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Kinshasa, Molenbeek, Batshuayi
13 giu 2016
13 giu 2016
La storia di Michy Batshuayi è la storia del nuovo Belgio.
(articolo)
12 min
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Nell’iconografia classica la Giustizia è rappresentata con una benda a coprirle gli occhi, simbolo di incorruttibile imparzialità ma anche, per certi versi, di remissione alla fatalità del destino (una visione che presuppone una fiducia in equilibri superiori, complicati da controllare). Non è così nei tarocchi marsigliesi: lì la Giustizia ti punta lo sguardo negli occhi, sembra quasi suggerirti - direi che incalza - una riflessione sincera, onesta, sui tuoi meriti e le tue colpe.

Mi sa che Michy Batshuayi, il ventiduenne attaccante belga dell’Olympique Marsiglia, per rimettere in equilibrio i piatti della sua bilancia dovrà scomodare pesi ben più gravosi delle ventuno piccole zavorre, ogni peso un gol e a ogni gol un peso, che ha poggiato sul piatto in questa stagione complessivamente fallimentare con l’OM; la Giustizia, il 12 maggio, ha deciso di regalargli un masso di quelli belli grandi, modello Sisifo™, e indicargli con la punta della spada a doppio taglio la salita di Notre Dame de la Garde. Una salita ripida e tortuosa.

https://twitter.com/HappinessFC/status/730702841862606848

Happiness.

Prendetevi qualche minuto per immaginare il vostro giorno perfetto: probabilmente non riuscirà mai a eguagliare, per compiutezza e narrativa, il giorno perfetto di Michy Batshuayi.

Alle cinque del mattino era all’ospedale di Marsiglia, dove è diventato papà per la prima volta; cinque ore più tardi, quando Wilmots ha diramato la lista dei 23 convocati per l’Europeo, ha pronunciato anche il suo nome.

https://twitter.com/mbatshuayi/status/730701997930913792

Quel tipo di tweet che ogni uomo e calciatore sogna di poter scrivere almeno una volta nella vita.

Batshuayi era già stato vicino alla partecipazione a un grande evento internazionale. Nel 2014, appena ventunenne, fresco di passaggio dallo Standard Liegi all’OM, venne tagliato fuori all’ultima scrematura e finì per non fare parte di quella nazionale eliminata ai quarti dall’Argentina, il punto al contempo più alto e più deludente - soppesato con l’hype - della storia recente del calcio belga.

Wilmots era stato molto chiaro con lui: pensava troppo a sé stesso e poco alla squadra. «E aveva ragione», riconosce oggi Michy. «Ora so quello che bisogna fare, e quello che non bisogna fare. Sono cresciuto, come uomo e come calciatore».

Attaccanti : centrocampisti = 2 : 1.

Il paese di Bengodi

Nel micromondo - o mondo parallelo, se vogliamo - «Red Devils» c’è un rapporto di legacy tra punte che non ha eguali, e forse neppure precedenti nella storia calcistica recente: voglio dire, ci sono nazionali che si sarebbero potute sfamare di cotanta abbondanza per trenta, quarant’anni, coprirci interi cicli generazionali. Lukaku, Benteke, Origi, Michy: potrebbero essere tranquillamente l’uno l’erede dell’altro, anche se alla fine sono coetanei o poco più. (In un altro multiverso stanno sollevando il Congo RD verso la dominazione dello scenario calcistico mondiale).

Il fatto che nella rosa belga per gli Europei ci siano otto attaccanti, il doppio dei centrocampisti, costituisce uno sbilanciamento solo apparente, o almeno meno significativo di quanto una lettura superficiale potrebbe suggerire, perché le maglie per le quale gli otto si troveranno a lottare, nel modulo al quale Wilmots è più affezionato, il 4-2-3-1, sono addirittura cinque.

E subito alle spalle dell’intoccabile - ed effettivamente, quest’anno, flamboyant - Lukaku, la candidatura più credibile per un posto da centravanti, catalizzatore e finalizzatore delle manovre del terzetto De Bruyne-Hazard-Mertens (o Carrasco) è proprio quella di Batshuayi.

Due presenze in nazionale, due reti. Questa è la prima, contro Cipro, a tre minuti dal suo ingresso in campo, in cui si fa trovare - senza la dominanza di Romelu, ma con un senso della posizione inattaccabile - tra le linee avversarie. Un gol all’esordio meno appariscente di quanto aveva immaginato questo player di FM2014 ma comunque impreziosito dall’assist di Radja Masterpiece-Of-Impetuosity Nainggolan.

Nella recente amichevole contro l’Italia, giocata un mese prima che le urne di Parigi ci confermassero che ci saremo trovati ancora di fronte i “Diavoli Rossi” nella fase a gironi dell’Europeo, Batshuayi è entrato a mezz’ora scarsa dalla fine proprio in sostituzione di Lukaku. Dieci minuti più tardi, con movenze simili alle vibrazioni di una canna di giunco se la tiri per le estremità, si è infilato nella difesa azzurra propiziando il gol di De Bruyne

https://imgur.com/v3F3hhL

Per poi farsi trovare ancora, innescato dalla danza zigana di Carrasco, pronto a chiudere di sinistro sul palo di Buffon, con una rapidità d’esecuzione capace di annichilire anche il più prodigioso tentativo di recupero di Bonucci.

Come si contrae il badboysmo? Può essere letale?

Un esercizio di interpretazione semiotica meno probante che divertente che si può fare con i calciatori è quello di googlare il loro nome, andare sulla galleria di foto e cercare di capire che immagine ci faremmo di loro se non li avessimo visti giocare neppure un minuto. Mi sono fatto aiutare da mia sorella, che non sapeva neppure che il Belgio giocasse gli Europei (ignorava che quest’anno ci fossero gli Europei), e le ho mostrato le gallery di Benteke, Lukaku, Michy chiedendole di dirmi il primo aggettivo che le venisse in mente per descriverli.

Per Benteke ha usato grintoso; per Lukaku imponente. Per Batshuayi paraculo, credo per via di qualche linguaccia e più in generale per quel tipo di sguardo che adotta sempre quando è inquadrato in primo piano: il volto leggermente reclinato verso il basso, gli occhi fissi su chi lo osserva, il sopracciglio alzato, la fronte corrugata.

Di sicuro è un giochino che non ci restituisce niente di chi sono veramente le persone (si può allargare a chiunque, non solo ai calciatori) ma che è eloquente della percezione che possiamo avere di qualcuno che non conosciamo che per come decide di apparire.

Paraculo: /pa·ra·cù·lo/ aggettivo e sostantivo maschile. […] 3. Malizioso: «occhi paraguli».

Michy Batshuayi ha giocato molto sulla sua reputazione da bad boy: non voglio spingermi a dire che ci abbia edificato sopra la sua immagine per poi demolirla e inscenare la resurrezione dalle macerie come una Fenice imperiosa, ma quasi. Si è costruito una mitografia (la cacciata dalle giovanili dell’Anderlecht, l’esclusione dall’U21 belga da parte di Johan Walem per aver invitato delle ragazze in ritiro a ridosso di una partita) costantemente alimentata nelle interviste («Yannick Ferrera? L’ultima volta che l’ho incrociato l’ho battuto 6-0 quando allenava il Charleroi. È stata colpa sua se mi hanno respinto all’Anderlecht. Diceva che ero il migliore, ma che dovevo darmi una calmata: ero giovane, credo di aver dimostrato quanto valgo più tardi») e autolegittimata: «pensano tutti che sia arrogante». Come in molti casi di pazienti affetti da badboysmo acuto, la colpa è sua - ovviamente - solo in parte: «Ho una reputazione da cattivo ragazzo, in Belgio. Mi hanno giudicato perché ho preso qualche cartellino rosso quando ero appena un debuttante. È pur vero che dopo essermi fatto espellere in maniera stupida i difensori si sono divertiti a provocarmi; ma adesso quando un avversario cerca di farmi prendere un rosso mi faccio una risata».

Un brutto dallo di reazione su Jeroen Simaeys del Genk nel 2012, quando giocava per lo Standard Liegi e ancora non ci si faceva una risata, sulle provocazioni.

Ma ancora più profondamente, l’anamnesi di tutti i sintomi del badboysmo in Batshuayi ci restituisce un quadro chiaro: il motore propulsore del suo bullismo è il sentimento di autoprotezione. «A volte magari posso apparire duro a chi mi sta intorno, ma è perché ho bisogno di sentirmi un bullo per non andare fuori strada».

Batshuayi + Street Attitude = rap, peraltro pregevole, per di più con una sonorità a metà strada tra il sound marsigliese degli I.A.M. e quello viscoso di bitume di Passi (non Franck, però).

La verità è che non ci sarebbe mai stato il Michy di oggi se non fosse esistito quello di ieri, incostante, solipsista e arrogante: se non fosse arrivato in una squadra di grande tradizione come l’OM con la necessità di concedersi un bagno di umiltà, se non avesse incrociato un tecnico che trovarne più carismatici e autorevoli in giro è una sfida impegnativa, capace di fargli accettare tacitamente la panchina e le occasioni spicciole per mettersi in mostra, se non si fosse allenato tutti i giorni in una palestra in cui c’è scritto, sui muri, «Il successo non è mai per sempre, il fallimento non è mai fatale», Batshuayi avrebbe continuato a prendere a calci in petto difensori onesti del Genk, e non l’avremmo mai visto a un Europeo. La sua narrativa sarebbe rimasta priva di punti di svolta. In una parola, incompleta.

Questa è divertente: l’account twitter francese di OPTA sottolinea come a 21 anni e 3 mesi Michy fosse - a gennaio - il più giovane attaccante ad aver segnato almeno 10 reti nei cinque maggiori campionati europei. Non so quanti calciatori abbiano mai risposto a OPTA: Michy sì, dicendo «posso fare di meglio».

Quando l’OM l’ha strappato allo Standard, Michy era pura nitroglicerina, come l’ha definito il patron dei marsigliesi Labrune. Esplosivo ma complicato da maneggiare. Bielsa lo ha svezzato mettendolo sotto l’ala protettrice di Andé-Pierre Gignac, con il quale il belga ha instaurato un rapporto non tanto di concorrenza quanto di apprendistato.

Gignacchitude: stop con il destro, d’esterno, a tagliare fuori il marcatore alle sue spalle; tocco con il sinistro, un passo e mezzo, sinistro a incrociare.

Alla sua prima stagione francese, partendo spesso dalla panchina, ha segnato dieci gol, ma con un tasso reti/minuti giocati che lo ha reso più prolifico di Ibra o di Lacazette: un gol ogni 100 minuti.

Bielsa lo ha definito «un giocatore capace di spezzare gli equilibri, un marcatore nato, con un buon dribbling, in grado di mettere in collegamento centrocampo e attacco senza perdere di vista la linea avversaria».

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Anche se è alto un metro e ottantacinque e pesa quasi ottanta chili, Michy si muove tra gli avversari come un puma tra i baobab.

È innegabile che il tecnico argentino abbia contribuito notevolmente al suo sviluppo tattico più che tecnico, ed è comprensibile che alla notizia delle dimissioni del Loco Michy abbia dato in escandescenze, anche se il loro rapporto non è mai stato quello che Guardiola instaura con i suoi giocatori: «Non mi dice mai perché gioco, né perché non gioco, se ho giocato bene o se ho giocato male. Uff, è un po’ frustrante. Ma va bene così, ognuno ha i suoi metodi».

Anche una questione di approccio al gioco

L’immagine di Batshuayi Diamante-Grezzo tornito dalle mani sapienti di Bielsa è poetica e forse anche calzante, ma dovremmo cominciare a prendere più in considerazione che dietro l’evoluzione di un calciatore ci sia una certa componente di intelligenza - che preferisco qua chiamare sensibilità - innata. Nella parentesi dei vent’anni passiamo tutti, così come passa per tutti, anche per chi fa di professione l’atleta; e lo sviluppo comportamentale, se da una parte segue una linea tracciata dai contesti in cui un professionista si trova immerso, deve per forza poggiare su un’educazione di base. Quello che voglio dire è che calciatori dai comportamenti infantili possono essercene, e ce ne sono, un tot, per ragioni di caso in caso diverse. Ma calciatori infantili nel loro mestiere, tra i professionisti, hanno vita breve. E in ogni caso non hanno una parabola paragonabile a quella che ha avuto la carriera di Batshuayi. Che di contro non sarebbe potuta essere tale se Michy, profondamente, non fosse un calciatore intelligente.

Credo c’entri anche l’approccio al gioco. Il calcio che gioca Batshuayi è il risultato complesso dell’incontro di direttrici semplici, che poggiano sul concetto fondante, per quanto banale, che alla base ci siano divertimento e rispetto. Di sé stessi e degli avversari.

In un’intervista a Karim Haddouche aka Sat l’Artificier, fondatore del gruppo hip hop marsigliese Fonky Family, Michy ha raccontato di aver assistito a un match tra le giovanili dell’OM e quelle del PSG. «Sentivo l’allenatore parigino urlare contro i suoi ragazzi di appena 10 anni perché non voleva perdere la partita. Mi sono detto che se un giorno avrò un figlio lo lascerò giocare nei parchi e può darsi che solo a 13 o 14 anni lo metterò in una squadra».

L’equazione calcio + strada non deve per forza sempre avere come risultato l’anarchia: ti regala del divertimento libero da costrizioni, ovviamente, ma anche un’educazione sentimentale fatta di rispetto reciproco e verso i più grandi, riconoscimento delle proprie qualità, confronto schietto con i pari grado.

Mama Africa, Papa Molenbeek

Aaron Leya Iseka, talento in erba dell’Anderlecht che quest’anno ha esordito con i biancomalva in Jupiler League, è il fratello di Michy Batshuayi, anche se portano cognomi diversi (Michy quello del padre, Aaron quello della madre). Michy e Aaron sono nati e cresciuti a cavallo tra Evere e Molenbeek, due sobborghi di Bruxelles in cui i parchi costituiscono l’oasi in cui rifugiarsi da un’esistenza incastrata nei palazzoni popolari ad alta densità abitativa.

«Vivere a Molenbeek è stato molto piacevole», racconta oggi che il quartiere è tornato sotto i riflettori per la lunga e a tratti impressionante storia di legami con le cellule terroristiche jihadiste, «ci ho passato gli anni tra i miei 15 e 18». Molenbeek è una città-nella-città, molto stratificata, in cui tutti conoscono tutti ma in cui, allo stesso tempo, convivono media borghesia, ceti popolari e immigrati africani, soprattutto provenienti dal Maghreb, nella totale indifferenza gli uni degli altri. Tranne che nei parchi, dove le stratificazioni non esistono, i livelli si assottigliano, ognuno vale per sé, e per come gioca al calcio.

#DayOff ... Un plaisir d'avoir pu discuter un peu avec eux. Respect et merci aux soldats et policiers qui donnent leur vie pour protéger la notre 🙏 #dieuvousgarde

Una foto pubblicata da Michy Batshuayi (@mbatshuayi) in data: 27 Mar 2016 alle ore 02:03 PDT

Batshuayi in una Molenbeek militarizzata.

Tempo fa Florent Ibenge, il selezionatore dei Leopardi, la nazionale congolese, aveva dichiarato di aver sentito Michy, di essere in contatto con il padre, di avergli sottoposto il progetto che aveva per lui con la nazionale del Congo RD: «Ora sta a lui prendere la decisione giusta».

Michy, che in Africa non è ancora mai stato, alla fine ha scelto di vestire i colori belgi, ma senza rimpianti, senza dispiaceri, con trasparenza: dando l’impressione di aver fatto davvero la scelta più giusta.

Ora, con quella maglia, cercherà di ritagliarsi uno spazio, meglio se da protagonista, all’Europeo.

Il fatto che a più riprese abbia dichiarato «mi sento più africano che belga» non significa niente: la sua personalissima visione della ricchezza del meticciato, interessante perché realista e onesta, ci insegna che l’appartenenza culturale non sempre collima perfettamente con quella calcistica, e a noi dovrebbe poter bastare anche solo che ne tracimino alcuni tratti, come l’istintività, il calore, il genio.

Dovrebbe.

Anche se spesso, però, non ci basta.

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