Al Marakanà di Belgrado, stadio storicamente carissimo al Milan, il giro di parole è un esercizio retorico praticato con parsimonia. Il 22 agosto 2006, quando i rossoneri si lasciano alle spalle il tunnel degli spogliatoi per scendere in campo, guardando in direzione della gigantesca Curva Sud possono notare il settore diviso in quattro grossi spicchi, due rossi e due neri, con un'enorme scritta UEFA. Al centro, più piccolo ma ben visibile, uno striscione con una sola parola in maiuscolo. Una parola italiana, ma di sicura presa anche nel resto del mondo: MAFIOSI.
A 2:34 il delicato omaggio della curva locale.
Mafiosi?
Il Milan campione d'Europa 2006-2007 è un western crepuscolare che ha ben poco a che fare con l'epica berlusconiana e fa piuttosto riferimento ai classici che si studiano al liceo. Per effetto della genesi traumatica di quella stagione, la sua narrazione è piena di increspature e punti oscuri, molto lontana dai trionfi di Sacchi o dal ritrovato smalto del primo Milan di Ancelotti, ennesima felice derivazione di un modello calcistico-aziendale che aveva raggiunto il suo zenit nel 1994, quando i ragazzi di Capello avevano strapazzato il favoritissimo Barcellona negli stessi minuti in cui il loro Presidente otteneva al Senato la fiducia al suo primo Governo. Il Milan 2006-2007 è invece una squadra di vecchi lupi e di revenants, universalmente ritenuti bolliti, sono Butch Cassidy e Sundance Kid nel casolare abbandonato, assediati dalla gendarmeria boliviana, che nonostante tutto seguitano a fantasticare di futuri viaggi e zingarate.
Atene è molto lontana, certo più di Berlino, il 29 luglio 2006, quando i cinque campioni del mondo Inzaghi, Gilardino, Nesta, Gattuso e Pirlo ricevono tutti la stessa telefonata da Milanello: vacanze interrotte, tra 10 giorni c'è il preliminare di Champions. Insieme a loro rientrano in fretta e furia Dida, Cafu, Kakà, Jankulovski, tutti segnati dall'imbarazzo dell'imprevisto. Da due mesi il calcio italiano è emarginato e guardato con ribrezzo, come una vecchia zia ubriacona a fine matrimonio. Blatter non si è neanche degnato di porgerci la coppa del Mondo; il 2 agosto l'Emergency Panel dell'UEFA ammette il Milan al preliminare ma solo per insufficienza di basi legali, ammonendolo con frasi di durezza inaudita: «Il club non ha ancora percepito nella maniera giusta i problemi in cui si trova e il danno che ha causato al calcio europeo. L'UEFA e gli avversari del club osserveranno con la massima attenzione il futuro comportamento del Milan negli appuntamenti delle competizioni UEFA».
Una squadra modello e fonte d'ispirazione trattata improvvisamente come un'associazione a delinquere. Calciatori e staff tecnico che pagano duramente colpe non loro. Anche la lingua di un uomo mite come Carlo Ancelotti tornerà più volte, nel corso di quella stagione, a battere dove il dente duole. Prima dell'inutile ultima partita di girone contro il Lille, affrontata con le riserve, il tecnico aveva insistito sulla necessità di dare uno schiaffo morale all'UEFA (necessità evidentemente non del tutto recepita, visto che Milan-Lille era finita con un poco onorevole 0-2). C'è da supporre che si sia trattato di un tic nervoso che poi è diventato punto di forza, molla sempre più carica per un gruppo che attraversa l'Europa piratescamente, a fari spenti e vessilli ammainati, turno dopo turno.
Il Diavolo, probabilmente
10 punti in sei partite contro AEK Atene, Lille e Anderlecht non sono un bottino grasso. Più quotati sono i campioni in carica del Barcellona, il Real Madrid di Capello, il Bayern Monaco, le inglesi terribili che stanno dominando la seconda parte del decennio, persino l'Inter e la Roma che in campionato sono già spariti all'orizzonte. Eppure, di passaggio dall'Olimpico di Atene per perdere abbastanza malamente contro il modestissimo AEK, un compassato Ancelotti si è lasciato sfuggire che «siamo qui per prendere le misure del campo per maggio». Il 10 dicembre, in campionato, il Milan rimedia un triste 0-0 interno col Torino potendo disporre di soli 14 giocatori di prima squadra: la classifica dice quindicesimo posto, a -26 dall'Inter capolista, a +3 sulla zona retrocessione.
Nella pausa natalizia c'è uno strano ritiro a Malta che indispone i giocatori, abituati a svernare al caldo di Dubai, altre temperature, altri comfort, altre strutture alberghiere. Serpeggia il dubbio: ce l'hanno con noi? È una punizione? Dopo quattro mesi vissuti nella bambagia, con l'alibi della penalizzazione ad anestetizzare gambe e testa, è uno scossone che serve. «È a Malta che siamo diventati una squadra», ha ricordato recentemente Gattuso per il decennale della semifinale con il Man Utd, «quando Ancelotti dice che facevamo le 5 di mattina stando insieme a cazzeggiare non dice bugie».
Lo spogliatoio ritrova armonia, serenità, convinzione. Sono i giorni del famoso scherzo di Kaladze a Gattuso, «mancano tre giorni al compleanno di Gattuso…», che Ancelotti racconta lungamente nella sua autobiografia Preferisco la coppa.
Ma resta forte la sensazione di un Milan che dagli ottavi in avanti può contare solo sul proprio nome, come gli aristocratici spiantati. Eppure c'è un sorteggio amico che gli abbina il Celtic Glasgow, propiziando una partita di andata di solenne bruttezza, in cui il miglior rossonero in campo è l'amletico Gourcuff, trequartista pallido schiacciato dalla contemporanea doppia etichetta di nuovo Zidane e nuovo Kakà. Davvero non si capisce come il Milan possa andare oltre i soliti cliché sulla solidità italiana, l'arte di arrangiarsi, la difesa dello strapuntino chiamato 0-0. A metà secondo tempo, senza grosse possibilità di evadere dal pareggio, Gilardino si produce in un tuffo dagli effetti tuttora comici, illuminato di una luce grottesca, come se tutto il male che si diceva in quei mesi del calcio italiano si fosse sublimato in quei pochi sciagurati secondi.
"Football Cheat". I telecronisti ridono di Gilardino come si ride del patetico e dell'inspiegabile.
Al ritorno, in una notte gelida per essere inizio marzo, il Milan la sfanga ai supplementari con una prodezza in solitaria di Kakà; tolto lui, il migliore in campo è Daniele Bonera. Ma è forse un'astuzia omerica quella dei Maldini, dei Nesta, degli Inzaghi, dei Seedorf, capitani rotti a mille battaglie, che per tornare vincitori a Itaca/Atene utilizzano lo stratagemma di Ulisse che si finge lercioso mendicante per ingannare i Proci? Il Liverpool ha clamorosamente fatto fuori agli ottavi i campioni uscenti del Barcellona, sbancando il Camp Nou con un gol di Craig Bellamy: c'è forse un imperscrutabile disegno superiore? E chi veste i panni di Euriclea, la vecchia nutrice che per prima scopre la vera identità dell'eroe riconoscendone sulla gamba la cicatrice provocata da un cinghiale in una battuta di caccia? Forse il vecchio Oliver Kahn?
Kahn che abbaia
Sorteggiato per l'antidoping dopo l'ottavo di finale vinto contro il Real Madrid, Kahn presenta al medico austriaco Franz Krosslhuber una provetta di urine; ma quando questi gli chiede di ripetere il test perché lui non era presente la prima volta, l'irascibile Oliver si fa prendere dalla collera e scaglia la provetta nella toilette, provocando alcuni schizzi che, a quel che si dice, centrano l'ineffabile dottor Krosslhuber.
L'UEFA lo punisce con un turno di squalifica e all'andata dei quarti a San Siro in porta c'è la riserva Rensing, che aiuta il Bayern a strappare un insperato 2-2 a tempo scaduto con doppietta di Van Buyten (!). Il vecchio Milan è di nuovo sul cornicione. Kahn torna regolarmente al suo posto una settimana dopo all'Allianz Arena apposta per vivere una notte amarissima, impallinato due volte in mezz'ora da Seedorf e Inzaghi, per un altro Germania-Italia 0-2 dopo quello di Grosso e Del Piero, visto dalla panchina meno di un anno prima. Forse il gol di “Superpippo" è il segnale convenuto, come Ulisse che tende l'arco e scocca la freccia fatale seminando il panico tra gli usurpatori del trono: la sua proverbiale partenza in fuorigioco sull'assist di tacco di Seedorf, non rilevata dall'assistente temporaneamente accecato dalla dea Atena, è il segnale che la maschera può essere gettata. («Ha mirato in basso a destra e la palla è finita in alto a sinistra», sempre Ancelotti). Siamo noi, siamo tornati, non avremo pietà verso chi ci ha deriso e abbandonato, noi soli contro l'armata inglese: il Manchester United, il Chelsea, il Liverpool.
Bayern Monaco-Milan 0-2 dell'aprile 2007 è una lezione di pragmatismo italiano ai tedeschi perlomeno sullo stesso livello della semifinale mondiale dell'anno prima.
I “Red Devils" hanno appena vilipeso il calcio d'Italia, un'altra volta, umiliando ai quarti la Roma, 7-1 e 4-0 a fine primo tempo, e ha giovani come Rooney e Cristiano Ronaldo che non si vede come possano essere arginati da Kaladze e Jankulovski. Il Chelsea di Mourinho è da pochi mesi la nuova casa di Andriy Shevchenko, il figliolo non ancora prodigo che ha abbandonato un popolo innamorato perché «mia moglie vuole vivere a Londra e i miei figli devono imparare l’inglese». Il Liverpool, semplicemente, è la squadra a causa della quale si è spezzato un filo dentro ognuno dei nostri eroi, quel filo che ora penzola diviso a metà e va riannodato; è il vile pretesto che ha fatto litigare Maldini e qualche capataz della curva in una brutta scena da aeroporto, è la parola che in ogni tifoso fa spendere "calendari a chiederci se", per usare le parole di un musicista ben poco milanista.
Nel 2007 gli abbinamenti delle semifinali di Champions vengono sorteggiati insieme ai quarti e non dopo come oggi. Dopo il sacco di Monaco il Milan dunque già sa che dovrà affrontare il Manchester UTD, nello stadio dove quattro anni prima è stata celebrata forse la non più bella, ma certamente la più gustosa delle sette Coppe rossonere. Il 25 aprile 2007 il Milan si arrende 3-2 in una partita entusiasmante che si merita i complimenti dell'UEFA, piena di montagne russe e contraddizioni con lo schizofrenico Dida colpevole in due gol su tre ma miracoloso su Fletcher e Cristiano Ronaldo. Il Destino ha messo una mano sulla testa di Kakà e gli sta facendo fare cose incredibili, come il numero di autoscontro a cui costringe Heinze ed Evra.
In questo western crepuscolare alla Peckinpah in cui non c'è quasi mai spazio per i buoni sentimenti, il secondo gol di Kakà a Old Trafford è uno squarcio di purezza fanciullesca.
Vendetta
Per essere tale, una grande squadra deve arrivare pronta e in armonia con sé stessa, al 100% della sua condizione fisica e mentale, a maggio. Né prima, né dopo. E ripetersi a mente per un anno intero che non si può fallire l'appuntamento col mese di maggio complica maledettamente le cose. A maggio la storia del Milan 2006-07 diventa più grande del calcio, una maionese impazzita di ricordi, paure, sogni e fantasmi. La sera prima del ritorno con il Man Utd si guarda tutti insieme Liverpool-Chelsea a Milanello, con un tifo da pub per i “reds", vittoriosi ai rigori (ma senza più Dudek, sostituito da Reina). Ecco l'ultima ferita da chiudere, la più difficile, la più profonda, la finale più bella, l'incubo peggiore. Abissi e paradossi del pallone. Di quella partita il canale tematico ufficiale ha fatto sparire qualsiasi reperto filmato. La negazione (impossibile) come seconda fase dell'elaborazione del lutto. All'indomani della semifinale di ritorno, Candido Cannavò rivela una conversazione avuta due anni prima con Maldini: «Per superare il trauma Liverpool dovremmo affrontare nuovamente il Liverpool: subito, domani stesso».
«Abbiamo pensato che avevamo già vinto», diranno poi quasi tutti i giocatori e anche Ancelotti. Ma quanto c'è da credergli? La cronaca racconta di una finale giocata in modo incommensurabilmente peggiore di due anni prima, senza quasi creare occasioni, finché al 45' Kakà si fa scioccamente stendere al limite dell'area da Xabi Alonso, l'uomo che a Istanbul aveva accompagnato il Milan nell'Incubo firmando personalmente il 3-3. È Ulisse, Inzaghi, o lo è piuttosto tutto il Milan, avvelenato e vendicativo come un sol uomo? La punizione di Pirlo che incoccia il corpo elettrificato del numero 9 è la trasposizione calcistica del cavallo di Troia, già meticolosamente provato e riuscito in un derby del 2003 e in un Milan-Empoli pomeridiano del 2006 probabilmente snobbato dai Proci, che non avevano Sky.
Inzaghi che alla vigilia non si reggeva in piedi, Inzaghi che non può giocare ma non può neanche "non giocare", Inzaghi che lo conoscono tutti eppure a 34 anni trova ancora il modo di appostarsi sulla linea del fuorigioco, dettare il passaggio, scartare il portiere e segnare con un tiro “lemme lemme”. C'è persino il sotto-finale alla Profondo Rosso, che sembra finito ma non è finito, quando il Liverpool accorcia le distanze con Kuyt e tutti si guardano e pensano «Oh no, non può succedere ancora». Ma i poemi greci sono opere virtuose dai luminosi insegnamenti morali e in più capolavori di sceneggiatura, fuggono il banale. Per questa e tante altre cose il Milan 2006-07 arriva in fondo al suo lungo percorso di riabilitazione umana e sportiva e rivede le stelle dell'Europa, riconquista la dignità e il prestigio smarriti, ritrova il rispetto e la deferenza degli altri avversari mai giganti quanto lui, si riprende il proprio nome, la propria storia, la propria anima. Il trofeo che spetta ai vincitori della UEFA Champions League dormirà per qualche notte nello stesso letto di Adriano Galliani.