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Tommaso Giagni
Jupp Heynckes e il potere della serenità
01 mag 2018
01 mag 2018
In un calcio sempre più frenetico, l'allenatore tedesco del Bayern Monaco spicca come una figura autorevole e saggia.
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Tommaso Giagni
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Per tornare sulla panchina del Bayern, lo scorso ottobre, Jupp Heynckes ha dovuto superare le proprie resistenze: «Non era il mio sogno». La quarta volta da allenatore in Baviera, a 72 anni, dopo anni di tranquillità lontano dal calcio a cui aveva detto addio... Si è confrontato in famiglia. Secondo la moglie e la figlia doveva accettare la proposta. Alla moglie il suo lavoro ha dato grandi sofferenze, secondo lui, perché è un lavoro che non dà spazio alla vita privata: «Richiede tutta la mia attenzione».

 

Aveva detto addio al calcio e aveva ritrovato i propri luoghi. La sua carriera da allenatore era finita. Si era rivisto nel cortile della casa d'infanzia, a calciare il pallone contro il muro. Aveva risentito la voce di sua madre alla finestra, le proteste in dialetto perché stava sempre a giocare a pallone. Si era ricordato di quando ascoltava alla radio le cronache dei Mondiali 1954, la passione per Puskás. E mentre rifletteva sulla proposta del Bayern, il suo cane ha abbaiato due volte. L'ha preso come un segno.

 


Heynckes durante una conferenza stampa, lo scorso aprile (foto di Alexander Hassenstein / Getty Images).


 

«Ho un problema a dire "mai". Posso assicurare però che non ho intenzione di allenare ancora», parlava così nel giugno del 2013. Da allora, non solo è tornato, ma ha vinto la Bundesliga con cinque turni d'anticipo. E presto giocherà la finale di Coppa di Germania, contro l'Eintracht di Niko Kovač. E stasera si gioca il ritorno di una semifinale di Champions League.

 

Intorno alla sua nomina, a ottobre, non si sono alzati lampi d'entusiasmo. Per la sua età e per la sua recente inattività, veniva percepito da molti come una scelta regressiva, aria stantia, vecchie idee. Lui non se n'è curato: «Certo che ci sono degli scettici. Il calcio è cambiato ma non è stato reinventato».

 

Il calcio lo conosce, Heynckes. Ha una storia di successo, lunga decenni, sia da giocatore che da allenatore. Un campionato Europeo e un Mondiale. Una valanga di reti e un posto d'onore nella storia degli attaccanti tedeschi. Otto campionati di Germania, diverse coppe nazionali, una coppa UEFA, e due Champions League vinte con due squadre diverse (il quarto allenatore a riuscirci).

 

Quel successo, innegabile, ha però le sue ombre. La figura di Heynckes non ha lo spessore pubblico di tanti allenatori molto meno titolati. «Forse sono troppo normale» dice lui, per spiegare perché in tutti questi anni non gli abbiano mai offerto un contratto pubblicitario.

 

Qualche giorno fa una coppia in ascensore non l'ha riconosciuto. È un racconto che ha fatto lui stesso. I due hanno notato il suo borsone ufficiale e gli hanno detto: «È un tifoso del Bayern?» e lui candidamente ha risposto di sì.

 

Eppure è un uomo tutt'altro che anonimo, e tantomeno banale, Josef Heynckes detto Jupp. Si direbbe avere principi classici che prendono forme inaspettate. Quando gli chiedono cosa pensi di Lady Gaga, invece di piegarsi al cortocircuito con la propria immagine agée e severa, Heynckes risponde: «Anche un calciatore può imparare qualcosa da lei: sa esattamente cosa fare per raggiungere il suo obiettivo». È un conservatore e un saggio: «Viviamo in un mondo davvero frenetico e irrequieto. E il calcio è proprio al centro di tutto ciò. Il mio compito al Bayern è di rallentare, calmare le cose».

 


Con la moglie Iris all'Oktoberfest 2011 (foto di Christof Stache / Getty Images).


 

Per oltre quattro stagioni si era ritirato dalle scene, rifiutando panchine di grandi società e ruoli da esperto in TV: «Avevo fatto pace con l'idea che la mia carriera da allenatore fosse finita». Ma con il Bayern c'era stato evidentemente qualcosa di troppo importante, nel tempo, per lasciar cadere la richiesta del presidente Uli Hoeneß (che lo definisce il suo migliore amico). D'altra parte, secondo Heynckes, «Non bisognerebbe mai dimenticare chi ti ha aiutato nella vita».

 

La prima volta al Bayern era stata nel 1987, trent'anni prima di questa. Fino ad allora Heynckes aveva allenato solo il Gladbach. E proprio nello stadio del Gladbach, il Borussia-Park, a maggio 2013 aveva disputato quella che sembrava l'ultima da allenatore in Bundesliga. Nonostante sedesse sulla panchina avversaria, ebbe una tale accoglienza dagli oltre cinquantamila spettatori che disse: «Mi ha dimostrato dov'è casa mia».

 

La prima volta al Bayern si era conclusa con un esonero, nel 1991, che lui considera il passaggio più doloroso della sua carriera da allenatore. È tutt'altro che una speculazione fumosa la sua convinzione di non aver mai avuto capi. Presidenti sì, certo, con il potere di licenziarlo. Ma capi no, mai.

 


La prima volta al Bayern, stagione 1987/88 (foto Bongarts / Getty Images).


 

Il 2012/13 è la stagione che meglio racconta il personaggio. A dicembre la società gli dice che in estate arriverà Guardiola, quindi c'è da lavorare al meglio e poi farsi da parte. Heynckes vince Bundesliga, Champions League e coppa di Germania. Triplete: il primo nella storia bavarese. E se ne va nella sua piccola fattoria, nelle campagne della Nordrhein-Westfalen, vicino Mönchengladbach. Se ne va da gentiluomo, benedicendo pubblicamente la scelta del passaggio di testimone «a una generazione più giovane».

 

Mönchengladbach è la sua città natale, il Borussia è stata la sua squadra da giocatore e la sua prima squadra da allenatore.
Il rapporto con il proprio territorio si basa su un legame intenso. Perciò fatica a spiegare cosa abbia provato nel 2007, quando a Mönchengladbach ricevette minacce di morte per i suoi errori da allenatore dei neroverdi.

 

Con quei colori Heynckes aveva attraversato gli anni Sessanta e Settanta, l'età dell'oro del club. Parallelamente in nazionale, la Germania Ovest, vinceva i campionati Europei del 1972 e la Coppa del Mondo casalinga del '74. Eppure questi successi non sono stati completi: agli Europei si è dovuto accontentare di un ruolo defilato, ai Mondiali era titolare ma un infortunio l'ha fermato prima della finale.

 

Questa in particolare è stata la grande delusione della sua vita. E la sua «grande fonte di motivazione»: un anno dopo vinceva campionato, coppa UEFA e titolo di capocannoniere in entrambe le competizioni.

 

In realtà quando ci è nato si chiamava “München-Gladbach”, un nome che lo faceva sembrare un sobborgo di Monaco di Baviera, motivo di confusione e irritazione (e ragione per cui si passò al nome attuale). Jupp era il nono di dieci figli di un padre fabbro: «In quelle condizioni acquisisci naturalmente delle

. Io sono un autodidatta».

 

Quando ci è nato, soprattutto, era il 9 maggio 1945. Nell'arco dei dieci giorni precedenti Hitler si era suicidato, Berlino era stata presa, la Germania aveva firmato la resa e in Europa era finita la Seconda guerra mondiale.

 


Allenatore del M'Gladbach nel 2006/07 (foto di Friedemann Vogel / Getty Images).


 

A ottobre 2017 la sua ricetta per guarire i campioni bavaresi immalinconiti è stata: «Una chiara gerarchia nello spogliatoio». In linea col ruolo da sergente di ferro che lo accompagna nell'immaginario.

 

Heynckes controlla tutto, anche il “singolo esercizio addominale”. Heynckes quando si scalda per la partita diventa rosso, al punto d'essersi guadagnato il soprannome di «Osram», cioè l'azienda tedesca che produce sistemi d'illuminazione. Heynckes durante le partite non ha mai paura né pensieri negativi, ha spiegato, ma ragiona su cosa fare: «Rimango molto calmo».

 

Eppure è più di questo. Per esempio Ribery lo ha descritto come un uomo che al tempo stesso ha «un cuore grande» ed è «capace di tirarti uno schiaffo». Lo stesso Heynckes ci tiene ad allontanarsi dalla fredda rappresentazione del tipo inflessibile fino all'ottusità. Si presenta come un uomo attento alle psicologie: «Il mio lavoro è capire i diversi caratteri nella squadra. Credo di avere una grande sensibilità per comprendere le persone». E sempre a proposito di rappresentazioni, di recente contestava la sua immagine di uomo d'altri tempi: «Non sono mai entrato in conflitto generazionale con i miei giocatori. Sono rimasto giovane nel cuore».

 


Con Fernando Hierro e Bodo Illgner dopo la finale di Amsterdam, 20 maggio 1998 (foto di Frank Peters / Getty Images).


 

Esattamente vent'anni fa alzava la Champions League 1998, battendo la Juventus con il suo Real Madrid. Poco dopo lo esonerarono. In quella stagione aveva vinto la Supercoppa di Spagna ma il quarto posto in Liga fu considerato insufficiente dalla dirigenza. «Le delusioni non riguardano l'insicurezza ma il cambiamento. Ho sempre visto le sconfitte come una sfida personale», dice. Ed è chiaro che le sfide per lui si risolvono col lavoro.


 

Ovvio quindi che nel 1994 prese la decisione estremamente impopolare di mettere fuori squadra Okocha, Yeboah e Gaudino, stelle del suo Eintracht, per essersi rifiutati di fare una corsa d'allenamento nei boschi.

 

Il Bayern ha già ufficializzato il tecnico Niko Kovač per la prossima stagione. Tutto lascia pensare che per Heynckes queste siano le ultime panchine in assoluto. Verosimilmente una partita come quella di stasera non la giocherà più. E sul piano simbolico è davvero efficace che sia contro il Real Madrid.

 

Possiamo avere pochi dubbi che l'affronterà con calma, senza frenesia. D'altronde, come dice lui, «Si può trarre forza solo dalla serenità».

 

 

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