempre avuto un percorso più facile nelle case con un solo genitore. Molte persone hanno vissuto la loro vita intorno alle droghe e all’alcol fino a quando non sono state schiacciate. Per mia fortuna, ho avuto una madre, un padre, due fratelli e una sorella che si sono tenuti alla larga da tutte queste porcherie. A volte mi è parsa una fortuna, mi è sembrato che qualcuno vegliasse su di noi, mentre altre volte mi pareva che fossimo tutti così concentrati a uscirne che ci siamo tenuti alla larga da ciò che ci avrebbe incatenato a una nave che affondava. Mio padre si chiamava Earl Vanderbilt Carlos. Era nato nel 1895, appena trentadue anni dopo il Proclama di emancipazione, figlio di mezzadri a Camden, nella Carolina del Sud. Ha combattuto nella Prima guerra mondiale, ottenendo diversi encomi per il suo coraggio in un esercito segregato. Se gli chiedevate della guerra, vi avrebbe detto che gli ufficiali bianchi lo trattavano in un solo modo: «Come una merda». Ufficialmente faceva il falegname, ma la sua abilità consisteva nel lavorare un paio di scarpe. Era un uomo con un mestiere che oggi non esiste quasi più, probabilmente sembra remoto e distante come nascere nel XIX secolo e vincere medaglie nella Prima guerra mondiale. Era un calzolaio, un calzolaio con una bottega tutta sua, era un’elegante combinazione di muscoli affastellati e dita agili. Ai miei occhi, quando girava per quella bottega, era un uomo autorevole e con un mestiere che andava indietro nel tempo. Al di fuori, non era il calzolaio di nessuno. «Big Earl» Carlos era un abile scommettitore. «Big Earl» ha chiarito, però, che la scommessa era per il dopo-lavoro e non sostituiva il duro impegno che costruiva la stabilità da cui dipendeva la nostra famiglia in un quartiere che poteva essere una montagna russa di emozioni e trappole. Mio padre era un operaio. Apriva le porte del suo negozio alle sette del mattino e talvolta le teneva aperte fino alle otto di sera. Trattava i suoi tre ragazzi come uomini. Voleva assicurarsi che fossimo liberi di fare le nostre cose e di costruire la nostra strada, ma era molto severo su certi aspetti, come andare a scuola. Diceva: «È meglio che vi dedichiate a quel banco fino alla fine della giornata». Poi sono arrivate le attività informali. In quel periodo non riguardavano solo mio padre, ma quasi tutti i neri del nostro quartiere. Gli uomini neri, in particolare, non riuscivano a farcela con gli stipendi che guadagnavano. Avevano sempre la loro piccola sala da gioco con i dadi, o una partita a poker, o l’estrazione dei numeri, o cose del genere. Ricordo che quando la partita di poker si svolgeva a casa mia, mia madre vendeva cene alle persone riunite intorno al tavolo. Mio padre interrompeva la partita e ogni persona presente doveva lasciare qualcosa in cassa. E lo facevano. Io e i miei fratelli, Andrew ed Earl Junior, servivamo da bere, portavamo da mangiare, facevamo qualsiasi cosa potessimo. Vedevo un gruppo di uomini che parlavano, mangiavano, fumavano e alcuni avevano un’abilità matematica nel contare le carte che avrebbe fatto vergognare un professore del MIT. Penso che questa sia solo un’istantanea di molte famiglie che facevano quello che dovevano per arrivare a fine mese. Mia madre, Violis, è nata in Giamaica e cresciuta a Cuba fino all’età di diciassette anni. Era un’assistente infermiera al Bellevue Hospital di New York. Lavorava di giorno, poi è passata al turno di notte, così il piccolo stipendio che un’assistente infermiera portava a casa era solo un pizzico più alto, ma ogni pizzico contava. Chiunque abbia avuto una madre che lavorava di notte, da mezzanotte alle otto del mattino, sa cosa significa per una famiglia. Ci si sveglia con un brutto sogno, con Earl Vanderbilt Carlos, quindi si sente terribilmente la mancanza della propria madre. Ma allo stesso tempo si è pieni di soggezione per il fatto che qualcuno abbia sacrificato così tanto per te, i tuoi fratelli e le tue sorelle. Una famiglia può imboccare due direzioni quando la madre lavora in orari così difficili: può dividersi oppure unirsi. Noi siamo rimasti uniti. Siamo rimasti uniti perché ci sembrava di essere tutti sulla stessa barca e di far parte dello stesso progetto. La scuola era solo una parte della nostra vita. Tutti lavoravano e tutti si davano da fare. Io e i miei fratelli lavoravamo nella bottega di mio padre. E io, insieme alla mia banda, aprivo le porte dei taxi per le grandi occasioni al Savoy Ballroom. Ho sempre avuto la mia banda, cinque o sei ragazzi che ancora oggi considero tra i migliori amici che si possano avere. Ci davamo da fare insieme giorno e notte e vivevamo con attività informali. Come non avremmo potuto? Se aveste vissuto a Hershey, in Pennsylvania, probabilmente vi sarebbe piaciuto il cioccolato. Beh, se vivevi accanto alla Savoy Ballroom, ti davi da fare. Era una calamita, una forza della natura che è difficile da descrivere ai giovani di oggi che ascoltano la musica negli stadi o in cuffia. Eravamo ad Harlem e ogni fine settimana c’era un flusso costante di gente che arrivava lì con grossi rotoli di denaro da sbandierare. Tutti passavano dal Savoy, da Frank Sinatra e Louis Armstrong a Ella Fitzgerald e Lena Horne. Aprivamo le porte a tutti i taxi che arrivavano dal centro e ci davano soldi come se niente fosse. Ma la cosa più impor- tante era esibirsi proprio davanti al Savoy. Eravamo il pre-spettacolo, la performance prima della performance. Io e la mia banda andavamo alla fabbrica di gelati LC, lungo il fiume Harlem, e ce ne tornavamo con una pila di barattoli vuoti. Poi giù al Savoy, quei secchi di gelato diventavano tamburi, conga, timbales o qualsiasi tipo di percussione si possa immaginare. Dateci una mezza dozzina di barattoli di gelato e riusciremo a tenere il ritmo. Poi un paio di ragazzi della mia banda suonavano la batteria mentre il resto di noi cantava. Non si trattava di un tentativo di fare un suono alla Harlem o alla Motown. Tornavamo indietro nel tempo e cantavamo ciò che si adattava ai gusti dei gonzi che scendevano da taxi e limousine. Pensate a canzoni come My Bonnie Lies Over the Ocean o Swanee River. I ragazzi ballavano un po’ con le scarpette morbide al ritmo del nostro secchiello del gelato, e poi io ero incaricato di chiedere mance per la nostra performance di alto livello. Era davvero qualcosa di speciale. A volte la gente diceva che eravamo il vero spettacolo, poi andava al Savoy a bere qualcosa. Un personaggio che passava regolarmente dal Savoy era Fred Astaire, ballerino e star del cinema. Si fermava sempre a guardarci, battendo il piede a ritmo. Poi non mancava mai di darci un dollaro d’argento. Era un’epoca in cui un dollaro d’argento era, per noi bambini, come tutti i soldi del mondo. Mentre si allontanava, diceva: «Voi ragazzi fate sempre un bello spettacolo per i soldi». Fred Astaire non lo sapeva, ma mi ha dato qualcosa che mi ha accompagnato per tutta la vita. Sia che corressi in pista, sia che giocassi a football, sia che parlassi ai bambini, mi assicuravo di dare spettacolo. Ci ha insegnato che il valore dell’estro è fondamentale. Ma al Savoy non ho imparato solo questo. No, la formazione è stata molto più profonda. Ero ad Harlem e la maggior parte delle persone che entravano nel nostro paradiso uptown erano bianchi provenienti dal centro. Vidi anche che quando si esibivano i nostri reali afroamericani, «Satchmo», Ella, «Lady Day», dovevano sempre entrare dalla porta posteriore. Ciò mi ha colpito in modo particolare. Crescendo ad Harlem, non sapevo di essere «nero». Ero un essere umano: Johnny Carlos, figlio di Earl Carlos. Ecco chi ero. Ma andando al Savoy ho visto chi serviva e chi veniva servito. Vedevo chi mangiava bene e chi si occupava dell’intrattenimento. La mia mente faceva gli straordinari, pensando a questioni su cui i giovani non dovrebbero riflettere. Vedere ogni settimana i grandi artisti neri mi faceva scoppiare il cuore di orgoglio; allo stesso tempo mi chiedevo perché dovessero cantare per mettere insieme il pranzo con la cena. Erano questioni per me importanti, perché in quegli anni pre-adolescenziali cominciavo a rendermi conto di avere una serie di abilità che la gente avrebbe pagato per guardare.

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