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Calcio Antonio Moschella 29 gennaio 2016 7'

La classe di Luisito

Una chiacchierata con Luisito Suarez, unico Pallone d’oro spagnolo della storia.

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Luis Suarez ha ottant’anni, un’età importante per chi ha fatto la storia del calcio italiano e spagnolo nel momento in cui il primo faceva moda e il secondo arrancava. Ora che gli equilibri si sono rovesciati ascoltare da vicino le sue sensazioni, unico Pallone d’Oro spagnolo di sempre, aiuta a capire meglio molte dinamiche di ieri e di oggi. Perché in fin dei conti il gioco è sempre lo stesso, anche se gli interpreti cambiano. E se José Mourinho gli ricorda molto Helenio Herrera, Suarez si rivede tantissimo in Xavi, nonostante sostenga di aver avuto maggior confidenza con il gol.

 

Il nostro lungo incontro in un bar in zona San Siro si chiude parlando dei continui spostamenti di Luisito tra Barcellona, la sua seconda casa, e Madrid, dove vive suo figlio. Raramente Suarez torna in Galizia, sua terra d’origine, perché ormai Milano è casa sua e perché alla pioggia gallega forse preferisce la nebbia in Val Padana.

 

Che effetto fa non essere più l’unico Luis Suárez del calcio?

(Ride). Beh, sicuramente è curioso. Mi fa piacere che un grande attaccante come lui tenga alto il mio stesso nome. Inoltre, seppur uruguayano, Luis è ‘gallego’ (di origini spagnole), proprio come me. In ogni caso non c’è solo continuità di nome, ma anche di squadra, il Barça.

 

Sono passati oltre cinquant’anni dal tuo anno magico, con la vittoria all’Europeo con la Spagna e il Pallone d’Oro. Nonostante la Nazionale si sia ripetuta ben due volte, nessun giocatore spagnolo è riuscito a conquistare il Pallone d’oro. Cosa manca ai giocatori della Roja?

Se da un lato può essere un orgoglio, dall’altro avrei preferito che un altro spagnolo vincesse il Pallone d’oro. Ci sono andati molto vicini sia Raúl all’inizio degli anni 2000, che Xavi e Iniesta nel 2010. Ma la concorrenza è stata molto più spietata: ai miei tempi gli extracomunitari non erano in lizza per questo premio.

 

Eppure l’Italia vanta quattro palloni d’Oro mentre la Spagna solo uno, nonostante il calcio iberico sia considerato più attraente di quello italiano.

C’è stata un’epoca in cui l’Italia produceva talenti indipendentemente dal tipo di calcio che si giocava. E la concorrenza era minore. Dopo anni di ombra, la Spagna ha preso con forza il ruolo da protagonista, non a livello individuale, ma come squadra. Ed è questo l’importante, restare nella cosiddetta “elitè del calcio” anziché ossessionarsi con titoli personali.

 

Possiamo dire, però, che nel 2010 uno tra Xavi e Iniesta avrebbe meritato il Pallone d’Oro?

Io credo che lo avrebbe dovuto vincere Iniesta, non solo per il gol decisivo in finale ma anche per quanto dimostrato durante tutto l’anno. Quella stagione Messi aveva giocato bene in campionato ma non al Mondiale, mentre Xavi e Iniesta si erano distinti in tutti i tornei. E se non lo hanno vinto quell’anno sarà difficile che possano farlo in futuro, anche perché non si riproporrà una generazione spagnola di calciatori così forti a breve termine. Nel calcio si può lavorare sullo sviluppo del talento, ma i fenomeni nascono già così. Il più grande esempio è il Real Madrid della ‘Quinta del Buitre’, un quintetto che non si è mai più ripetuto a livello generazionale.

 

 

Un rischio che corre anche il Barcellona.

Certo. I giovani canterani di adesso non sono dello stesso livello di quelli che compongono oggi la prima squadra. Giocano bene, ma sfido chiunque a ritrovare un centrocampo come quello composto da Busquets, Xavi e Iniesta.

 

In realtà il Barça sta pian piano cambiando pelle.

Deve cambiare per forza! Ha dovuto rinunciare al tiqui-taca, e, se a volte lo ripropone, è perché c’è Messi.

 

Cosa pensi di Luis Enrique?

Sta svolgendo un buon lavoro perché a Barcellona o vinci o non vali niente. E lui sta vincendo. È un lottatore, come lo era in campo, un uomo di carattere che fa ciò che serve per vincere.

 

Xavi e Iniesta sono i suoi eredi con la maglia della Spagna.

Sono due giocatori con una grande tecnica: Xavi è il classico regista, mentre Iniesta è più l’uomo dell’ultimo passaggio e credo che se volesse potrebbe segnare anche di più. Rendimento, personalità e continuità li hanno sempre distinti, e quel quadrilatero con Busquets e Messi ha fatto la storia del calcio: hanno dimostrato che con la pazienza si può far impazzire qualsiasi tipo di avversario. Da calciatore non credo che ne avrei avuta tanta!

 

Possiamo dire che Guardiola si è trovato nel luogo giusto al momento giusto?

Assolutamente. Ma ha anche avuto il coraggio di inserire due elementi sconosciuti come Busquets e Pedro. Poi, ovviamente, è stato aiutato dal grande lavoro di Rijkaard: con quel centrocampo e un attaccante che sa fare il suo dovere, il 90% del lavoro è fatto. Anche se il vero inventore di questa filosofia di gioco è stato Cruyiff.

 

Sempre parlando di eredi, Koke, Isco e Thiago possono essere quelli di Xavi e Iniesta?

In parte sì, ma sono giocatori diversi. Bisognerà vedere come gestiranno la responsabilità di dettare i tempi di gioco di una squadra di altissimo livello. Sono ottimi giocatori, ma ancora non hanno superato prove decisive per testare la loro personalità, soprattutto nei momenti di difficoltà.

 

 

Cosa manca alla Spagna di oggi rispetto a quella campione d’Europa 2012?

Oltre all’assenza di Xavi, il vero punto di domanda riguarda gli attaccanti: nel 2012 Torres era in forma e Fabregas veniva utilizzato da ‘falso nueve’. Oggi Diego Costa non è adatto al gioco della Spagna, perché preferisce un gioco più diretto, così come Alcácer. E la squadra non è più così giovane.

 

E invece la Spagna del 2008? Proprio allora nacque la leggenda della Nazionale che abbandonava la “Furia” e sceglieva di trattare il pallone più dolcemente.

Per me quella che vinse l’Europeo del 2008 è stata la Nazionale spagnola più forte e spettacolare di sempre. Il gioco era lo stesso di oggi ma più veloce, tutti avevano più fame di vincere perché non avevano ancora alzato nessun trofeo. Ricordo che seguii quel torneo alla tv, qui a Milano, e ammetto che non pensavo potessero giocare così bene e vincere. Era una squadra rapida, tecnica, aggressiva. Aragonés fece un lavoro fantastico e Del Bosque raccolse la sua eredità alla perfezione.

 

 

Nel 2012 la Spagna distrusse l’Italia in finale. Come vedi quest’anno la squadra di Conte?

Credo che l’Italia stia attraversando un periodo di transizione strano: ultimamente mancano calciatori di altissimo livello in grado di reggere la pressione dei grandi eventi. È strano soprattutto per i difensori, settore storicamente molto florido in Italia. Resta comunque una squadra competitiva.

 

Parliamo invece della tua Inter, che tra alti e bassi, rimane nelle zone alte della classifica. Cosa pensi del lavoro fatto da Mancini?

È stato bravo a cambiare dopo le partite estive che non sono andate bene. Mancini ha puntato sulla difesa per ottenere risultati utili, cosa che finora ha funzionato. Ma personalmente non amo i suoi continui cambi di formazione perché alla fine nessuno è sicuro del posto. In generale però credo che l’Inter abbia la rosa più completa del campionato italiano.

 

Per lo Scudetto però i giochi sembrano apertissimi. È tornata la Juve e ci sono Napoli e Fiorentina.

Queste ultime due stanno facendo un bel calcio. Il Napoli lo vedo più concreto, mentre la Fiorentina a volte si specchia troppo nel suo palleggio: non si può giocare mezz’ora facendo passaggi all’indietro o nella propria metà campo, dove l’avversario ti lascia toccare il pallone quando vuoi.

 

Suarez_Inter_5

 

Forse siamo tutti troppo “ubriachi” di tiqui-taca?

Sì, perché molti credono che sia l’unico modo di giocare bene a calcio, ma non è così. Lo vediamo anche nel Barcellona: il tiqui-taca funzionale è quello che porta al gol, mentre quando non funziona è un semplice tiqui-tiqui.

 

Giustificheresti quindi un bel disimpegno difensivo alla ‘viva il parroco’?

Nel caso in cui ce ne fosse bisogno perché no? Per uscire dalla difesa palla al piede devi saperlo fare bene, altrimenti succede come nell’ultimo Udinese – Inter, quando i difensori bianconeri hanno fatto degli assist perfetti agli attaccanti, manco giocassero con loro. Ogni giocata va fatta nella zona del campo adatta, e commettere un errore grave in difesa spesso si paga.

 

L’Inter di oggi è ben diversa da quella di Mourinho. In molti accostano il tecnico portoghese a Helenio Herrera, tuo allenatore ai tempi della “Grande Inter”.

Dal punto di vista del lavoro sul campo non posso giudicare, perché non ho visto come lavora Mourinho. Tuttavia la dialettica di Mourinho ed Herrera è simile, anche se il portoghese ai tempi dell’Inter era più duro verso i colleghi che non avevano avuto, come lui, la fortuna di allenare grandi squadre. Non puoi rivolgerti così a un collega. Se lui fosse rimasto a Setubal adesso non sarebbe quello che è.

 

Ora però anche lui è rimasto senza squadra, dopo il secondo esonero in carriera dal Chelsea.

Credo che sia stato principalmente un problema emotivo: il Chelsea di inizio stagione scendeva in campo svogliato e giocava in modo anarchico, ognuno facendo quello che voleva.

 

PIcchi_e_Suarez

 

Mourinho ha in curriculum due stagioni indimenticabili all’Inter e una deludente al Real Madrid. Credi che l’ambiente abbia un ruolo importante nel suo rendimento?

Non si può allenare allo stesso modo in due ambienti diversi. Il pubblico è differente, la società altrettanto e così la stampa. A Madrid lo avevano ingaggiato per vincere la Décima e non ci è riuscito. E poi arriva Ancelotti, che calma l’ambiente, e la vince.

 

Eppure la grande impresa Mourinho l’aveva già compiuta, nel 2010, con il Triplete all’Inter…

Sì, anche se lì disponeva di uno squadrone che funzionava benissimo. Io ad esempio non pensavo che lo scambio tra Ibrahimovic ed Eto’o potesse essere vantaggioso per l’Inter, invece il camerunense funzionò perfettamente nello schema di Mourinho, lavorando tantissimo per la squadra sia in difesa sia in attacco.

 

Credi che, anche senza Mourinho, Eto’o avrebbe lavorato tanto per la squadra?

Assolutamente no. In questo l’ascendente di Mourinho si rivelò fondamentale. È un po’ quello che sta succedendo ora con Mancini, che ha convinto le sue ali a dare una mano dietro, stando in continuo movimento. In quest’ottica la personalità dell’allenatore è importante: a un giovane calciatore gli si può chiedere di tutto, anche di lanciarsi di testa contro un muro, mentre è più difficile ottenere il massimo da un veterano come Eto’o che, abituato a fare il centravanti, finisce col fare l’ala e quasi il terzino per il bene della squadra.

 

Indimenticabile la sua performance a Barcellona, in quella storica semifinale al Camp Nou nel maggio 2010. Quella sera per chi tifava?

Per il Barcellona. Nonostante viva a Milano e abbia giocato più tempo nell’Inter, il mio cuore è sempre blaugrana.

 

 

Tags : BarcellonainterintervisteLionel Messiluis suarez

Antonio Moschella, napoletano classe 1983. Globetrotter, con il cuore a Buenos Aires ma con la testa a Barcellona. La valigia sempre pronta e il taccuino pure.

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