
Camminando da solo sull'erba di un Santiago Bernabeu ormai deserto, ancora rimbombante delle urla di un'estate intera, la sera-quasi-notte dell'11 luglio 1982 a Mario Sconcerti capitò di imbattersi in un Enzo Bearzot solitario y final. Massacrato per mesi dalla grande maggioranza dei giornalisti, si era appena preso la più spettacolare delle rivincite e in cuor suo già sapeva quali sarebbero state le conseguenze: e gli piacevano poco. «Sono schifato dal miele con cui adesso mi vanno ricoprendo», confidò a uno dei rari giornalisti che non aveva mai usato verso di lui un tono diffamatorio. «In quel miele, ci soffoco».
Julio Velasco ha un'età sufficiente per conoscere a menadito la trita lezioncina dei due impostori di Kipling e prenderne convintamente le distanze. «Il mondo non si divide tra vincenti e perdenti, ma tra brave e cattive persone», l'aveva già declamato a Bologna nel 1995 in una memorabile puntata de Il Laureato, show itinerante nelle università condotto da Piero Chiambretti e Paolo Rossi, inserito in scaletta tra Umberto Eco e Francesco Guccini: una delle prime deviazioni pop che erano servite a costruire l'immagine del guru. «Poi purtroppo tra le cattive persone ci sono anche dei vincenti. E tra le brave persone, purtroppo, ci sono anche dei perdenti». Ma ormai nel 2025 s'è capito che i guru sono quasi tutti pessimi maestri, e lo stesso Velasco rifugge come la scarlattina l'immagine dello sciamano infallibile che vince medaglie semplicemente imponendo le mani e i pensieri.
Così oggi la sfida è diventata tratteggiare un ritratto senza ricorrere a quella melassa soffocante di cui parlava Bearzot, e sforzarsi di mantenere la giusta distanza, senza cadere nella deferenza, nell'adorazione, nello stordimento dei sensi che potrebbe prevalere al cospetto dell'unico CT della storia dello sport italiano capace di vincere un Mondiale con gli uomini e con le donne (almeno italiano, diciamo, visto che sul resto del mondo è più difficile essere sicuri). Non è solo una vicenda sportiva, evidentemente: c'è anche la profonda comprensione di qualcosa che sembra indecifrabile soprattutto in questi bassi tempi social, il possedere una password che dia accesso a entrambe le centraline, maschile e femminile. Intelligenza emotiva, si chiama, così distante da quella artificiale: Velasco ne possiede in quantità da autocisterna, il che fa di lui un genio delle relazioni, che poi è il sugo della storia in quelle brevi e intensissime avventure di quindici-venti giorni che sono tipiche degli sport di squadra.
Poi chiaro, il Divo Julio inorridisce al solo sentir pronunciare la parola “codice”, come ha fatto nell'intervista rilasciata a Ivan Zazzaroni sul Corriere dello Sport della scorsa settimana. Guru, per carità. “Para-guru”, forse, secondo una definizione a suo modo geniale inventata forse da Dagospia nei confronti di chissà quale ideologo di partito. Anche se in fondo Velasco ogni tanto dà l'impressione di dare ai media esattamente ciò che loro vogliono: qualche motto di spirito, qualche pillola zen, verità e proverbi («No me quita lo bailado, nessuno ci toglierà i balli che abbiamo ballato», splendido modo di dire argentino pronunciato ad Atene dopo il titolo europeo 1995, rimane espressione valida e felicissima anche trent'anni dopo). Concede sempre il famoso “titolo” che nel 1990 come nel 2025 fa tornare a casa sereni i cronisti. Poi eventualmente li smentisce, si schermisce, eccepisce, si defila, com'è giusto che sia dà il merito allo staff, ai giocatori e alle giocatrici, uomo nell'ombra come il protagonista di un noir a lieto fine. La realtà ci dice che è la cosa sportivamente più vicina al professor John Keating dell'Attimo Fuggente: quando passa lui, niente e nessuno resta uguale.
È celebre l'aneddoto del faretto, biglietto da visita per smascherare la cultura degli alibi imperante nella Nazionale maschile di fine anni Ottanta. «Mettiamo che uno di voi sbagli un punto. Lo schiacciatore schiaccia fuori e qual è la prima cosa che fa? Dà la colpa al palleggiatore che gli ha alzato male la palla. Voi schiacciatori siete tutti così, parlate solo delle alzate sbagliate, siete dei grandi esperti di alzate. Vi incontro al bar e state parlando degli alzatori. Quindi l'alzatore, sentendosi attaccato, cosa fa? Dà la colpa alla ricezione che è stata sbagliata, troppo corta o troppo lunga. A sua volta il ricevitore si gira per cercare qualcuno su cui scaricare la responsabilità e vede il muro della palestra. E allora mica può dare la colpa al battitore avversario che ha servito troppo bene, mica può chiedergli di servire peggio... e allora dice di essere stato accecato da un faretto sul soffitto, collocato in un punto sbagliato. E quindi, se lo schiacciatore ha schiacciato fuori, è colpa dell'elettricista!».
Invece, la prima volta che intende pungolare la squadra femminile (nella sua prima esperienza da CT, dal 1996 al 1998), Velasco fa leva su uno storico punto debole dell'altra metà del cielo: l'autostima. Lo riferisce Maurizia Cacciatori: "Julio ci mostra le immagini di una partita persa contro le forti cubane. Ci esorta a osservare le nostre avversarie. Hanno sguardi indolenti. Masticano enormi bubble-gum con l’espressione di chi sta in fila al supermercato. Giocano senza impegno, ci osservano come se fossimo nanetti di marmo piazzati nel loro giardinetto. E ci battono. Così viene percepita l’Italia femminile ai grandi tornei: poco più di un allenamento prima delle partite vere”.
Non tutte le ciambelle riescono col buco, e Velasco fallirà l'obiettivo sportivo di quel primo biennio con la femminile: agli Europei sarà malamente eliminata dalla Repubblica Ceca, ma lascerà in eredità un tesoro di esperienza manageriale e qualche indicazione cruciale, come la formazione del Club Italia. Velasco ha questa capacità di spiegare il generale partendo dal dettaglio, un uso virtuosistico della metafora che poi è la via più breve ed efficace per arrivare al punto.
Nei giorni caldissimi di Parigi 2024 rifiutava ferocemente l'idea che il trionfo o il fallimento passassero dal risultato di una singola partita: «Non sono come Roberto Baggio che pensa sempre al rigore sbagliato contro il Brasile...». Forse non era del tutto vero (si dice che in quei mesi Velasco fosse piuttosto focalizzato sul conquistare quel che gli era sempre sfuggito in carriera, anche se lui negherà fino alla morte), ma era uno splendido esempio: perché parlava non solo a se stesso, ma anche alle atlete – quasi tutte fortissime – che non dovevano auto-perseguitarsi con il fantasma della schiacciata sbagliata com'era successo a Giani nel 1996 o alla stessa Paola Egonu sul set point del terzo set della semifinale Mondiale 2022, proprio contro il Brasile, il suo personale inizio della fine (o di una fine).
Già, il Brasile. Da buon argentino Julio Velasco ha un rapporto particolare con il Brasile, e questa è un'ovvietà. Nel 1990 vince la semifinale 3-2 a Rio de Janeiro, in un impianto torrido chiamato Maracanazinho. Sono storie di un volley preistorico, senza rally point system e senza aria condizionata nei palazzetti: in un clima da villaggio dei dannati di Apocalypse Now, Andrea Lucchetta mette a terra il punto numero 15 del tie-break e mette a tacere il fratello piccolo del Maracanà (che com'è noto, è stato silenziato solo da tre persone: papa Wojtyla, Frank Sinatra e Alcides Ghiggia).
Nel 1995 l'Italia ribadisce il concetto vincendo in Brasile la World League in quella che è una delle massime espressioni del velaschismo: con un ricambio totale generazionale, attingendo al serbatoio dei ragazzini, con una visione manageriale che gli attirerà anche l'attenzione di imprenditori di altre discipline sportive. Portatori di una pallavolo spesso istintiva ma generalmente eccelsa, anche i brasiliani hanno una loro mistica non troppo distante dagli argentini: maestri ineguagliati di poesia sportiva, chiamano le battute al salto "viagem ao fundo do mar”, viaggi in fondo al mare. Attraversando questa specie di Stige, Velasco era riuscito a far capire alla sua prima generazione di fenomeni che per arrivare in cima dovevano smetterla di essere “troppo buoni”, atavico difetto di tanto sport italiano.
Trentacinque anni dopo gli tocca ripetere la lezione alle loro nipotine, con l'aiuto di qualche pretoriano dell'epoca divenuto generale (Lorenzo Bernardi, Mister Secolo, e Massimo Barbolini, che di Velasco era assistente a Modena già nel 1989). Con un'insidia ulteriore: un anno fa a Parigi queste giocatrici hanno già vinto, anzi meglio, anzi peggio, hanno già trionfato, per di più alle Olimpiadi, una vittoria tanto schiacciante quanto irreale, bella da stordire, perdendo un solo set in tutto il torneo, una congiunzione astrale troppo abbagliante per durare a lungo. E non hanno mai incontrato le brasiliane.
Il Brasile è l'ultima squadra che ha sconfitto l'Italia femminile, il primo giugno del 2024 nella fase a gironi di Nations League, quando qualcuno si era già spinto a rimpiangere Mazzanti – ovviamente sui social, il luogo deputato all'immaterialità dell'idea e dell'opinione. Poi, pur sconfitto, ci ha messo in difficoltà nella finale di Nations League 2025, rimontando un set di svantaggio e portando alla luce una versione di noi diversa e benvenuta: non più allegramente travolgenti, ma cattive, lucide nella sofferenza, pertinaci nonostante gli infortuni, fino a diventare – come ha osservato l'amico e collega Fabrizio Monari – sportivamente “inquietanti” per le avversarie. Un'umiltà che evidentemente non si forgia a colpi di 3-0 ma nella difficoltà, come il sentimento che nasce in mezzo al pianto nella canzone di Lucio Battisti. Il 3-1 di Lodz, ventinovesima vittoria consecutiva, è arrivato grazie al robusto apporto di tante riserve, da Stella Nervini a Carlotta Cambi, da Gaia Giovannini a Kate Antropova che riserva lo è solo perché c'è anche Paola Egonu.
Ma, pur sconfitto, il volpone Zé Roberto – unico commissario tecnico della storia dei Giochi ad aver vinto un oro olimpico sia al maschile che al femminile – ha tratto parecchie buone indicazioni da quella partita. E all'ultimo istante del riscaldamento Sarah Fahr ha appoggiato male il piede su un pallone e si è storta la caviglia. Capite di quanti addentellati si può comporre una sola settimana di grande volley? Per non parlare della Turchia, allenata da un CT sagace come Daniele Santarelli, che il pomeriggio del 7 settembre 2025 può mettere sul tavolo un opposto in condizioni stellari come Melissa Vargas, trascinatrice di un gruppo che si fomenta sulla cattiva giornata di Orro e sulle prestazioni lampeggianti di Nervini e soprattutto Egonu, sia pure decisiva con le accecanti fiammate di primo e terzo set. Due partite difficilissime, due impreviste strettoie per un gruppo ormai abituato a percorrere autostrade, che si incanalano entrambe sul 2-2. Quando cade l'ultimo pallone di un quarto set dominato, le turche hanno totalizzato 14 punti in più dell'Italia. Che forza mentale ci vuole, per cambiare una storia così?
In tutto questo, dov'è Velasco? È solo un semplice “motivatore”, come si scrive un po' troppo spesso per semplificare, come se agli altri allenatori fosse impedito di parlare alle giocatrici? È un generale fortunato, un manipolatore, uno che gioca a dadi con la sorte? No, o perlomeno non solo: ha passato gli ultimi trentacinque anni a imparare, perché «gli scienziati insegnano che l'unico modo per tenere giovane il cervello è fare sempre cose nuove». Lo abbiamo trovato in Spagna, in Repubblica Ceca, in Iran entusiasta di conoscere da vicino la cultura islamica, con le donne e con i ragazzini, per qualche mese addirittura nel calcio – prima Lazio e poi Inter, sempre un po' a disagio negli eccessi economici e comportamentali di un ambiente che per uno come lui dev'essere sembrato chiassoso come un casinò di Las Vegas. E lo abbiamo rivisto sulla tolda del comando là dove più infuria la tempesta, in un tie-break di una partita di pallavolo. L'amico ritrovato.
Ha un olfatto da lupo e un senso del volley (e della vita) ormai impareggiabili. Sa che il suo mestiere è preparare la squadra a tutte le stagioni e tutti gli agenti atmosferici: sole, vento, pioggia, grandine. Guarda male l'avversaria polacca che ha osato imbruttire Nervini, striglia Alessia Orro come solo lui sa e può fare, maneggia il plutonio dell'alternanza Egonu-Antropova con mani da prestigiatore. Toglie e aggiunge, ma sempre cum grano salis. C'è chi non esce mai, come Moki De Gennaro, Anna Danesi o Miriam Sylla, che è l'alfa e l'omega temperamentale di questa squadra. C'è chi dovrebbe uscire ma non può, come Sarah Fahr in campo sia pure in versione fenicottero, su una gamba sola, perché non si fida delle alternative di un reparto decimato dagli infortuni già nelle settimane di preparazione. C'è chi non dovrebbe uscire ma invece esce, come Alessia Orro, che rimane seduta in gran parte dei set decisivi.
In questa tempesta di pensieri e azioni il generale Julio è dominante, nessuna oserebbe mai contraddirlo nell'apnea di un tie-break che vale una finale o un oro mondiale. E il carattere, la cattiveria che questa squadra non aveva (per fortuna o purtroppo) potuto esibire a Parigi, fino a farci sospettare che non ne fosse appunto provvista, vengono fuori inesorabili nel momento decisivo. Le due Olimpiadi “maschili” di Velasco si erano entrambe schiantate sul tie-break, perso contro l'Olanda sia a Barcellona che ad Atlanta, quinti set punteggiati di errorini e mancanze di atleti formidabili cui però era sceso un velo sugli occhi, era mancata la terra sotto i piedi. A Bangkok 2025 il gioco di prestigio è tale da farci credere che la forza mentale di questo gruppo sia superiore persino a quella di chi fu nominato la più grande squadra di pallavolo del Novecento. E non è solo questione di Anna e Sarah che alzano la diga, di Moki che esibisce per la miliardesima palla il suo formidabile istinto pallavolistico, di Paola e Kate che ammaccano il taraflex ogni volta che si danno il cambio, di Miriam che mura e difende anche i meteoriti. È tutte queste cose insieme, sono i quattro-cinque palloni salvati o comunque toccati da Eleonora Fersino, è la striscia di sei punti consecutivi con Giovannini in battuta, i sei punti finali del tie-break di una finale mondiale, tutti vinti, e ditemi voi se è mai successo, e nelle interviste Gaia ha ancora gli occhi lucidi al pensiero che le sia capitata una cosa del genere. Se accade questo, opinione personale, è merito dell'allenatore.
Poi ci si può divertire a unire i puntini, a immaginare cos'abbia bisbigliato o urlato Velasco nel frastuono di un time-out o nel silenzio di un allenamento. Come abbia motivato Sarah Fahr zoppa eppure in campo dieci set su dieci in ventiquattr'ore, così come Alessia Orro che si era infortunata cadendo su Fahr: non è escluso che Velasco le abbia offerto su un piatto d'argento il lusinghiero paragone con un altro eccellente scavigliato del suo passato, Mister Secolo Lorenzo Bernardi che si era fatto male per eccesso di generosità nella semifinale olimpica 1996 contro la Jugoslavia, scendendo ugualmente in campo nella finale. Oppure che abbia allargato le braccia, con aria serafica, rispondendo alle lamentele con il suo mantra del 2025: «Dobbiamo toglierci dalla testa che andrà sempre tutto bene». La vita non è un 3-0, anzi, «dobbiamo prepararci per vincere 30-28 al tie-break».
Non sono concetti rivoluzionari: rivoluzionario è il modo in cui Velasco riesce immancabilmente a far passare il concetto, non quello che dice ma come lo trasmette, fino a trasformare una squadra di grandi incompiute in un'armata invincibile da 36 vittorie di fila e sei punti conclusivi con Gaia Giovannini in battuta. «Io spiego ai giocatori le cose che loro non sanno» (questa frase la diceva non oggi, ma il 23 aprile 1996, Gazzetta dello Sport).
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Un anno fa, pochi secondi dopo che la schiacciata di Jordan Thompson era finita out e la pallavolo italiana aveva appena iniziato a festeggiare il primo oro olimpico della sua storia, Bruno Vespa ha impugnato il cellulare. In quel momento si è misurata la distanza abissale che corre tra i social e il mondo reale. Vespa – forse ne avrete sentito parlare – è un giornalista importante, ormai da mezzo secolo in prima linea su tutte le principali vicende di politica e attualità, italiana e non solo; eppure, messo di fronte allo sport, confessa con un tweet di non conoscere più i codici per decrittare la società di oggi. E scrive, con una certa precipitosità: "Straordinaria la nazionale pallavolista (sic) femminile. Complimenti a Paola Enogu (sic) e Myriam Sylla: brave, nere, italiane. Esempio di integrazione vincente". A parte che non si capiva cosa gli avesse fatto la lodigiana Loveth Omoruyi per essere esclusa dal terzetto, proprio non si vedeva in che modo dovrebbero integrarsi agli "italiani veri" la padovana Paola Egonu e la palermitana-lecchese Myriam Sylla.
Essendo un mondo per definizione dominato dai giovani, con il trionfo del gesto fisico e l'esuberanza atletica al centro della scena, lo sport si presta alla perfezione a fare il punto sullo scontro generazionale che in molti Paesi occidentali, chiamiamoli così per comodità, assume quasi i contorni di una guerra civile (almeno a parole). E qui ci aspetta Julio Velasco, un uomo che a 73 anni dovrebbe avere tutto da perdere e nulla più da insegnare, un vecchio maestro portato per un decennio abbondante su un palmo di mano da destra e sinistra e poi volutamente scomparso dalla scena italiana per continuare "a imparare". L'Italia di oggi saprebbe cogliere tutte queste sfumature che Velasco, supremo teorico del dubbio, va dispensando ogni volta che apre bocca?
Fuori dalla bolla degli appassionati, rischia di essere la solita storia di sette giorni e poco più, accompagnata da un lato dai soliti inni orgogliosi alla multiculturalità della squadra (per fortuna, a parte pochi infelici, il colore della pelle di tanti nostri campioni, dal giovane talento del salto in lungo al centravanti della Nazionale di calcio, ormai non fa più notizia, o quasi). C'è da capire cosa succederebbe a Velasco se tornasse a sporcarsi le mani, a parlare di politica, a ribadire la sua orgogliosa fede di sinistra, a fare l'incendiario e non più il padre nobile.
Al momento sembra che si accontenti di coltivare gentilmente un mestiere ancora più eversivo: insegnare, mestiere drammaticamente fuori tempo, che sopravvive in qualche anfratto di civiltà, là dove continua a verificarsi l'equilibrio ormai miracoloso tra un uomo saggio che parla e un gruppo di alunni che ascolta. Il 2026 sarà un anno di grandi cambiamenti: il suo staff eccezionale perderà Massimo Barbolini (che andrà al Galatasaray), mentre in campo non sarà facile superare la perdita di Moki De Gennaro a cui, oltre alle sue straordinarie qualità tecnico-tattico-atletiche, era affidata anche una gestione particolare di Paola Egonu, la fuoriclasse a cui Velasco ha spiegato la lezione decisiva di saper distinguere tra "persona" e "personaggio". Molte senatrici hanno già annunciato di volersi prendere una pausa azzurra di qualche mese: la Nations League 2026, cui arriveremo da bi-campionesse uscenti, potrebbe assomigliare alla World League 1995, quando la Nazionale arrivò pesantemente rimaneggiata e ringiovanita (per vincere ancora, ma questo non diciamolo ad alta voce).
È probabile, se non certo, che lo sguardo sia volto ancora più lontano: luglio 2028, quando dalle parti di Hollywood dodici ragazze vorranno salire un'ultima volta sui banchi, capitano mio capitano.