Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Lorenzo Forlani
La commovente qualificazione della Siria
07 set 2017
07 set 2017
In un paese in guerra da sei anni, vivendo inimmaginabili difficoltà, la Nazionale è riuscita ad accedere agli spareggi per le qualificazioni ai Mondiali.
(di)
Lorenzo Forlani
(foto)
Dark mode
(ON)

Quando Omar Al Somah, a tempo ormai scaduto, riceve un passaggio di Mardikian al termine di una transizione offensiva, anticipa la conclusione col destro, supera il portiere iraniano Beiranvand e fissa il risultato di Iran-Siria sul 2-2, l'intera panchina della Nazionale siriana corre a sommergerlo all'altezza del limite dell'area.

 

 


 

 

A pochi metri dal gruppo di giocatori in festa, c'è un uomo sulla sessantina che volge loro le spalle e alza i pugni. Non si capisce se guardi il cielo, il pubblico, o se si guardi dentro per controllare la fuoriuscita di emozioni. Non si capisce se sia più felice, più scosso, più disperato, più esausto, o tutte le cose insieme. Immortalata in un fermo immagine, se non conoscessimo il contesto, la sua espressione sembrerebbe comunicare risentimento, rabbia mista a disperazione, o forse un moto di liberazione malcelato. Magari una felicità che esce fuori con la zavorra di un anno che definire stressante non renderebbe l'idea.

 

Quell'uomo si chiama Ayman Hakim ed è l'allenatore della Nazionale di un Paese – la Siria – che dopo 6 anni di guerra è persino difficile considerare come tale. Più di mezzo milione di morti, quasi metà della popolazione sfollata, infrastrutture distrutte in gran parte dei centri urbani più rilevanti, metropoli di milioni di persone ridotte in macerie, polarizzazione estrema, dentro e fuori dal Paese. Può sembrare retorico, ma il viso di Hakim è il viso della Siria: riflesso di sentimenti opposti ma animato dall’incrollabile speranza di rinascere come Paese, che oggi si sovrappone all'orgoglio per un'impresa sportiva.

 



 

Pareggiando lo scorso 5 settembre in casa dell'Iran già qualificato, la Siria si è garantita l'accesso ai playoff, nei quali incontrerà l'Australia. Uno sviluppo impensabile fino allo scorso 11 ottobre, quando la squadra uscì sconfitta per 1-0 in Qatar, dopo aver giocato una brutta partita, e ancorandosi mestamente alla quinta posizione nel girone. Ancor meno lo scorso 29 marzo, quando la sconfitta in Corea del Sud per 1-0 relegò la Nazionale siriana a quattro punti dal terzo posto, con tre partite da giocare.

 


Un'impresa sportiva è tale non tanto in conseguenza del risultato ottenuto, quanto per le circostanze di partenza che fanno apparire qualunque risultato fuori portata. Le condizioni di partenza della nazionale siriana non facevano sperare nulla di buono: un anno fa, era già tanto mettere in piedi una rosa di 25 giocatori, tra defezioni, sparizioni, morti e boicottaggi. Oppure trovare un paese disposto a ospitare le gare casalinghe della Siria, vista l'impossibilità di giocare a Damasco, Homs e meno che mai ad Aleppo, distrutta durante l'offensiva di fine 2016. In un

pubblicato a maggio per Espn, Steve Fainaru definiva la Nazionale siriana “un bambino abbandonato, che si sposta di orfanotrofio in orfanotrofio”. Ha giocato le gare casalinghe degli ultimi anni prima in Iran – a Teheran e a Mashhad – poi in Oman e da quest'anno in Malesia, a più di 5000 km da casa, dopo i rifiuti di Macao e ancor prima degli Emirati Arabi Uniti. La squadra per un periodo si è allenata anche in Kazakistan.

 

La Siria di Hakim, di fronte ad avversari considerati da chiunque superiori (Iran, Corea del Sud, Qatar, forse anche la Cina), senza poter mai giocare di fronte al proprio pubblico, senza un reale piano tattico che non fosse quello di difendere con la densità la zona centrale del campo e ripartire, è arrivata sin qui “servendosi esclusivamente della forza di volontà”, come mi spiega un tifoso proveniente da Hama in un bar di Beirut. Fondamentali, a posteriori, si sono rivelati la vittoria per 1-0 al 91' contro l'Uzbekistan, lo scorso marzo, il pareggio “casalingo” con la Corea del Sud a settembre 2016 e la vittoria in Cina di un mese dopo. In assenza prolungata dei giocatori più rappresentativi, la ribalta quest'anno è toccata ai giovani Omar Khribin, attaccante classe '94, e Mahmoud al Mawwas, classe '93, autori rispettivamente di due e tre gol sui nove segnati dalla Siria nel girone.

 



 

In questi anni tra i siriani si è acceso un dibattito su cosa rappresentasse la Nazionale in tempo di guerra.

, prevedibilmente, ha risentito delle divisioni interne al Paese, sia tra i tifosi che tra i giocatori. Il pubblico si è diviso secondo diverse direttrici: c'è chi ha boicottato la Nazionale perché la vede come uno strumento di di autolegittimazione del regime, responsabile di centinaia di migliaia di morti; chi l'ha continuata a sostenere proprio in virtù dell'idea di una autolegittimazione, aderente alla narrazione di una Nazionale che rappresenta un Paese vittima di unìaggressione militare esterna; e poi c'è una maggioranza di persone che hanno continuato a supportare i ragazzi di Hakim o perché disinteressati alla politica (e amanti del calcio, ovviamente, che in Siria è di gran lunga lo sport più popolare), o perché allergici all'idea che questa possa essere sovrapposta al calcio, e che anzi il calcio sia una dimensione in cui è possibile sospendere la realtà, tenerla separata dal campo di gioco. O forse di modificarla temporaneamente, di ancorarla al ricordo di una Siria in pace. Mohammed al Homsi, un attivista del quartiere al Waer di Homs, a lungo sotto l'assedio del regime, ha recentemente affermato di continuare a seguire la Nazionale «perché lo sport è l'unica cosa che ci connette con il passato. Non dirò mai che la Nazionale siriana rappresenta l'intero spettro del Paese, ma certamente rappresenta il passato, un bel passato. Il calcio dovrebbe rimanere separato dal conflitto».

 


È invece curioso che i due giocatori più forti della Siria siano anche i due che si sono esposti maggiormente, boicottando per lungo tempo la Selezione e tornandoci entrambi quest'anno, non senza polemiche. Il primo è stato Firas al Khatib, forse il più celebre calciatore della storia siriana, che nel 2012 aveva raggiunto un accordo con il Nottingham Forest, saltato poi per questioni legate al permesso di lavoro nel Regno Unito. Proprio nel 2012 al Khatib, nativo di Homs (dove c'è una via a lui intitolata e di cui ha finanziato la costruzione), che in quei giorni è assediata dall'aviazione del regime, annuncia il suo addio alla Nazionale durante una manifestazione in Kuwait, dove gioca da qualche anno. Ad un certo punto prende in mano il microfono e di fronte alla folla scandisce: «Sono qui e voglio dire anche di fronte ai media che non giocherò per la Nazionale siriana finché continueranno a cadere le bombe». Il pubblico, composto da molti siriani che hanno aderito ai moti di protesta e sono scappati dal Paese con l'inizio della guerra, lo acclama urlando il suo nome tradizionale, Abu Hamza (padre di Hamza, cioè il suo primogenito). Il pubblico “lealista”, invece, dall'altro “polo”, lo accusa di essere solidale o addirittura complice della galassia jihadista, e di essere un traditore della Patria.

 



 

Lo stesso genere di pubblico che c'era in Kuwait, quando al Khatib decide di tornare in Nazionale a metà di quest'anno, non la prende bene. Sul suo profilo Facebook si leggono frasi di questo tipo, cartina di tornasole di un’acclarata polarizzazione: «Come ci si sente esattamente quando si tradisce il proprio Paese e la propria gente? Come ci si sente quando si tradisce Homs, la cui popolazione vive in condizioni orribili, mentre tu decidi di stare al fianco del regime? Il minimo che si può dire di te è che sei un traditore». Oppure: «Dio ti maledica, non vali una scarpa vecchia. Non ho idea del perché la maggior parte di coloro che si comportano da celebrità in Siria siano le persone più false della Terra. La pagherai in questa vita, prima ancora che nell'aldilà. Sputo sul tuo onore, cane».

 

Poco dopo che inizia a circolare la voce del suo ritorno, il suo ex compagno di squadra e amico d'infanzia, Nihad Saadeddine, dice che «Se Firas tornerà in Nazionale, verrà gettato nel secchio della spazzatura della Storia, come tutti quelli che sostengono quel criminale di Assad». Anche Saadeddine, 35 anni e un passato da centrocampista, è nato a Homs. Intervistato, ha spiegato di aver smesso di giocare perché ritrovatosi nel bel mezzo dell'assedio nella sua città, durante il quale prima un cecchino gli avrebbe frantumato un ginocchio, poi un colpo di mortaio esploso vicino a lui gli avrebbe fratturato cinque vertebre, come poi scoprirà in un ospedale austriaco, dove nel frattempo si è rifugiato.

 

Al Khatib si mostra comprensivo, per certi versi, o forse rassegnato all'inevitabilità della polarizzazione: «qualunque cosa accada, metà della popolazione mi amerà, e l'altra metà desidererà uccidermi». Poi aggiunge: «la mia è una decisione sportiva, non ha nulla a che vedere con la politica. Ora, in Siria, ci sono solo assassini, sono tutti assassini, non ce ne sono solo uno o due. Li odio tutti. Ma un giorno vorrei tornare nel mio paese senza che nessuno lo associ all'idea che sostenga o non sostenga il governo. Vorrei tornare in Siria come cittadino siriano. Vorrei vedere i miei genitori (il padre è malato da tempo,

) e i miei fratelli».

 

Omar Al Somah, l'autore del gol decisivo a Teheran (e propiziatore del primo gol, frutto di una respinta su un suo calcio di punizione), ha fatto i conti un destino simile, forse addirittura caricato del peso – agli occhi dei lealisti – dovuto alla sua militanza in una squadra saudita, l'Al Ahli. Anche al Somah – che insieme ad Al Khatib, Al Mawwas, Omar Khribin è anche uno dei giocatori più religiosi della Nazionale – è stato accusato di essere sodale con le fazioni ribelli più estremiste.

 

L'addio – che cinque anni dopo si rivelerà un arrivederci – alla Nazionale di Al Somah si consuma il 20 dicembre 2012, dopo la finale della Coppa dell'Asia occidentale (una sorta di “Coppa del Medioriente”) vinta 1-0 dalla Siria contro l'Iraq a Kuwait city. Durante i festeggiamenti, l’attaccante Omar Al-Somah va sotto la curva e sventola la bandiera della rivoluzione. La tv di Stato siriana oscura per qualche minuto le immagini, la Nazionale torna in Siria dopo la partita ma Al Somah rimane in Kuwait. La sua assenza in questi anni si fa sentire più delle altre – c'è anche quella del difensore Firas al Ali, che oggi vive in un campo profughi nel sud della Turchia, dopo aver perso un cugino di 13 anni – perché Al Somah, classe 1989, è un attaccante di buon livello, che nei campionati dei paesi del Golfo appare ampiamente fuori categoria.

 

Il suo gol a Teheran – dopo essere tornato a giocare per la Nazionale una settimana prima, alla vigilia del successo per 3-1 contro il Qatar – è una diapositiva di quello che per lui è probabilmente un momento di ipertrofia emozionale: Al Somah è infatti nato a Deir Ezzor, l'ultima grande città siriana sotto il controllo dell'Isis, in cui non torna ormai da sei anni. Due ore prima della partita allo stadio Azadi di Teheran, arriva la notizia che l'Esercito siriano ha rotto le difese dello Stato islamico ed è entrato nella parte occidentale della città. A supporto delle truppe siriane, come noto, c'è anche l'Iran – alleato di Damasco –, nella cui capitale Al Somah segna forse il gol più importante della sua vita.

 



 

Se non fosse stato per il quasi contemporaneo gol al 63' di Al Muwallad, che ha dato all'Arabia Saudita la vittoria contro il Giappone ed il pass diretto per Russia 2018, la Siria avrebbe giocato i playoff proprio contro i sauditi. E probabilmente Al Somah avrebbe dovuto fare i conti anche con il risentimento dei suoi tifosi nell'al Ahli, il cui attaccamento nei suoi confronti in questi anni ha contribuito a farlo rimanere nel Golfo e a non ritornare sulla sua decisione prima di un mese fa.

 

In Siria, ma anche a Beirut e in altre città della regione in cui tanti siriani sono dovuti emigrare durante la guerra, i festeggiamenti della sera del 5 settembre hanno assomigliato molto a quelli che si riservano ai successi, alle vittorie, alle qualificazioni, alla conquista di qualcosa. E invece la Siria potrebbe veder vanificato il suo sforzo, e ridimensionata l'epica, se dovesse perdere contro l'Australia, che sulla carta è peraltro superiore. Ciò è anche utile a capire il valore soprattutto simbolico del pareggio di Teheran (e dell'intero percorso di qualificazione), più simile ad un uomo senza gambe che riesce a completare una maratona che non ad una vittoria della stessa. E pensare che vincendo in Iran, visto il contemporaneo pareggio tra Uzbekistan e Corea del Sud a Tashkent, la Siria sarebbe potuta accedere direttamente al Mondiale in Russia. E chissà la faccia di mister Hakim, in quel caso.

 

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura