L'Ultimo Uomo

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Foto di Michael Reaves / Stringer
Sport Luca Capriotti 6 aprile 2018 6'

Un’esperienza limite

Khabib Nurmagomedov non è un fighter come gli altri.

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Nel suo ultimo incontro Khabib Nurmagomedov ha spezzato Barboza, che a prima vista, se dovessimo basarci solo sul suo aspetto, sembrerebbe un atleta più prestante, più longilineo. Forse persino più sano. E se si vuole parlare di Khabib, si deve parlare per forza del confine tra sano, e insano.

 

Come ti sembra Khabib?

Cosa pensa di Khabib chi lo vede combattere per la prima volta?

Come si sente, chi lo guarda combattere; come cambia, dopo, la sua percezione del combattimento, e della vita?

 

Imbattuto, con 26 vittorie da professionista, in quasi dieci anni esatti di carriera. Khabib che da piccolo si allenava con gli orsi in Daghestan; che anche se è padre, e marito, vive ancora con i genitori. Khabib, per l’intera durata dei 3 round o quasi, ha macellato Barboza. Come altrimenti definire l’inseguimento continuo a cui ha sottoposto il suo avversario? La sensazione opprimente di avere a che fare con una caccia annunciata, non per questo meno terribile e implacabile.

 

Per uno che, come me, non ha consumato moltissimi incontri di MMA, più che una caccia è una decimazione estrema di ogni frammento di resistenza dell’avversario. Nurmagomedov è un fighter estremo, nel vero senso della parola: ossessiona l’avversario, sembra prefigurargli l’angolo, la fine, sembra sussurrargli all’orecchio che sta per arrivare il momento in cui sarà totalmente in sua balìa. Anche quando l’incontro è in bilico, lui sembra sapere che finirà come vuole, e solo il futuro ci dirà se un incontro di Khabib andrà mai in maniera diversa.

 

Quando poi succede, quando la forza dell’avversario è spenta, assorbita completamente dalla morsa di Khabib, e non resta che l’esecuzione, più o meno lenta, della sua punizione, della sua fine, viene da chiedersi come sia possibile permettere tutto questo. Permettere che un uomo faccia una cosa del genere a un altro uomo, seppur entro dei limiti definiti.

 

In quei momenti il sano e l’insano vengono a contatto, si contaminano. La competitività di un combattimento, i codici, le regole, la tattica, tutto scivola a valle, nel tritacarne di Khabib, nel rito punitivo sempre uguale e sempre scioccante a cui sotto pone i suoi avversari. Li schiaccia a terra, letteralmente, col peso del proprio corpo; gli toglie ogni appoggio, ogni leva, ogni via d’uscita. Gli gira intorno, gli prende un braccio tra le proprie gambe, con una mano gli ferma l’altro braccio e con l’altra li colpisce. Li crocifigge. Esiste una posizione meno brutale di quella comunemente chiamata come la posizione del crocifisso?

 

Qualcuno che conosce le MMA meglio di me magari sa dirmi se esiste, o è mai esistito, qualcuno di così dominante, in maniera così totale, prima di Khabib. Qualcuno che resistituisca quel senso di ingiustizia. O, se preferite, di giustizia divina. Nessuno, in ogni caso, potrà dire che è una cosa “normale”. È possibile assistere alla distruzione di un uomo senza esserne del tutto scossi?

 

Ad un certo punto del secondo round, Barboza guarda l’arbitro. Di solito si guarda l’arbitro per testimoniare la propria lucidità, per non far finire il combattimento, come segno di una presenza. Ma nello sguardo di Barboza c’è solo impotenza. Non può fuggire. Non può arretrare. Non può neanche veramente arrendersi, a meno di affrontare l’onta di aver mollato un combattimento senza una costrizione fisica di nessun tipo: senza aver perso i sensi, senza avere niente di rotto, senza essere in pericolo imminente. Khabib potrebbe andare avanti tutto il giorno, a erodere la superficie del suo corpo millimetro dopo millimetro, e Barboza può solo aspettare che il suo avversario vinca. Deve solo assistere lucidamente alla propria demolizione.

 

Per Barboza è stata una specie di gara di resistenza, un rito medievale, per Khabib un’ossessiva ricerca di situazioni-limite in cui incastrare tutta la vitalità dell’avversario e spiaccicarla. In cui costringere l’arbitro a pensare che basta, ne abbiamo visto a sufficienza.

 

Finché qualcuno fermerà Khabib. Si pensava che avrebbe potuto provarci Tony Ferguson. Che lui avrebbe avuto qualche opportunità, ma uno stupido incidente lo ha messo fuori causa e lo avrebbe dovuto sostituire Max Holloway, campione dei pesi Piuma, con solo 6 giorni di preavviso per prepararsi, ma un infortunio ha fermato anche lui e alla fine è toccato a Al Iaquinta provarci.

 

 

Ci è andato vicino Michael Johnson. Forse più vicino di quanto ci sia mai andato nessuno con un singolo pugno capace di fargli tremare le gambe, ma sempre troppo lontano. A metà del secondo round Khabib, inconsapevole del suo stesso potere, incapace di pensare mettendosi nei panni dell’altro, gli ha sussurrato all’orecchio, in piena tortura, di ritirarsi. Johnson ha iniziato il terzo round con coraggio, ma Khabib lo ha fatto arretrare, lo ha braccato, prima di fermarsi un decimo di secondo per scrocchiare il collo, come noi comuni mortali facciamo dopo troppe ore al pc. Poi ha cominciato l’assalto.

 

Dietro la rete dell’ottagono, con Johnson a terra che prende pugni in faccia, si vedono alcune facce, gente che guarda Nurmagomedov come se fosse qualcosa di completamente nuovo, di completamente inatteso. Come se guardassero oltre l’incontro, oltre l’evento, oltre l’UFC. Come se ci fosse solo un uomo che è pura ferocia, come se quell’uomo fosse una pestilenza, un virus capace di bloccare il sistema nervoso dell’uomo che ha davanti, impossibile da debellare.

 

C’è un fotogramma con Johnson che si copre la faccia, come se stesse piangendo, ma disperato. Mentre Nurmagomedov lo blocca a terra, lo tempesta di pugni sul costato con la testa china per schiacciarlo con il peso della propria spalla, con la testa china come se stesse pregando. Johnson non si era voluto arrendere ma adesso poggia la mano alla rete, quasi con delicatezza, non per rialzarsi, non potrebbe, piuttosto come qualcuno che pensa di essere ancora in piedi e ha paura di cadere, che sente un mancamento. Ma si può cadere più in basso di così? Si può essere la stessa persona dopo aver subito una cosa del genere? Forse Johnson sta pensando proprio a questo.

 

Johnson fa uno sforzo sovrumano, ci prova, riesce a spingersi lontano dal suo predatore. Ma è l’ultimo sussulto, prima che Nurmagomedov si arrabbi davvero, ma in maniera glaciale, e riesca a sottometterlo piegandogli il braccio. Un atto di misericordia, dirà Khabib dopo, ma viene difficile credergli. Un atto di impazienza, invece, il potere di un bambino che distrugge il proprio giocattolo. Poi finisce tutto. Il silenzio, anche negli occhi di Khabib. Il silenzio di una solitudine durata quasi un quarto d’ora.

 

Sembra rendersi conto Khabib, a quel punto. Sembra essere tornato da un viaggio lontano, da un posto che conosce solo lui. Rialza Johnson, lo abbraccia, ma stavolta come un fratello. Come se tutto il resto fosse stato una specie di grosso equivoco. Uno strano, grosso, patetico equivoco.

 

Non era riuscito a fermarlo neanche un campione come Rafael Dos Anjos. Khabib era stato meno dominante del solito, con grandi difficoltà a colpire da terra, ma aveva controllato un campione come una marionetta dipinta. Aveva fatto di peggio contro Pat Healy, 4 anni fa. Lo aveva trascinato per aria, con Pat che provava a muovere i piedi, con un senso infantile di impotenza. Come se fosse stato un piccolo gioco tra loro. Solo che il gioco era Pat stesso, un gioco che finisce spaccato per terra.

 

Contro Abel Trujillo, Khabib sembrava prudente, sembrava un altro. Poi è partito all’assalto, veloce, schivando due volte ma in maniera eclatante. Eludere serve a mandare a vuoto l’avversario, a creare un vuoto da riempire con ferocia.

 

Come ci sentiremmo, trascinati nel mezzo di una civiltà pre-colombiana, nel pieno di una scena di Apocalypto? Come ci sentiremmo di fronte ad una specie di sacrificio umano? Quando Khabib afferra il suo avversario possiamo immaginare come doveva essere assistere a una pubblica tortura.

 

All’inizio del terzo round del suo terzo match in UFC, contro il brasiliano Tibau, sembra aver perso le emozioni. Il match è duro, durissimo, forse lo scoglio peggiore per lui, ma piano piano, implacabile, lo fa arretrare. Fino alla conclusione del tutto consequenziale, le spalle di Tibau sulle maglie della rete. Si era difeso bene dai takedown, Tibau, e sembrava quasi mettere in difficoltà Khabib, ma la sua faccia diventa sangue e gonfiore. Nurmagomedov non ha emozioni, ha sempre la stessa espressione, esprime l’assoluta supremazia di chi è rimasto l’unico del suo pianeta. C’è una striscia di sangue che, dal sopracciglio destro di Tibau scende per tutto il viso. Khabib la strazia con un pugno, la toglie dalla faccia della terra. E al termine, Tibau sembra felice di avercela fatta, a rimanere in piedi, a rimanere vivo. Quando vince Khabib crolla a terra. Un’altra volta si è reso conto, ha ripreso emozioni, ha ripreso consapevolezza. Finalmente è tornato uomo.

 

Non è una bestia, un animale, come lo definisce Dana White su Twitter. È qualcosa di diverso, ma certamente della bestia ha la caccia fino a sfiancarsi, con la certezza che, se l’avversario rimarrà intrappolato, sarà tutto suo.

 

Per chi non ha mai visto un incontro MMA, Khabib Nurmagomedov è un’esperienza estrema. Fa venire voglia di rifugiarsi in cose comode, perché mette di fronte agli occhi degli spettatori qualcosa di estremamente duro, crudo, difficile da masticare, impossibile da digerire.

 

Nel confine tra sano e insano, Khabib danza una sua speciale caccia dannata. Trasforma i suoi avversari in prede. E gli altri possono solo sperare che ci sia qualcosa, nella loro vita, che non sia Nurmagomedov, qualcosa di più comodo, di più confortevole, persino nella scomodità del combattimento. Perché Nurmagomedov non è una sfida, è una maledizione.

 

 

Tags : khabib nurmagomedovmmaufc

Nato a Roma nel 1987, dove vive e lavora. Laureato in Lettere Antiche, appassionato di indie e di Pasolini. Direttore di Laziocrazia, collabora con Calciomercato.com e FoxSports.it.

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