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L'ossessione degli juventini per la Champions League
26 feb 2020
26 feb 2020
Ricostruzione emotiva dei fallimenti della Juve in Champions.
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Foto di Matthias Hangst / Getty Images
(copertina) Foto di Matthias Hangst / Getty Images
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È di nuovo arrivato quel periodo della stagione calcistica in cui la Juventus si trova di fronte alla sua schizofrenia identitaria da Giano Bifronte: dominatrice incontrastata in campionato, piccola pellegrina piena di speranze puntualmente annientate in Europa.

Una storia, quella bianconera in Champions, che ricorda banalmente Moby Dick: ma arrivati a questo punto della ripetizione dei fallimenti, noi juventini più che Achab sembriamo il mozzo Pippin. La vittoria che sfugge sempre, e la vastità immensa dell’Oceano del calcio continentale — che si fa ogni anno più macrofago - ci hanno gettato in uno stato dissociativo senza ritorno. Ormai è tutto un mix indistinto di velleità inespresse, rimorsi per il passato, e un senso di inadeguatezza che non trova approdo. Abbiamo comprato Cristiano Ronaldo, abbiamo preso Sarri per giocare il calcio all’attacco come ci diceva Sacchi, abbiamo brandizzato e dato in appalto anche il vecchio armadietto di Pietro Vierchowod pur di avvicinare i bilanci delle big europee. Ma ogni volta che inizia la fase a eliminazione diretta ci sentiamo su una zattera di tronchi, con un gigantesco Kraken sotto il pelo dell’acqua.

La prima partita di Champions che ricordo di aver guardato con spirito cosciente, e totale coinvolgimento eterodiretto da mio padre, è stata Juventus - Ajax del 23 marzo 1997, il ritorno delle semifinali. Avevo 9 anni, e fino ad allora il calcio mi aveva appassionato pochissimo.

Ebbi la stessa impressione che immagino debba aver avuto un fantaccino prussiano assistendo alla vittoria di Federico II nella battaglia di Hohenfriedberg: una superiorità talmente palese, da sembrare quasi governata da forze immanenti. Con Zidane che nell’azione del quarto gol, tramite un semplice movimento di bacino, mandò in default il sistema nervoso di tutta la difesa dei lancieri.

La seconda partita di cui ho forte memoria, invece, fu la finale della stessa edizione contro il Borussia Dortmund. Lì mi sentii come Friedrich Paulus a Stalingrado. Tutti i favori del pronostico -- corroborati da una formazione avversaria composta quasi esclusivamente da scarti della Juventus negli anni precedenti - e una paralizzante impossibilità di opporsi alla slavina di eventi imprevisti e puntualmente avversi. Affondato nella poltrona del salotto, osservai la parabola del tiro di Ricken infilarsi sotto la traversa, e produssi lo stesso rumore che fa un’arsella quando viene calpestata dagli appassionati di jogging sulla battigia. L’infrangersi calcareo della corazza di volontà di potenza, che mostrò il mollusco inerme dei miei sogni europei.

Una sensazione che ho riprovato più volte negli ultimi 24 anni: il pensiero “stavolta ce la facciamo, tutto gira per il verso giusto”, e la delusione totale nel momento della verità.

Nel corso della mia carriera da tifoso ho assistito soltanto alle delusioni campali della mia squadra in Europa: il guizzo di Mijatovic (1998), la protervia di Ferguson e della “classe del 1992” (1999), la corsetta glaciale di Shevchenko a Manchester (2003), le infinite delusioni contro Pandiani (2004), Luis Garcia (2005), e Henry (2006). Poi l’oblio di Calciopoli, fino ad arrivare all’impotenza di fronte alla certezza della morte delle finali contro Messi e Ronaldo. Ma anche chi ha avuto modo di vivere l’unico, vero, trionfo della Juve in Champions nel 1996 (non credo ci sia nessuno, ovviamente, che riesca a contare l’Heysel), secondo me prova lo stesso sentimento di impotenza ossessiva quando si tratta di Champions League. E ci sono diverse ragioni, che vanno oltre il mero fatto che la Champions è la competizione per club più bella e importante: un mismatch fra caratura nazionale e internazionale (il Nottingham Forest ha vinto le stesse Champions della Juve), un sentimento di invidia e confronto con le strisciate milanesi, e un protratto senso di sconferma da parte del destino. Quindi c’è un lato oggettivo, uno emotivo e uno esistenziale nell’ossessione di noi juventini per la Coppa dalle Grandi Orecchie.

Partiamo dal primo: quando ero bambino ho potuto attingere, come un archivista di Villar Perosa, a tutta la documentazione che mio padre aveva collezionato sulla storia della Juventus nel corso della sua appassionata vita da tifoso. Avevo un sacco di VHS, libri, e inserti speciali della Gazzetta e del Guerin Sportivo. E guardandola con occhio clinico lo si può dire senza indugi: nonostante sia l’unica italiana ad aver vinto tutte le competizioni organizzate dalla UEFA, la Juventus ha storicamente un problema con le sfide europee. Fin dai tempi della Mitropa Cup, o della Coppa delle Fiere.

Ma in particolare ce l’ha con la massima manifestazione europea, e non sono soltanto le tante finali perse a dimostrarlo: è la squadra che si è in assoluto qualificata più volte (12) alla competizione dalla fondazione (1955), fino alla prima vittoria sulla carta (l’Heysel appunto, 1985). Ci ha messo 30 anni ad arrivarci. E spesso si è fatta eliminare in modo inconcepibile, nelle prime fasi. Wiener Sport Club (8-3 ai sedicesimi nel 1958/59), CSKA Sofia (4-3 ai sedicesimi del 1960/61), Dinamo Dresda (4-3 ai sedicesimi nel 1973/74), B. Mönchengladbach (4-2 agli ottavi nel 1975/76), Rangers Glasgow (2-1 ai sedicesimi del 1978/79), Anderlecht (4-2 agli ottavi del 1981/82).

Una tendenza a farsi trovare impreparata in Europa che ha segnato anche gli anni dal 2000 a Calciopoli: con Ancelotti, Lippi e Fabio Capello la Juventus ha avuto formazioni incredibili, pienamente all’altezza delle migliori, e al di là dell’anno di Manchester, i percorsi in Champions sono sempre stati farraginosi e incerti.

È difficile capire a cosa sia dovuta questa difficoltà. È perché la famiglia Agnelli non ha mai voluto investire fino in fondo per creare squadre vittoriose (anche se in realtà, dopo la cessione di Zidane e Inzaghi, la Juventus acquistò Buffon, Nedved, Thuram, Cannavaro, Emerson, Ibrahimovic e Viera in pochi anni, senza riuscire a vincere comunque), o è per l’atteggiamento troppo italiano del calcio che storicamente la Juve ha sempre giocato? In questo senso gli juventini si sentono un po’ come gli esponenti della piccola-media impresa italiana, tanto esaltata ai tempi del boom economico, che si sono visti portare via tutte le certezze dalla globalizzazione. C’è un grande senso di rimorso per il passato, che nutre l’ossessione-Coppa: nei periodi più propizi della propria storia, la Juve non è stata spesso in grado di capitalizzare le occasioni giuste. Mentre i tifosi avversari gongolano nell’ipotesi complottista che questo dimostri il protezionismo nei confronti della Juventus in Italia.

Il secondo punto riguarda la parte emotiva, che tocca l’invidia e il risentimento per le altre due strisciate. Quando noi generavamo questo limbo di mestizia, il calcio milanese in generale fondava la sua epoca aurea con Rocco e Herrera. Milan (soprattutto) e Inter hanno un pedigree diverso dal nostro nel continente, è brutto da ammettere ma è evidentemente così.

Poi il Milan è finito coinvolto nella detonazione del berlusconismo, diventando una leggenda della Champions League, e indicando una via che la Juve non è mai stata in grado di seguire. Un calcio coraggioso, fatto di tecnica e dominio, che ha letteralmente condizionato l’intero sport a partire da Sacchi in poi. Ricordo quanto invidiavo la qualità del centrocampo del Milan di Ancelotti, mentre noi optavamo per quella superiorità muscolare un po’ ottusa, che funzionava tanto bene con il Chievo ma non in Europa.

Poi l’Inter, dopo 40 anni di niente, è riuscita in quell’unico colpo da David contro Golia del 2010, ravvivando la sua allure romantica. È stata forse la più grande beffa, che ha gettato benzina sulla nostra ossessione. Ok il Milan di Berlusconi, troppo più meritevole di noi: ma l’Inter al primo tentativo, con una squadra di contropiede, è riuscita a farcela. E noi perdiamo finali su finali.

La Juventus, insomma, non ha né l’attitudine al dominio da monarchia assoluta dei milanisti, né l’eroismo da singola rivoluzione cubana degli interisti quando si tratta d’Europa. E noi invidiamo entrambe queste qualità. Ci sentiamo un po’ come suppongo si sentisse Cavour quando pensava a Napoleone III e a Garibaldi: da una parte il grande esercito post-napoleonico di un paese che ammiri, dall’altro un mestierante delle armi che disprezzi, ma che mentre tu perdi sempre a Custoza si impossessa in pompa magna del Regno Borbonico. C’è un certo senso di inferiorità sabauda, insomma, nell’invidia verso le strisciare milanesi. Così più cosmopolite, così più europee.

Infine c’è la parte esistenziale. È innegabile che esista qualcosa di inquietante—una sfiga cosmica—nel destino della Juve in Champions. Quando un tiro sbilenco può trasformarsi in un pallonetto che finisce nell’angolino lo fa sempre (Rep, Magath, Ricken, Alaba, Casemiro, solo per citarne alcuni); quando un giocatore fondamentale non si dovrebbe far male al momento sbagliato, se lo fa sempre; quando non dovresti prendere traversa o palo in finale sullo 0-0, li prendi sempre (Bettega, Vieri, Conte, Pogba, Pjanic, li so tutti); quando butti fuori Cristiano Ronaldo alle eliminatorie ti tocca Messi in finale; quando butti fuori Messi, invece, ti tocca Ronaldo (non il Barcellona senza Iniesta o il Bayern senza Ribery, insomma); quando un arbitro non dovrebbe avere l’immondizia al posto del cuore, ce l’ha sempre; quando Evra dovrebbe spazzare via la palla in tribuna, non la spazza mai.

C’è sempre qualcosa che sembra andare per il verso sbagliato, proprio nei momenti decisivi. Pensate alla situazione odierna, ora che un ciclo sta per finire e che restano al massimo questa e un’altra stagione per capitalizzare prima della ristrutturazione: abbiamo preso Maurizio Sarri per cambiare la nostra concezione calcistica, e per la prima volta in carriera sembra diventato impossibile per lui imporre il proprio gioco. Magari è solo un’impressione, ma io comincio a sentire quello strano e familiare odore nell’aria, come prima di un temporale.

C’è qualcosa di dostoevskijano, insomma, nel rapporto della Juventus con la Champions. I disastri che una società post-illuminista comporta per una cultura ortodossa, l’autodistruzione folle che l’invidia e il risentimento provocano in individui come Rogozin ne L’Idiota, l'ineluttabilità del destino nei Fratelli Karamazov (la Juve è sicuramente la Smerdjakov della Champions).

Mettendo un attimo da parte l’ossessione, però, c’è obiettivamente da notare che in realtà la Juventus in alcuni periodi è stata letteralmente impossibilitata a vincere la massima competizione europea. Non soltanto negli ultimi dieci anni—in cui il gap economico e tecnico con le prime squadre europee ha reso le finali raggiunte recentemente dei piccoli miracoli—ma anche in altri periodi della storia. Gli anni Settanta ad esempio: la chiusura delle frontiere calcistiche, succeduta alla disastrosa eliminazione dell’Italia al Mondiale del 1966, ha realmente azzoppato uno dei decenni più floridi della società. Cinque campionati in dieci anni, un allenatore come Trapattoni, e una base di giocatori italiani che avrebbe potuto ottenere di più con qualche grande innesto straniero.

Alcune delle tanto fantomatiche finali perse, ad esempio, erano oggettivamente inarrivabili: l’Ajax di Cruyff nel 1973, il Barcellona di Messi nel 2015 e il Real Madrid di Ronaldo nel 2017. Altre invece sono state perse in modo combattuto e paritario: quelle del 1998 e del 2003 contro Real e Milan. Quelle che restano più indigeste, però, sono le due partite in cui partivamo nettamente in vantaggio: Amburgo e Borussia. Lì non c’è congiuntura economica, sistemica, o tecnica che tenga. È iattura, o semplice incapacità. Il rapporto della Juve con la finali è talmente infausto che ormai è diventato parte della narrazione collettiva del calcio mondiale.

Io ne ho già viste perdere cinque, e ho solo 32 anni. Ditemi quanti altri tifosi calcistici hanno subito un simile strazio. Ogni volta è stato come attraversare uno stato di coscienza in cui le possibilità di reagire sono azzerate, fateci caso: in finale la Juve ha sempre subito l’iniziativa dirompente, e iniziale, degli avversari. Anche a Manchester nel 2003, nonostante lo 0-0, fu il Milan ad attaccare nel primo tempo. Prese un palo clamoroso con Inzaghi, e segnò un gol annullato per fuorigioco. La peggiore è stata contro il Barcellona nel 2015: per tutto il primo tempo sono rimasto inerme, a guardare il Barcellona fare quello che voleva. Solo a Cardiff la Juve partì con un po’ di piglio: ma alla prima occasione in cui qualcosa poteva andare storta, è subito andata storta.

Insomma ormai il rapporto della Juventus con questa competizione è minato da una serie di sventure oggettive e messianiche. Ci sono solo dubbi e paure all’orizzonte. Quello che so per certo, è che ormai per molti juventini guardare le partite di Champions non è più neanche un piacere. Io personalmente le vivo male, e ormai ho talmente tanta paura che i miei sogni vengano infranti nuovamente, che a ogni fase a eliminazione adotto tutta una serie di scaramanzie che scadono quasi nella nevrosi (nella stagione 2016/2017 ho portato la stessa tuta di acetato puzzolente per tutte le fasi del torneo). Più che sognare la vittoria della Champions per festeggiare un bel momento, io sogno una forma di liberazione. Come sul finire del discorso di Martin Luther King davanti al Lincoln Memorial: “Free at last / Free at last / Thank God almighty, we are free at last".

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