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Dario Saltari
Perché il Napoli ha scelto Kim Minjae
28 lug 2022
28 lug 2022
Come gioca il nuovo centrale coreano del Napoli.
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Dario Saltari
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ANP via Getty Images
(foto) ANP via Getty Images
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Per i napoletani, intesi come i tifosi del Napoli ma anche forse come cittadini di Napoli, perché dalla mia assolutamente epidermica percezione mi sembra che tutti i napoletani, anche quelli che non tifano Napoli, provano per il Napoli almeno un occhio di riguardo, ecco dicevo per i napoletani non è stata un’estate semplice. Non è bastata una stagione che, per l’andamento che ha avuto, è sembrata fatta apposta per deprimere anche il più entusiasta tra i tifosi.

Partita senza alcuna aspettativa, la squadra di Spalletti con dieci vittorie nelle prime dieci partite ha iniziato a illudere anche quelli che ormai avevano perso ogni speranza. Il ritmo poi ha rallentato ma, anche grazie alle incertezze di Inter e Milan, il Napoli per un attimo è sembrata davvero la squadra più solida per vincere lo scudetto. C’è stato un momento in cui è sembrato un pensiero quasi razionale: e se la gioia più grande arrivasse nell’anno in cui nessuno se l’aspetta, mentre il giocatore più rappresentativo di questa squadra che ha segnato l’ultimo decennio di Serie A, Lorenzo Insigne, si appresta a giocare le sue ultime partite con la maglia azzurra? Allo stesso tempo anche la sua caduta, in una corsa Scudetto che a tratti è parsa una sfida a chi perdeva meno punti per strada, è sembrata inevitabile, come se il Napoli fosse fatto per sciupare le occasioni. E in effetti il Napoli è caduto, ancora contro la maledetta Fiorentina, in un modo che non ha potuto che dare ragione ai tifosi rassegnati al “te l’avevo detto” e che ha lasciato l’amaro in bocca nonostante il terzo posto finale e il ritorno in Champions League.

Ecco, dopo questa stagione i tifosi del Napoli hanno dovuto anche subire lo smantellamento definitivo del nucleo storico della squadra. Prima la partenza di Lorenzo Insigne a Toronto, accolto dall’altra parte dell’oceano come un eroe dei due mondi; poi la cessione dolorosa di Kalidou Koulibaly, partito per Londra per giocare in un campionato finalmente all’altezza della sua dimensione; infine il mancato rinnovo di Dries Mertens, di cui ancora non si conosce la nuova vita. Quante altre volte è successo che una squadra perdesse in una stessa sessione di mercato tre giocatori così rappresentativi? Il crollo di queste tre colonne ha coperto anche il rumore dell’addio di Faouzi Ghoulam, mandato a sua volta a scadenza di contratto e oggi senza squadra, ultimo superstite di quella squadra leggendaria che nel 2018, con Sarri in panchina, sfiorò lo scudetto (anche se Ghoulam, nel 2018, aveva già iniziato a lottare con i suoi terribili infortuni alle ginocchia).

Il Napoli è alla fine di un ciclo e contemporaneamente all’inizio di uno nuovo, e questo inevitabilmente lascia un certo senso di desolazione, di fine del mondo, ma è bello vedere che nonostante questo non abbia perso il filo che ha guidato il suo successo negli ultimi anni. Oggi la casella nuovi acquisti del Napoli segna quattro nomi - Leo Ostigard, Khvicha Kvaratskhelia, Mathias Olivera e Minjae Kim - e qualcuno si sentirà sopraffatto dalla quantità di consonanti nei cognomi e di fiducia da riporre nel futuro di questi talenti di fronte alla grandezza appena persa. Ma non bisognerebbe dimenticare oggi che anche il ciclo che si è chiuso in questi giorni è stato costruito su scommesse affascinanti, che Koulibaly arrivò dal Genk per meno di otto milioni nella stessa sessione in cui il Napoli ne spese più di dodici per acquistare Gabbiadini dalla Sampdoria, che questa strategia non ha portato solo grandi giocatori, ma soprattutto giocatori che hanno scritto la storia del Napoli. Marek Hamsik dal Brescia per cinque milioni e mezzo, Dries Mertens dal PSV per nove milioni abbondanti, Faouzi Ghoulam dal Saint-Etienne per cinque milioni esatti, e così via.

Forse è il mio entusiasmo infantile per i mercati avventurosi, che ai miei occhi fa assomigliare i DS e gli scout agli esploratori del ‘400, e mi porta a preferire un giocatore di cui non si sa niente e che quindi ha la potenzialità di sorprenderti a uno che ha già messo in mostra tutto e di cui non puoi far altro che muoverti il meno possibile nella speranza che il suo incantesimo non si rompa. Ma mi sembra abbia una sua poesia il fatto che il Napoli, anche nel momento più difficile, abbia deciso di mantenere questa sua aura da laboratorio della Serie A, in contrasto spettacolare al modo vagamente feudale in cui viene gestita la società in tutti gli altri ambiti. Certo, non è una ricetta perfetta, e ci sarà già qualcuno che si starà preparando a rinfacciarmi i vari Malcuit, Ounas e Marko Rog, ma se il Napoli è stabilmente ai vertici del campionato italiano negli ultimi anni deve ringraziare soprattutto questa spregiudicatezza. Non credo ci sia un nesso causale diretto, ma è comunque significativo che le cose abbiano cominciato ad andare storte quando il Napoli ha iniziato a spendere tanto per andare sul sicuro, spendendo per esempio 36 milioni di euro per Manolas o mettendo sotto contratto Carlo Ancelotti. Il Napoli ha continuato a prendere alcuni grandi giocatori, come Fabian Ruiz e Victor Osimhen, ma qualcosa si è rotto. Nel calcio non esistono assicurazioni.

Il Napoli ricomincia da dove aveva lasciato quindi, e l’acquisto di Minjae per sostituire Koulibaly in questo senso è di sicuro quello più ardito. Kvaratskhelia, con cui condivide la provenienza esotica e il mistero, avrà per lo meno il vantaggio di dover prendere il posto di due giocatori che sembravano già agli sgoccioli delle proprie carriere come Insigne e Mertens, mentre Minjae arriva dopo l’ultima incredibile stagione di Koulibaly, venduto dopo essersi affermato per l’ennesima volta come uno dei migliori centrali della Serie A, se non il migliore. E lo fa provenendo da un passato di cui non sappiamo quasi nulla.

Minjae si avvia verso i 26 anni, un’età già matura anche per un difensore, ma ha passato quasi tutta la sua carriera da professionista tra Corea del Sud, Cina e Turchia. Di lui non esistono interviste o informazioni significative sui siti occidentali, e per razionalizzarlo dobbiamo affidarci agli stereotipi, ancora piuttosto offensivi nonostante il successo della cultura coreana negli ultimi anni. Ai nostri occhi Minjae è un «coreano sui generis perché è alto 191 centimetri», come ha detto il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ma anche perché è cosparso di tatuaggi che stridono con l’idea di eleganza orientale che naturalmente associamo alla Corea. Sulla schiena ha una specie affresco del Cristo che con la croce porta la luce in un’oscurità popolata da dannati. Un’immagine che pensavo avrei visto prima sulla copertina di un album di un gruppo christian metal che sulla schiena di una persona.

Minjae emana un’aura gotica da romanzo di Mary Shelley. Magari è davvero la stazza gigantesca, oppure la strana frangetta che portava in Cina e che sembrava si fosse tagliato da solo, o i soprannomi “mostro” e “bambino gigante”, o magari proprio il fatto che sia spuntato fuori dal nulla, almeno dal nostro punto di vista, come fanno le creature di cui non riusciamo a farci una ragione. Ma in realtà il suo è un percorso meno eccentrico di quanto non sembri, anzi quasi da predestinato, cioè da chi ci si aspetta già bambino che possa fare grandi cose.

Nato in una famiglia di atleti, Minjae già nella scelta del liceo pensava al suo futuro da calciatore, scegliendo quello tecnico di Suwon che era già famoso per aver dato al calcio coreano Park Ji-sung. Da quel momento il suo passaggio al Jeonbuk Hyundai Motors, una delle più importante squadre di Corea, è una formalità. Minjae inizia a farsi un nome nel 2018, quando segna il suo primo gol nel campionato coreano e fa il suo esordio nella Champions League asiatica dove inizia ad attirare le prime attenzioni fuori dal suo Paese. Quando nel gennaio del 2019 passa inaspettatamente al Beijing Guoan sembra già un giocatore fuori scala per il campionato cinese. Una scelta forse redditizia (siamo agli ultimi fasti del calcio cinese prima dell’esplosione della bolla) ma che ne rallenta l’arrivo in Europa, per certi versi inevitabile per un giocatore già importante per la Nazionale.

Le offerte dei club europei ci mettono poco ad arrivare (si parla soprattutto di Tottenham e Lazio) ma il Beijing Guoan non lo libera. Probabilmente inizia una guerra sotterranea tra club e giocatore di cui non sappiamo quasi niente, se non che nel maggio del 2020 si fa intervistare in Corea per lamentarsi del livello dei suoi compagni (forse alludendo anche alla scelta di Roger Schmidt di spostare l’attaccante Yu Dabao al centro della difesa). Nel contesto di continua tensione tra Cina e Corea del Sud le dichiarazioni di Minjae fanno grande scalpore e la vicenda ha diversi strascichi spiacevoli, tra cui la decisione del Beijing Guoan di non liberarlo per il torneo olimpico della scorsa estate, dove sarebbe dovuto essere uno dei fuori quota della Corea del Sud. Per lo meno, però, quella stessa estate Minjae riesce a farsi cedere al Fenerbahce, nella periferia dell’impero del calcio europeo. Ci metterà solo un anno a convincere uno dei cinque principali campionati del continente a investire su di lui, e che consideri il suo viaggio ancora in itinere mi sembra chiaro anche dalla clausola di rescissione per l’estero che ha voluto inserire nel suo contratto, relativamente abbordabile almeno per la Premier League (45 milioni di euro).

Minjae, insomma, punta in alto, di sicuro più in alto di quanto la nostra indifferenza nei confronti di quello che succede fuori dall’Europa suggerirebbe. Quest’ambizione per qualcuno sarà un oltraggio, per altri solo una sorpresa, di sicuro non l’ultima di un giocatore che sembra fatto per andare oltre le apparenze. Vedendolo giocare la prima cosa che colpisce è la velocità nel lungo, che abbinata alla sua stazza crea una dissonanza visiva che ci si mette un po’ a ricomporre: come fa una persona alta 191 centimetri, con il torace ampio come un frigorifero, a correre in quel modo? Devo ammettere con un po’ di vergogna che guardando le sue partite per un attimo mi è balenata in mente la definizione oscena di “Haaland dei difensori” (vi prego non usatela).

Minjae, quindi, è un difensore perfetto per quelle squadre moderne che difendono molto in alto, che cercano di mettere in fuorigioco gli avversari con una linea aggressiva e che per questa ragione hanno bisogno di qualcuno che vada a riprendere quelli lanciati in porta quando qualcosa va storto. Paradossalmente, invece, non è imbattibile nei duelli aerei per via di una tecnica non ancora perfetta nell'utilizzare il corpo per allontanare l'avversario che a volte gli procura qualche problema quando cerca di far sfilare il pallone sul fondo. Minjae non è quel tipo di difensore che dentro l’area, quando marchi toccando la maglietta del tuo avversario per capire come si sta muovendo alle tue spalle, si sente come in pantofole dentro il salotto di casa. Se potessimo mettere tutti i difensori in un unico spettro filosofico, Minjae starebbe all’estremo opposto: non il difensore da ultima spiaggia, quello che utilizza il corpo come scudo per respingere i tiri e che si esalta nei momenti di sofferenza in cui si difende con nove uomini in area, ma quello che come aspirazione ideale ha il non far arrivare nemmeno al tiro gli avversari. In questo è radicalmente diverso da Koulibaly, talmente sicuro di sé da lasciare spesso la prima mossa agli avversari consapevole di poterli riprendere in qualsiasi momento. Minjae, al contrario, preferisce prevenire: cerca di prevedere le linee di passaggio per interromperle prima che arrivino a destinazione e si fa tentare spesso dall’anticipo avventato, il Sacro Graal per questo tipo di difensori che si esaltano quando possono impedire all’attaccante persino di ricevere il pallone. Se proprio bisogna paragonarlo a un difensore della storia recente del Napoli, assomiglia di più a Manolas, come lui velocissimo nella copertura della profondità e molto attento nell’uno contro uno.

Al contrario del centrale greco, però, Minjae ha una comprensione del gioco più raffinata, che gli permette di fare dei recuperi spettacolari come quello che potete vedere qui sopra, e ha una sensibilità non banale nel gioco con il pallone. Da destrorso schierato spesso a sinistra una delle sue specialità è il lancio in diagonale per il terzino opposto, che esegue con una naturalezza impressionante per essere un centrale di difesa. La distribuzione del pallone dalla difesa, in generale, è di buon livello, Minjae più che altro pecca nelle scelte. Quando è sotto pressione o quando si avventura nella trequarti avversaria, forse per quella stessa paura di sbagliare che lo porta a cercare di prevenire l’esistenza degli avversari vicino alla propria porta, il centrale coreano diventa frettoloso, sembra volersi sbarazzare del pallone più che farci davvero qualcosa. E questo lo rende un difensore conservativo, un po’ manierista, quando c’è da costruire. Difficile capire oggi quanto sia migliorabile questo aspetto, di certo è una fortuna per il Napoli integrarlo con un centrale più pacato e cerebrale come Rrahamani. I due sembrano avere caratteristiche complementari.

Minjae è più spregiudicato quando il pallone può portarlo più che passarlo, forte di quell’accelerazione stupefacente di cui parlavamo prima. Le conduzioni dalla difesa sono uno strumento sottovalutato per le squadre che usano il possesso per manipolare l’avversario già dalla prima costruzione, e Minjae non ha certo paura di usarlo, anzi. La sfrontatezza con cui si avventura palla al piede in quelle zone di campo che imperlano le fronti e alzano il battito dei cuori dei tifosi italiani non si vedeva in Serie A dai tempi di Lucio. Come lui anche Minjae potrebbe provocare ammirazione e timore per questo suo lato selvaggio, che in Italia viene trattato con la stessa paura che si prova avvicinandosi a un animale esotico di cui non si conoscono fino in fondo le reazioni.

D’altra parte, non bastano le ottime prestazioni nel campionato turco, che gli sono valse anche l’inserimento nella Top XI stilata dal CIES (il Centro Internazionale di Studi sullo Sport), non basta la sua lunga esperienza in Nazionale nonostante la relativamente giovane età, con cui tra le altre cose ha ottenuto anche l’esonero dal temutissimo servizio militare coreano grazie alla vittoria in finale dei Giochi asiatici del 2018 contro il Giappone. Puntare su giocatori come Kim Minjae significa inevitabilmente affidarsi anche all’ignoto, credere che abbia in serbo per noi qualcosa di più prezioso rispetto a ciò che conosciamo già. Ripetiamo spesso che nel calcio il tempo passa diversamente e che le cose cambiano più velocemente che nel resto del mondo: e allora perché puntare sull’ignoto dovrebbe essere necessariamente più rischioso? Al di là di come andrà a finire l’adattamento di Minjae alla Serie A, e se il suo acquisto si rivelerà un successo o meno, operazioni come questa, strategie di mercato avventurose come quelle del Napoli o del Milan, sono ciò che rendono queste squadre interessanti al di là dei risultati sportivi e la Serie A un campionato ancora vivo e non un semplice cimitero degli elefanti. Un posto dove le cose possono ancora accadere.

In Nope, ultimo film di Jordan Peele, il protagonista, interpretato da Daniel Kaluuya, si rende conto che c’è qualcosa che non va nel suo ranch in mezzo alla pianura americana quando si rende conto che c’è una nuvola all’orizzonte che, invece di correre per il cielo cambiando forma, è ferma e immutabile. Quella nuvola (spoiler alert) si scoprirà essere una specie di organismo alieno che mangia qualsiasi essere vivente sotto di sé. Un mostro, insomma, che nel film è una metafora del mondo dell’intrattenimento statunitense. Spogliata da qualsiasi sovrastruttura, però, quella nuvola inquieta in primo luogo perché non si comporta in maniera naturale, cioè, in sostanza, muovendosi e cambiando in continuazione. La morale, credo, è che l’assenza di movimento, il rimanere ancorati a un’immagine del passato ideale ma illusoria, anziché rassicurarci dovrebbe spingerci a sollevare dei dubbi prima che sia troppo tardi. Altrimenti quella nuvola scenderà dal cielo e si mangerà tutto ciò che è vivo.

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