Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La crew di Columbus è tornata a splendere
22 nov 2017
22 nov 2017
Il primo stadio statunitense costruito per il calcio, un allenatore studioso e il numero 10 sulle spalle di Higuain (Federico): Columbus Crew è una delle squadre più interessanti di questa MLS.
(articolo)
14 min
Dark mode
(ON)

Anche senza poter contare sulla magniloquenza architettonica di Wembley, del Monumental Vespucio Liberti o dell’Azteca, il MAPFRE Stadium di Columbus, Ohio, è riuscito a crearsi attorno una propria mistica. Lo stadio sorge ai bordi della città, in mezzo al nulla: arrivarci non è semplice e il percorso si trasforma in un pellegrinaggio, un viaggio di espiazione che carica l’attesa.

La Federazione statunitense lo ha scelto, dal 2001, come sede fissa di una delle partite più sentite a livello internazionale, il Clásico della CONCACAF: le gare di qualificazione ai Mondiali tra Stati Uniti e Messico. Le temperature sempre abbastanza rigide dell’Ohio, l’atmosfera raccolta, la scarsa presenza - rispetto ad altre zone degli USA - di immigrati latini hanno reso Columbus una specie di fortezza inespugnabile.

Gli States non facevano risultato contro i vicini dal 1980: quella partita del 2001 finì per dare vita a uno dei feticci della cultura calcistica yankee, il mito - un po’ sbiadito, dopo la clamorosa eliminazione dell’USMNT dalla corsa ai Mondiali di Russia - del “Dos a cero”. L’incantesimo sarebbe durato per quindici anni, sette vittorie e due pareggi, fino al Novembre scorso, quando “El Tri” - a pochi giorni dall’elezione di Trump, in un capolavoro retorico al contrario - è riuscito per la prima volta a espugnare Columbus.

Il MAPFRE è stato il primo stadio statunitense ad essere stato costruito per essere destinato esclusivamente al calcio. Inaugurato nel 1999, tre anni dopo il lancio della MLS, è stato il personalissimo "Teatro dei Sogni" di una squadra che a cavallo tra il 2004 e il 2009 ha esercitato un dominio piuttosto incontrastato. Sotto la presidenza della famiglia Hunt Columbus ha conquistato tre Supporters’ Shields (il titolo che spetta alla squadra che, tra Eastern e Western Conference, colleziona più punti nella stagione) e una MLS Cup. In squadra poteva vantare campioni conclamati come Guillermo Barros Schelotto, perle esotiche come il sudafricano Theophilus Doc Khumalo e buoni prospetti locali come Brian McBride, l’attaccante protagonista dello scontro con De Rossi nei Mondiali del 2006.

Dopo quel periodo i Crew sono finiti un po' relegati ai margini della storia della MLS. Se c’è qualcosa che sanno fare molto bene, a Columbus, però, sono i piani di spesa e le previsioni di ritorno degli investimenti, che sono sempre oculati e mai a perdere. Ed è anche per questo che i Crew, nonostante siano una delle squadre meno cool della MLS, sicuramente meno delle altre squadre giunte fino alle finali di Conference della MLS Cup 2017, sono più o meno sempre lì, a giocarsela fino alla fine.

Ieri, nella finale di andata della Eastern Conference giocata in casa, al MAPFRE, ha pareggiato 0-0 contro Toronto, schiacciasassi in Regular Season. Le occasioni avute nel secondo tempo sono di quelle che lasciano ferite indelebili se le cose andassero male in Canada tra una settimana (quando nel video qui sotto, via MLS, sentite nominare "Higuain", be', non è Gonzalo).

Columbus is on fire, ma se ne sono accorti in pochi

Nonostante siano già stati finalisti anche in tempi recenti, nel 2015, sconfitti in casa da Portland, le loro prestazioni quest’anno sono passate tutto sommato inosservate. L’assenza di nomi di richiamo e una stagione anonima come quella del 2016 li aveva piazzati nella geografia degli screditati, obnubilati da piazze in ascesa come New York o Atlanta.

Eppure nel corso della stagione i Columbus Crew hanno compiuto una profonda metamorfosi: dopo aver subito quasi quaranta reti nelle prime 24 partite, il reparto difensivo ha trovato una quadratura , riducendo lo score negativo a una rete a partita. Nelle ultime dodici gare hanno inanellato 12 risultati utili consecutivi, con 7 vittorie e 5 pareggi, prima di perdere il ritorno delle semifinali di Conference contro New York City e rischiare di vanificare tutto il percorso compiuto fin lì.

Ma nella semifinale di andata, il MAPFRE ha esercitato tutta la sua mistica: NYCFC annichilito da un 4-1 che sarebbe potuto essere anche più rotondo.

Il segreto di una stagione così strepitosa non è affatto un segreto, perché è il caposaldo dell’idea di calcio che hanno a Columbus: identità di gioco forgiata da un allenatore con una visione, calciatori non troppo appariscenti, senso di responsabilità e meritocrazia diffusa. Non è un caso che il capitano, Will Trapp, sia il più giovane capitano della MLS, cresciuto e coltivato sotto l’ala protettiva di Federico Higuaín, come dicono a Columbus «L’Higuaín più utile alle squadre per cui gioca».

Ce-ci n’est pas El Pipita

Ethan Finlay, compagno di squadra della prima ora, ha raccontato che nel 2012, quando ha sentito dire che Columbus aveva acquistato un forte attaccante che si chiamava Higuaín, ha pensato «non ci posso credere, abbiamo preso uno del Real Madrid».

Le titubanze erano reciproche: negli stessi giorni Federico Higuaín chiamava Guillermo Barros Schelotto, una figura mitica della storia della squadra, per farsi consigliare. Valeva davvero la pena scegliere di giocare negli Stati Uniti? E se sì: Columbus era il posto giusto in cui farlo?

Oggi Federico Higuain ha superato El Mellizo sotto ogni punto di vista: nelle presenze, nei gol segnati, negli assist. Per eguagliarlo gli manca soltanto di vincere un premio come MVP di stagione, e una MLS Cup.

Seguendo una logica comune a molti calciatori argentini espatriati negli States, a Columbus Higuaín è approdato alla ricerca di tranquillità: un ambiente più rilassato, in cui «la gente può andare allo stadio a guardarsi una partita senza problemi».

Per la MLS è stato una specie di Giovinco ante-litteram: è arrivato ancora nel pieno della carriera, quando aveva 27 anni, in fuga non solo da un contesto calcistico troppo violento e squilibrato come quello argentino, ma anche - per quanto sia sempre un po’ riluttante ad ammetterlo - dai paragoni soffocanti con i successi del fratello.

A Columbus Federico si è ritagliato uno spazio definito, ha costruito una carriera dignitosa, meno esposta di quanto sarebbe potuta essere in Europa. A differenza di Gonzalo non è mai stato un attaccante prolifico: è più uno di quei calciatori che puntano sulla tecnica per innescare i compagni, dettare i tempi di gioco, tagliare il campo con passaggi precisi.

Nel 2017 ha giocato la migliore stagione della sua carriera in MLS, un vero e proprio comeback considerando che l’anno scorso, anche per via di un’ernia, aveva giocato pochissimo e raccolto prestazioni opache.

Con due finali da giocare, e potenzialmente una terza, ha già collezionato 9 reti (a sole due dal suo record di marcature) e 10 assist, una statistica inedita che è anche la testimonianza di un’evoluzione del suo ruolo in campo; Federico ha ritrovato fiducia nei suoi mezzi, tanto da decidere di prolungare per un’altra stagione un contratto che l’avrebbe visto terminare l’avventura a Columbus, e forse nel calcio, al termine di questa stagione.

«Fuori dal campo è una specie di unicorno», ha detto di lui Trapp con un’immaginazione molto fervida. «Si annulla, fa cose così semplici che lo guardi guidare in autostrada e fatichi a renderti conto che sia il giocatore più importante della nostra squadra». In campo, invece, Higuain dispensa consigli paterni, non si atteggia mai a primadonna, è l’epicentro di ogni manovra. Non è mai didascalico nelle giocate pur finendo per esserlo negli atteggiamenti. Berhalter, l’allenatore, dice che «si è trasformato da giocatore molto bravo a compagno molto bravo. È questa la cosa più importante, che non tutti capiscono: in campo diventa un’ombra che aiuta i compagni a giocare meglio, attirandoli a sé».

Il senso di Gregg per il calcio

L’esperienza e la sensibilità di calciatori come Federico Higuaín, ma anche Harrison Afful o Jonathan Mensah, nazionali ghanesi e parte di una microcomunità solida e tradizionalmente radicata a Columbus, sono state nell’arco delle ultime quattro stagioni funzionali per la visione di Gregg Berhalter. Grazie a loro i Columbus Crew sono diventati una squadra che sa esattamente come orientare il piano partita, o almeno da dove partire per provarci: impostare la manovra a partire dalla difesa, dettare il tempo nel centro del campo, mantenere il possesso e innescare con rapidità le sovrapposizioni dei laterali bassi o i tagli esterno-interno delle ali.

Columbus ha il gioco più coerente, e divertente, di tutta la MLS. Una concezione maturata in un processo di crescita costante, di studio, di approfondimento. «Come in ogni altra professione, più fai più esperienza accumuli, e più riesci a sviluppare le tue idee», spiega Berhalter. «Leggo molti libri. Guardo molto calcio. Voglio continuamente vedere progressi e miglioramenti».

Il senso di Berhalter per il calcio si è sviluppato in Olanda, dove ha giocato per sei stagioni e ha interiorizzato i principi del gioco di posizione. «Buttavo giù appunti e tenevo un diario sulle cose che facevamo in allenamento, come avrei schierato la squadra in campo, che tipo di caratteristiche dovevano avere i calciatori schierati in certe posizioni. Dopo l’allenamento, dopo le partite, mi fermavo a discutere con i compagni di tattica. È lì che sono diventato quello che sono adesso».

Nel 2009 è tornato in MLS per giocare con i LA Galaxy, come difensore-allenatore, dal momento che si alternava tra campo e ruolo di assistente di Bruce Arena. Sei mesi più tardi è stato il primo allenatore americano a guidare una squadra professionistica in Europa, gli svedesi dell’Hammarby.

Lettore accanito di Spielverlagerung, basa il suo approccio su un sistema analitico: è tra i pochi ad aver sostenuto che il 2016, nonostante la mancata qualificazione ai play-off di MLS Cup, sia stata una delle stagioni migliori dei Columbus Crew. «Se guardo agli Expected Goals del 2016 non posso che essere fiducioso nella bontà del nostro sistema, sul nostro stile di gioco, e del nucleo della squadra».

Senza particolari innesti, né smantellamenti, è la stessa che quest’anno ha condotto fino alla finale di Eastern Conference, piazzandosi sul podio degli allenatori di MLS che, specie in un contesto sempre più sbilanciato verso il successo dei club che investono di più, è forse tra i più sottovalutati.

La faccia della tenacia

Justin Meram è il calciatore probabilmente più indicato a rappresentare gli ultimi tre anni di storia calcistica dei Columbus Crew. Non è un nome al centro delle scene. Gioca interpretando un ruolo, quello di ala sinistra, nella maniera meno individualistica possibile.

Nel 2017 è maturato e si è evoluto in un calciatore completo: rapido ma anche forte fisicamente, capace di saltare l’uomo o semplicemente tagliare fuori la linea difensiva con filtranti in profondità per Ola Kamara, il centravanti. Umile, con una forte etica del lavoro, tenace: ma soprattutto, capace di affinare la sua intelligenza calcistica introiettando gli insegnamenti di Berhalter.

Justin Meram è nato nel cuore verde del Michigan, a Shelby Township, da genitori cattolici caldei trasferitisi negli States da Mosul, la città iraqena che l’ISIS ha conquistato e messo a ferro e fuoco fino a renderla, come è stato descritto con una metafora particolarmente ispirata, «una scultura d’argilla interamente distrutta da mani enormi».

Ai Crew è arrivato nel 2011, dopo una carriera brillante nel calcio universitario. Tre stagioni più tardi, ormai ventiseienne e senza nessuna speranza particolare di entrare a far parte del giro della Nazionale, è stato convocato per la prima volta dall’Iraq. A segnalarlo allo staff tecnico dei Leoni di Babilonia è stato Yousif Alkhafajy, architetto che vive tra Londra e Dubai, fondatore di Iraqi Pro Players, piattaforma che raccoglie informazioni su calciatori con passaporto iraqeno sparsi per il mondo e potenzialmente arruolabili dalla Nazionale. Per Justin è stata «la più grande decisione che abbia preso in vita mia».

L’esordio, dopo anni di cavilli burocratici che rallentavano l’emissione del suo passaporto, è arrivato nel 2015. Il primo gol, invece, ha avuto la gestazione di un parto: dopo la rete contro la Thailandia ha baciato la maglia e indicato un polsino, sul quale aveva scritto “Per l’Iraq”.

Nel 2015 Columbus era in piena corsa per la finale di Conference. Meram, convocato per una partita contro Taipei, fa il giro del mondo pur di rispondere alla chiamata. L’allenatore, però, lo manda in tribuna. Dopo voli per 27 ore, due scali e l’attraversamento di 13 fasce orarie, Meram non viene neppure preso in considerazione per la panchina. «Ero giù, ero estremamente arrabbiato. Capisco che il solo fatto di aver viaggiato così tanto non mi dava il diritto di giocare. Ma almeno di essere considerato parte del gruppo». Il senso di appartenenza, l’orgoglio di rappresentare una Nazione che non ha neppure mai visitato si scontra con la realpolitik calcistica irachena. Sfuma in contingenze che sfuggono alle leggi del campo. Il calcio, sulle rive del Tigri, non è lo stesso che Justin ha sempre conosciuto, quello estremamente organizzato e democratico degli States. Justin comincia a sospettare che essere il solo Cristiano all’interno della squadra possa essere la causa dell’esclusione. «Mi devono delle risposte», ammette deluso una volta di ritorno. Il giorno successivo è in programma la finale d’andata della Eastern Conference, contro i New York Red Bulls. «Non foss’altro, per non aver giocato sarò più fresco», scherza Justin. Ventiquattro ore più tardi segnerà il gol più veloce nella storia dei Play-Off della MLS Cup, dopo soli 9 secondi dall’inizio del match.

Tutt’altro che scoraggiato, Meram non ha mai abbandonato l’idea di voler rappresentare l’Iraq.

Tra marzo e giugno di quest’anno viene nuovamente convocato, ma rifiuta la chiamata. È il periodo di massima auge del Muslim Ban lanciato da Trump. L’Iraq non è nella lista nera, ma l’Iran sì: e per questioni di sicurezza i Leoni di Babilonia giocano le partite casalinghe nello stato confinante. Lo staff tecnico cerca di convincerlo in tutte le maniere, si fanno supportare da un esperto legale che spiega a Meram come il semplice fatto di visitare Teheran non possa in alcun modo complicargli la vita una volta di ritorno in America. Ma Justin è terrorizzato, e viene depennato. In quel periodo di esilio autoimposto segnerà 8 reti. «Ogni calciatore rende al meglio quando ha la mente libera, quando i livelli d’ansia sono bassi. Ma io in quel periodo non avevo la mente giusta per andare. Non era solo per il ban. Ma anche per quello».

L’ultima occasione di portare Columbus al trionfo

Meram sarà uno dei perni sui quali Berhalter vorrà veder poggiare i meccanismi offensivi di Columbus. «Siamo due squadre completamente diverse», ha detto l’iracheno parlando di Toronto prima della partita d’andata. «I soldi che loro spendono per tre giocatori - o che hanno speso per uno solo di loro - fa più o meno la somma degli stipendi di tutta la nostra squadra. È ovvio che tutti diano più credito a loro. Per questo sarà una partita magnifica da vedere». E almeno all'andata lo è stata, con una partita in sostanziale equilibrio per i novanta minuti e un secondo tempo in cui Columbus avrebbe potuto tranquillamente segnare un gol che l'avrebbe fatta stare più tranquilla in vista del ritorno.

Columbus ha l’ultima opportunità, forse, di fissare la propria bandierina sulla mappa dei successi del soccer statunitense. Nell’ultimo mese Anthony Precourt, il presidente del PSV (Precourt Sports Ventures, la società che detiene il pacchetto di maggioranza dei Crew) ha intrapreso un braccio di ferro con la città per la costruzione di un nuovo stadio, minacciando - nel caso in cui non ottenga il via libera - di spostare la franchigia a Austin, in Texas. Non è solo una provocazione, anche se ha tutti i crismi per sembrarlo: come si fa a spostare una squadra 1000 km più a sud? Ma Austin è una città in rapida crescita, alla quale manca ancora - in realtà manca a tutto lo Stato del Texas - un’anima calcistica. E i conti dei Crew, per quanto quadrati, sono ancora i più bassi di tutta la MLS.

Dinamiche che ovviamente sfuggono alle volontà dei tifosi, che si sono mobilitati in massa, accogliendo il supporto di molte altre tifoserie e squadre avversarie, lanciando campagne mediatiche dirompenti, raccolte sotto l’hashtag #SaveTheCrew.

Che il calcio negli States non sia radicato nella cultura popolare è una fallacia classica che dovremmo imparare a superare: l’appartenenza della tifoseria, i legami con il sostrato sociale che circonda i club, a vent’anni dalla prima edizione, è un sentimento che può già dirsi abbastanza cementificato sulle piazze storiche.

Una di quelle piazze, incontestabilmente, è l’Ohio. Paradossalmente, dovessero vincere quest’anno - a distanza di quasi un decennio -, potrebbe essere l’ultima possibilità che il nome di Columbus ha di comparire sul piedistallo della MLS Cup.

Mi sembra un buon motivo, casomai non vi foste ancora fatti un’idea chiara, per decidere chi tifare tra una settimana nella finale di ritorno della Eastern Conference. E poi, in caso, perché no, anche per la finalissima contro una tra Seattle (che ha vinto 2-0 l'andata) e Houston.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura