Nella foto scattata prima della finale di Gold Cup del 1993 l’alchimia di dettagli, degna degli arazzi rinascimentali, ha come punto di fuga il portiere del Messico. La sua presenza sposta il baricentro del quadro leggermente a sinistra, lasciando passare in secondo piano le rifiniture minori: la t-shirt di rappresentanza dell’accompagnatore, forse un massaggiatore, che abbraccia Juan Ramírez; lo sguardo corrucciato di Ignacio Ambriz, che di lì a 10 minuti spianerà la strada a una vittoria piuttosto insindacabile dei suoi; il bambino accovacciato di fronte alla squadra; il pubblico dell’Azteca sullo sfondo.
Quella del portiere è una figura che cattura l’occhio e che dona l’impressione di un movimento sussultorio in corrispondenza del volto impassibile di Luis Roberto Alves Zague, il capocannoniere del torneo, che ne ha fatti sette nell’esordio del Tri contro la Martinica e quel pomeriggio segnerà l’undicesima rete della sua Gold Cup.
Sullo sfondo rosa della maglia del portiere, di una taglia più grande, le maniche a tre quarti e il colletto alzato, i bottoni slacciati, si alternano elementi romboidali, fulmini, quella che sembra una faccia tribale stilizzata, blu, elementi massonici, forse. Il proprietario di quella silhouette variopinta si chiama Jorge Campos Navarrete.
Se fosse una Live Photo, e bastasse premerci su il dito per visualizzare i tre o quattro secondi successivi, tutto il costrutto crollerebbe, gli equilibri si spezzerebbero: Campos tornerebbe a guardare il mondo a un metro e sessantacinque centimetri da terra, scivolando sul prato dal pallone sul quale si è arrampicato per lo scatto.
Quella sera il Messico sconfiggerà gli Stati Uniti per 4 reti a 0: sarà il primo di tre successi consecutivi in Gold Cup, la competizione che invita alla sfida le nazionali della CONCACAF. L’inizio di un’egemonia, di un’epoca dorata per il “Tri”, che è anche reduce dall’ottima Copa América del mese precedente, in cui si è fatto strada fino alla finale persa contro l’Argentina. Un’epoca in cui avrebbe giocato bene come non mai, e non vinto niente come sempre.
Mezza locura
“El Brody”, come Campos è stato soprannominato scimmiottando la storpiatura della parola brother che caratterizza lo slang di Acapulco, la sua città natale, viene oggi ricordato soprattutto per la sua apparenza. Ancor più che per essere stato, dopo Hugo Sánchez e prima di Rafa Márquez, il volto del calcio messicano nel mondo.
Simbolo di un anticonformismo un po’ fumoso, legato più ai suoi outfit che dal suo stile di gioco. Jorge Campos non merita però di essere relegato nel recinto di un immaginario di nicchia, insieme ad altri portieri latinoamericani degli anni ‘90, rubricato sotto l’hashtag #loco: Campos non era i dribbling avventati di Higuita, né le punizioni e i gol di Chilavert. Jorge Campos non è stato soltanto una successione di frame da mettere in mostra alla fiera del feticismo su YouTube.
Spavalda guasconeria e prese plastiche contro gli USA.
Dietro le combinazioni di colori sgargianti – giallo fluo, verde lime – c’è il profilo di un calciatore unico, diverso non solo da qualsiasi portier ma da qualsiasi altro collega; e non per indossare una divisa con lo sponsor tecnico diverso da quello della sua squadra.
In lui l’estetica di una respinta acrobatica, di un balzo che disegna un arcobaleno di fronte ai pali, si sposa con la pragmatica di un’uscita in anticipo sull’avversario lanciato in contropiede come fossero un tutt’uno, e non due gesti separati, che non possono appartenere allo stesso giocatore.
«Oggi è tutto più – non so come dire… tutto più costretto. Centrocampo, difesa. Destra, sinistra, centro.». «La mia posizione in campo, invece, era speciale», dice della libertà d’invenzione che gli veniva concessa, o che si permetteva, o entrambe le cose.
Anello di congiunzione
Nel 1993 Jorge Campos è stato votato dall’IFFHS come il terzo miglior portiere del mondo: davanti a lui ci sono Peter Schmeichel e Sergio Goycochea; subito dietro Andoni Zubizarreta e Bodo Illgner.
Il danese e il tedesco sono stati gli ultimi due portieri ad aver avuto l’opportunità, in una competizione ufficiale a livello continentale, la finale di Euro ‘92, di raccogliere con le mani il retropassaggio di un compagno: la regola che lo impedisce sarebbe entrata in vigore ufficialmente nella gara d’esordio del torneo calcistico delle Olimpiadi di Barcellona, quella tra Italia e Stati Uniti.
La stella di Jorge Campos, invece, esplode significativamente proprio in esatta corrispondenza del momento in cui la sua principale propensione, cioè quella di saper e voler giocare con i piedi, dentro e fuori dall’area, è diventata un quid in più a disposizione del portiere che deve approcciarsi con un calcio nuovo.
Campos è stato uno degli anelli di congiunzione, anche da un punto di vista cronologico, tra un’interpretazione passatista e una modernista del ruolo del portiere, ma anche più in generale di quello di calciatore. Meno eccentrico e pazzoide di quanto ci potessero sembrare Amedeo Carrizo, Hugo Gatti o René Higuita, Jorge Campos sembrava davvero il prototipo perfetto del nuovo portiere.
Nel suo gioco c’era qualcosa che può essere confuso con l’irresponsabilità, e che era invece la consapevolezza intrinseca – e chissà, il gusto – del pericolo.
In un’intervista a So Foot ha dichiarato «È molto difficile essere un portiere e giocare come lo facevo io, prendersi così tanti rischi. Ci si deve rendere conto che c’è molta pressione su di noi. Io, era diverso: io me ne fottevo. Mi sono sempre scompisciato troppo in campo, e preferivo fare un errore fuori dalla mia area che sulla linea di porta, almeno avevo margine per recuperare la situazione». La sua è un’incoscienza ragionata, un rischio controllato.
«Ero un po’ pazzo magari, ma mi divertivo un casino. Arrivavo spesso sulla linea del centrocampo con la palla al piede. Era il mio stile, mi piaceva. Fortunatamente non ho mai fatto un errore grave in Coppa del Mondo», aggiunge a un certo punto, quando forse realizza che la linea di demarcazione scavata dal solipsismo suicida di Higuita contro il Camerun a Italia ‘90, quella linea che divide i mattacchioni innocui da quelli che provocano devastazioni, è la stessa che, come il fossato dei castelli medievali, ci ha aiutati a preservare di Campos un ricordo innocente, di fronte al quale ci viene più da sorridere che da portarci le mani al volto.
Questa, per esempio, è una sciagura più spettacolare che drammatica.
Ecce Homo (USA ‘94)
Il primo ricordo personale che ho, nitido e ingenuo, di Jorge Campos è una figurina di quelle rigide, grandi come il cartellino di un arbitro e stampate sui due lati, fuoriuscita da un pacchetto glitterato qualche settimana prima dell’inizio dei Mondiali statunitensi del 1994. In quel rettangolo plastificato c’erano troppi dettagli perché la mia fantasia di tredicenne non volasse altissima. C’era una sua immagine, immortalata nella posa di una sforbiciata plastica, classica maglia verde del Messico, numero 1 sui pantaloncini, nessun accenno di guanti, sul fronte; sul retro l’istantanea di un uomo che era lo stesso pur non sembrando lo stesso, una maglia oversize piena di ghirigori, il cognome stampato sulla manica e sui pantaloncini, il numero 9 sul petto. E poi c’era scritto: nato ad Acapulco, un luogo che mi sembrava più mitico di Macondo. E al ruolo: portiere / attaccante. Con lo slash.
Una bivalenza di ruolo conclamata come quella di Campos, in realtà, fece irruzione sulla scena di quei Mondiali come il trick perfetto di un surfista che osservi per la prima volta in vita tua dalla battigia, e di fronte al quale non sai se il sentimento più giusto da contrapporre sia l’incredulità o l’invidia.
Javier Clemente, allora allenatore della Spagna, fece appello alla FIFA affinché deliberasse che Campos potesse giocare solo da portiere, perché la sua multifunzionalità avrebbe potuto apportare un vantaggio al Messico.
Il Ct del Brasile, invece, Carlos Alberto Parreira, lamentò l’eccessiva stravaganza delle sue maglie da portiere, sostenendo che gli garantivano un vantaggio sleale dal momento che lo facevano confondere con la folla dei tifosi, e non permettevano agli attaccanti di identificare bene dove si trovasse all’interno della sua area.
Come poteva infastidire la stravaganza di un calciatore che giocava in posizione con la maglia numero 1 e in porta con la maglia numero 9, che sovvertiva le leggi scritte e non scritte del calcio moderno fotografato agli albori della modernizzazione?
Negli Stati Uniti il Messico riuscì a passare la fase a gironi chiudendo il proprio raggruppamento in testa: inaspettatamente, dal momento che era inserito nello stesso gruppo di Italia, Irlanda e Norvegia.
Molto meno unconventional di quanto ci aspettassimo, Campos strabordò dagli argini solo nella scelta delle divise da indossare. Qualche parata atletica contro l’Irlanda o la Norvegia, ma non molto di più.
Quando anzi il Tri si trovò ad affrontare, agli ottavi di finale, la Bulgaria, Jorge Campos si denudò di tutte le sovrastrutture per presentarsi – Ecce Homo – nella più scarna delle rappresentazioni del sé stesso portiere: un estremo difensore abile, reattivo, che però paradossalmente finiva per perdere smalto se confinato tra i pali, privato dell’opportunità di muoversi in piena comfort-zone.
La sequenza dei rigori – la parata sul tiro di Balakov, l’ineluttabilità, nonostante il colpo di reni disperato, della trasformazione del rigore decisivo da parte di Yordan Letchkov – ci restituisce l’immagine di un Jorge Campos depotenziato, quasi snaturato. Un uomo che confinato tra i pali era come Superman a contatto con la kriptonite.
«Un attaccante ha più chance di esprimere la propria gioia segnando di quanto un portiere possa fare dopo una parata», ha detto una volta. Anche se è durato poco, c’è stato comunque un istante, in quel pomeriggio di giugno, minuscolo al centro del Giantas Stadium, in cui esultando coi pugni rivolti verso il volto Jorge Campos ha quasi saputo dimostrare l’esatto contrario.
Piltzintecuhtli
Piltzintecuhtli, nella mitologia azteca, è il semidio dell’alba, chiamato anche “il Dio bambino”. Nell’iconografia è rappresentato come un uomo di bassa statura, dalle vesti iridescenti. Secondo la leggenda, quando il Dio bambino è morto dal suo corpo è germogliata la prima pianta del mais. Jorge Campos è stato, a cavallo degli anni ‘90, una specie di moderno Piltzintecuhtli, doriforo di una nuova alba: dalla pelle da cui si è liberato sono germogliati i fiori del futuro del calcio messicano.
Piltzintecuhtli è anche associato alle piante allucinogene, ai peyote, ai fiori della salvia divinorum.
Veder giocare Campos, a volte anche soltanto vedere Campos, era un’esperienza allucinatoria: era come se, per usare una bella immagine che ho letto in un pezzo su Sports Illustrated, Montezuma avesse mangiato dei tacos radioattivi prima di vomitare la sua vendetta fosforescente sulla sua maglia.
Campos aveva un’opinione precisa sulla sua visione dell’eleganza: «Se sei bello da vedere ti senti bene, e se ti senti bene giochi pure bene». Un’idea che evidentemente non condivideva la federcalcio messicana, alla quale non andava giù che il proprio portiere sembrasse una pignatta. Più volte fu minacciato di esclusione se non si fosse attenuto all’obbligo di indossare le maglie fornite dallo sponsor ufficiale del Tri. Trovarono un compromesso: avrebbe indossato le sue maglie, ma con il brand dello sponsor tecnico incollato sopra. «I miei vestiti mi rendono felice, come quando ero ragazzino, prima ancora che sapessi cosa fosse, esattamente, un portiere».