La carriera lunga e tormentata di Massimo Ambrosini
Un’intervista all’ultima bandiera di un Milan vincente.
Il fascino di Ambrosini
In quella stagione ’98/’99 uno dei nodi difficili da sciogliere per Zaccheroni, che indirettamente finisce per bloccare Ambrosini, è Boban. «Nel 3-4-3 di Zaccheroni lui poteva giocare solo nei due a centrocampo. All’inizio era partito lui al fianco di Albertini, poi non aveva funzionato e avevo iniziato a giocare io». Ambrosini ha le spalle più larghe dopo Vicenza e non sente la pressione di giocare al posto di un senatore come Boban, scontento per forza di cose di restare fuori. «Premetto che Zvone non ha mai fatto nulla di scorretto o che potesse farmi sentire sotto pressione, assolutamente. Per lui non era stata una prima metà stagione facile. C’era tensione col Mister. Però se hai la parte sana dello spogliatoio che va da una parte, ogni potenziale problema viene disinnescato sul nascere».
A 21 anni, alla prima stagione da titolare del Milan, Ambrosini vince il suo primo scudetto. «La tensione me la sono sempre messa da solo», ricorda. «Certo, avevo maggiori sicurezze, voglio dire però che in tutta la carriera non ho mai raggiunto una vera serenità. Non c’è mai stato un momento in cui ho pensato di poter inserire il pilota automatico, capisci?». Per essere certo di far passare il concetto, mi fa un esempio. «Sapevo che il lancio non era uno dei miei fondamentali migliori. Nell’anno dello scudetto di Zaccheroni, entravo in campo promettendomi di provare almeno un paio di lanci nell’arco della partita».
L’ambizione di crescere sul piano della personalità, Ambrosini voleva sempre di più. «Per me quella è sempre stata la benzina. Poi ci sono anche i Pirlo che la vivono con una serenità disarmante. Se sei forte come lui te lo puoi permettere. Io no».
Avere consapevolezza dei propri limiti, soprattutto al confronto con i fenomeni come Pirlo; l’attenzione mai sul risultato acquisito e sempre sul difetto ancora da colmare: in questo sta il fascino di Ambrosini. Appassionarsi a questo tipo di giocatori è un fenomeno che potremmo battezzare Sindrome delle Nozze di Cana. Al Louvre, sulla parete opposta alla Gioconda è appeso il mastodontico Le Nozze di Cana. Chi si sofferma sul ritratto vinciano trascurando l’enorme opera del Veronese ha il comportamento sociale atteso e più affollato; chi invece dà le spalle alla Monna Lisa per ammirare i mille dettagli della scena in cui Gesù tramuta l’acqua in vino, fa una scelta meno comprensibile, poco convenzionale. Osservare quel che accade nello spazio tra le due opere aiuta a spiegare scelte come quella tra i Pirlo e gli Ambrosini, a capire chi si appassiona ai giocatori che devono faticare contro i propri limiti anziché ai fenomeni naturali a cui riesce l’impossibile.
Nei primi sette minuti, alcuni gol di Ambrosini tra il 98/99 e il 01/02, stagioni in cui, assieme a Gattuso e Shevchenko, era un giovane talmente decisivo e rappresentativo da essere già riconosciuto come senatore. A 4:10 c’è anche un suo splendido gol in un Milan – Fiorentina di Coppa Italia del gennaio 2001: controllo di petto e rovesciata. Un mese dopo si sarebbe rotto il crociato.
Spesso l’impronta di una carriera la decidono le sue stagioni centrali: quel momento nella vita di un calciatore che deciderà quale verbo associare per sempre al suo ricordo: rimanere, diventare, perdersi o affermarsi. Per Ambrosini la parte centrale della carriera coincide con il ciclo al Milan di Ancelotti e con una spropositata serie di infortuni. L’imprinting lo danno i primi 50 giorni di reggenza ancelottiana. L’ex tecnico della Juventus entra nello spogliatoio di Milanello il 6 novembre del 2001 e tra i giocatori che si stanno cambiano per il suo primo allenamento non c’è Ambrosini. Una serie di complicazioni dopo un infortunio al crociato lo stanno facendo guarire in undici mesi invece che in sei.
Torna a disposizione il 23 dicembre, per Milan-Verona, l’ultima partita di un anno solare passato quasi interamente da spettatore. Che per quella squadra fosse un giocatore fondamentale lo dimostra l’inizio del suo riscaldamento: alla prima corsetta, la temperatura dentro lo stadio sale. Poi lo speaker annuncia il suo ingresso in campo e S.Siro lo accoglie con un lungo applauso. Dopo 13 minuti, quando segna l’1 a 0, corre a sfogare la frustrazione sui cartelloni pubblicitari. «Voglio pensare fosse una ricompensa. Ci sono situazioni che dipendono dal caso e altre dalla determinazione. In particolare, contro il Verona ero incazzato come una bestia dopo tutti quei mesi fuori. La determinazione era anche più alta del solito».
Nonostante tutto sono tanti i momenti decisivi firmati anche Ambrosini, anche in quegli anni di poca titolarità.Come il gol di Inzaghi-Tomasson, nato da una sua sponda. Un tipico caso di “Ah ma dai, l’ha data Ambrosini quella palla?”
«Non tralasciando le difficoltà e le ansie»
Impossibile parlare di quegli anni senza toccare il tema infortuni. «Se te li racconto tutti stiamo qui delle ore». Più che un elenco esaustivo, però, mi interessa capire come fosse vivere quelle stagioni trafitte da fratture, stiramenti, riabilitazioni, passate a guardare gli altri giocare, a ricominciare, a spingere per guadagnare spazio e vedersi di nuovo fermati da un altro problema. «C’erano momenti in cui avevo bisogno di scappare, di stare lontano da Milanello. Mi è anche capitato di litigare con la società che non sempre voleva darmi il permesso. Tornavo a Pesaro, oppure andavo al caldo, l’importante era stare lontano. I compagni mi aiutavano molto, mi dicevano di star tranquillo, mi spingevano a superare le insicurezze che ogni infortunio ti butta addosso. Però soffrivo meno a non vederli allenarsi e preparare la partita successiva».
Ci perdiamo per qualche minuto dentro un discorso delicato. «Delicato perché facendolo si ha sempre il timore di sminuire il lavoro di medici e fisioterapisti. Non è così». Poi inizia a spiegarmi. «Io penso che la gestione di un infortunio sia una questione fisica e una questione mentale. Non esiste l’una senza l’altra. Per forza di cose quello che ti succede sul lavoro condiziona in parte la tua vita. A sua volta, quel che accade nel tuo privato rende più o meno facile risolvere quel che ti è successo sul lavoro». L’argomento è interessante, ma non voglio diventare invadente spingendolo a continuarlo. Provo a ravvivare il tema chiedendogli se la squadra avesse a disposizione uno psicologo: «No, ho fatto un mio percorso senza che il Milan c’entrasse nulla». Fa una pausa. «Diciamo che ho sentito la necessità di fare due chiacchiere per capire come gestire tutto, questo sì».
Poi dal 2006, come per magia, mai più un infortunio complicato. «Probabilmente ha coinciso con una serie di cose che sono riuscito a sistemare nella mia vita. Ovviamente, non solo quello. Infortunio dopo infortunio conosci sempre meglio il tuo corpo e cominci ad approcciare il problema fisico sempre più consapevolmente. Ci ho messo del tempo a trovare la chiave giusta».
La sua idea è che la cura vada tarata sul singolo ragazzo, senza seguire ad occhi chiusi protocolli standard. «Tra le molte altre cose, in carriera ho rotto il crociato in entrambe le ginocchia e un perone. I miei muscoli erano perennemente in equilibrio precario e dovevo trovare il modo per mantenerli sul filo. Come ci riesci se non lavori anche sulla mente?». Facile dargli ragione, altrettanto facile immaginare che nelle società non ci sia tempo di approfondire talmente tanto la psicologia di ogni infortunato. «Hai ragione. Anche se ammetto che non sono nemmeno così frequenti i casi disperati come il mio».
Intanto, sullo sfondo, c’è una squadra che – a volte con Ambrosini, e molte altre senza – conquista vittorie storiche e subisce sconfitte tremende. La Champions League del 2003 e l’unico Scudetto di Ancelotti al Milan, a fianco dei drammi sportivi di La Coruña e Istanbul.
Ancora una squadra olandese, ancora decisivo, ancora un attimo prima che tutto fosse perduto. La sintesi di due suoi fondamentali: tempo d’inserimento e colpo di testa.
«Mi ricordo il giorno dopo Istanbul, a Milanello, a preparare l’ultima di campionato. Io che non avevo giocato avevo accumulato rabbia e l’avrei voluta rigiocare subito. Chi invece era sceso in campo mi diceva di no, che era giusto staccare la spina per un po’». Come ci si ritrova dopo un trauma come quello? Cosa ci si dice? «Non ricordo nessun discorso particolare. Di sicuro Istanbul non era diventato un tabù dentro al gruppo. Magari in cuor suo qualcuno aveva fatto altri pensieri, ma nello spogliatoio non è uscito nulla. Eravamo lì, come c’eravamo sempre stati».
Il regno di Ancelotti al Milan girava attorno ad un trio di centrocampo: Gattuso-Pirlo-Seedorf, praticamente una filastrocca. E Ambrosini? «Io arrivavo dopo. Era così». Da come Ambrosini parla del suo essere il sesto uomo di quel Milan trapela una profonda stima per i tre titolari, ma anche la grande fatica a star fuori: «Ho sofferto. Ho sofferto molto. Ci sono stati dei momenti in cui mi accorgevo di non essere nemmeno in grado di sopportare del tutto quella situazione. Un paio di volte mi sono scontrato con Ancelotti».
Il gol di Lazio – Milan 0-1, decisivo per lo scudetto 2004, in un periodo in cui giocava poco. Sembra pensare a come sfogare la rabbia, poi cede all’autocontrollo. Rimane a guardare l’esultanza della curva, serio.
Era stato un giocatore importante in stagioni meno nobili e ora che la squadra aveva tutte altre prospettive, sul più bello, non era più titolare. Ricordo diverse esultanze rabbiose, per esempio in Lazio – Milan. «Uscivano dopo essermi tenuto dentro tante cose. Compresi i sospetti di non essere più all’altezza».
Magari viene anche la voglia di cambiare aria. Per dimostrare qualcosa, per cercare nuove conferme. «Il pensiero di cambiare squadra c’è stato, ma non l’ho mai esplorato concretamente. Ne avevo parlato con il mio procuratore. Io gli chiedevo delle alternative per ponderare pro e contro, e lui mi diceva che non funzionava così. Nessuno si sarebbe fatto avanti se non fossi prima uscito allo scoperto facendo intendere che ero pronto a lasciare il Milan. Ma quella è una cosa che non ho mai avuto la forza di dire». Poi i bassi se ne andavano e tornavano gli alti. «Nessuno mi ha obbligato a rimanere. Alla fine mi è sempre sembrata l’unica scelta possibile».
Prendersi la rivincita
È arrivato il momento, finalmente, di affrontare gli anni della sua ritrovata continuità di presenze e delle sue prime grandi vittorie da titolare. Come Atene. «Nel 2007 eravamo una squadra consapevole di essere forte e consapevole di non essere la più forte».
Una Champions League vinta con la superiorità dei nervi, e della ragione, più che con quella della tecnica. «Come al ritorno col Bayern. Ricordo che nei primi 20 minuti ci avevano preso a pallate. Se sei bravo nella gestione dei momenti, hai la maturità per soffrire in certe fasi e per andare a colpire in altre». La partita finisce 0-2. Nella semifinale di ritorno – in casa con lo United, probabilmente la miglior partita di tutti i sette anni di Ancelotti al Milan – indovinate chi fa l’assist per il 3-0 di Gilardino che chiude la partita.
Altro caso di “Ah ma dai, l’ha data Ambrosini quella palla?”. Visione e tempo dentro questo assist, in una semifinale di ritorno di Champions League, dimostrano che era riduttivo definirlo solo un centrocampista di corsa e contrasto.
Della finale di Atene, che poi in realtà era Amarousio, sapete già. Il successo vale ovviamente la partecipazione alla Supercoppa Europea. Nella notte in cui il Milan affronta il Siviglia portando sulle maglie il nome di Antonio Puerta, il giovane laterale sevillano tragicamente scomparso solo tre giorni prima dentro il Sánchez-Pizjuán, Ambrosini – grazie all’assenza di Maldini – alza il primo trofeo da capitano del Milan.
C’è uno striscione ingombrante tra le cose per cui Massimo viene ricordato. Lo aveva raccolto da un tifoso durante la festa di piazza per la Champions League del 2007. Sopra c’era una scritta anti-inter. Il web è ricco di foto di lui che alza il due aste contro lo scudetto nerazzurro. Non gli ho chiesto nulla a riguardo perché ha ammesso molte volte di aver sbagliato in quell’occasione, e mi sembrava inutile farmelo ripetere.
Avrei voluto accennarvi di sfuggita, però, citando anche altri casi analoghi. Eto’o che intona Madrid cabron saluda el campeon e i numerosi sfoggi anti-madridisti di Piqué. O, per restare al Milan, Gattuso che guida il coro della curva contro Leonardo la sera dello scudetto 2011, di fronte al settore ospiti dell’Olimpico. Ma il punto non è cercare alibi citando altri esempi. In questo aneddoto si può riconoscere il senso di appartenenza di Ambrosini, vissuto istintivamente, senza risparmiarsi: si sentiva un pezzo di Milan e dunque anche di quella piazza, a cui ha sempre dato quel che aveva da dare, errori compresi.
Non gli avevo chiesto niente al riguardo ma quando gli ho girato il testo per fargli verificare la correttezza delle dichiarazioni riportate, lui mi ha scritto a proposito di questo paragrafo: Prendere lo striscione era stata un’enorme caduta di stile. Mi sono immediatamente accusato di ogni responsabilità e ho affrontato le conseguenze. So bene di aver guastato parte della mia reputazione in quel momento.