Il 29 Agosto si gioca la quarta giornata di Ligue 1. Il Lille, campione in carica, sta faticando più del previsto: nelle prime tre partite non ha racimolato che due punti, nel mezzo una sconfitta rovinosissima contro il Nizza. Anche con il Montpellier Les Dogues stentano: passano in vantaggio allo scadere del primo tempo, ma vengono subito raggiunti 4 minuti più tardi, nel recupero.
Sono appena trascorsi dieci minuti della ripresa quando Sven Botman lancia in profondità Jonathan David, che taglia la trequarti in diagonale. Quello che succede nei sette secondi successivi è un cloridrato del senso di stupore metafisico che strappano i funamboli quando evitano uno scivolone che potrebbe essergli fatale, i danzatori che fanno roteare sfere luminose ai matrimoni, Houdini quando stendevano il telo e iniziava a dimenarsi tra le catene.
Lo stop elastico con il destro; il tocco ravvicinato di sinistro, che per un attimo gli fa perdere il controllo della sfera; e poi l’arpione in tackle, con cui riconquista il pallone prima di piazzarlo sul palo più lontano.
È la prima rete stagionale di Jonathan David, a due giorni dalla fine del mercato. In molti si sono chiesti per quale ragione sia rimasto a Lille, dove è esploso nella stagione precedente. Torneranno a interrogarsi nella parentesi invernale, quando dappertutto spunteranno manifestazioni di intenti. Eppure nessuno lo strapperà dalla squadra che lo ha visto consacrarsi. In fin dei conti il profilo di David è quello dell’attaccante che può far comodo più o meno a tutti: può giocare come punto di riferimento centrale, da seconda punta, è tecnicamente abile, ma pure veloce, ma pure forte fisicamente.
«Lui è un giocatore da top club», ha detto il suo agente, «ma non è ancora il momento giusto. Il suo prossimo passo deve essere intermedio». David è d’accordo: «Voglio un club che creda realmente in me. Un club ambizioso, ma nel quale allo stesso tempo possa alzare l’asticella del mio gioco». Che è un punto di vista eccezionale, in un mondo in cui gli hypewagons vengono inaugurati con la stessa rapidità con cui arrugginiscono sulle rotaie del dimenticatoio, solo pochi mesi più tardi.
Due settimane dopo il suo gol al Montpellier, per il Lille sarebbe iniziata l’avventura in Champions League. Al termine del girone d’andata, si sarebbero trovati ultimi, con due punti. Ma inanellando tre vittorie di fila, avrebbero finito per vincere il girone. Qualificarsi agli ottavi, dove ad attenderli ci sono i campioni in carica - e del mondo - del Chelsea. Buona parte dei meriti - e delle speranze riposte nel passaggio del turno, a questo punto - hanno a che fare con Jonathan David.
Il sangue dei tori
Jonathan David è nato a Brooklyn da genitori haitiani. Quando aveva tre anni è tornato ad Haiti, ci è rimasto per un po’, dell’isola conserva ancora molti ricordi - quelli di un’infanzia idilliaca, di calcio in strada; tre anni più tardi, alla ricerca di un futuro migliore, tutta la famiglia si è trasferita in Canada.
Ne Il regno di questo mondo di Alejo Carpentier, a un certo punto, compare la figura di Henri Christophe, uno schiavo che si era reinventato cuoco, diventando il più bravo dell’isola, così ambizioso che sarebbe stato poi il primo re nero delle americhe. Autoritario, autocratico, piuttosto sanguinario.
Per rendere inespugnabile Cittadelle La Ferrière, la fortezza militare nella quale si era barricato, Henri Christophe aveva fatto cospargere le mura di sangue di toro. Metaforicamente, anche Jonathan David ha avuto bisogno di cospargersi di qualcosa che lo rendesse immune all’arrendevolezza. Qualcosa che aumentasse la sicurezza in se stesso. Qualcosa in cui credere ciecamente. Quel qualcosa è stato il calcio.
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La storia di David non ha nessun carattere romantico: per un figlio di immigrati, a Ottawa, dove la temperatura è sotto zero per buona parte dell’anno, il calcio non è quello spettacolo che guardi in TV, casomai innamorandoti di Ronaldinho: è sacrificio. È dedizione. È spirito di adattamento. Il vate nel percorso di crescita di Jonathan è stato un coach coriaceo, dai modi rudi, dalle idee chiare, Hanny El Magraby. El Magraby dice: «Io non voglio creare giocatori per la MLS. Io voglio che vadano in Europa». Piedi a terra, disciplina, priorità. Mentalità, etica del lavoro. I capisaldi di El Magraby sono pochi, semplici, spietati. Il sogno canadese, a differenza di quello americano, non ha nessuna sfumatura arcadica: bisogna essere freddi come il ghiaccio, nudi come la terra. E se necessario: lasciarsi eradicare. Scappare da una comfort zone che non esiste. Che non può esistere.
Bufali, bufale, e ancora tori
Ottawa si trova all’estremo opposto del Lago Ontario rispetto a Mississauga, dove all’interno di una chiesa c’è una placca che commemora il battesimo di Buffalo Bill. Non si è mai saputo se si tratti o meno di una leggenda metropolitana: di sicuro nelle vene di William Cody correva un po’ di sangue canadese, di sicuro il circo Barnum di cui era la vedette principale è passato per la cittadina nel 1897, cioè lo stesso anno in cui, durante una tournée europea, ha fatto tappa anche a Gand, in Belgio. In quell’occasione, i fondatori del KAA Gent si erano talmente innamorati dell’immaginario fatto di cowboy e pellirosse da inserire un nativo americano nel loro stemma.
Quando Jonathan David arriva a Gand ha diciassette anni. Abita in hotel con altri compagni di squadra, è ancora minorenne e i belgi non possono tesserarlo. Si allena con la squadra delle riserve, e a gennaio, appena compie 18 anni, viene aggregato con il gruppo di Vanderhaeghe, ma senza scendere in campo, né sedersi in panchina.
All’inizio della stagione 2018/19, alla seconda giornata, quando manca un quarto d’ora dalla fine della partita l’allenatore lo butta nella mischia: il Gent è sotto di un gol, non sembra esserci nulla da perdere. Al novantacinquesimo, Jonathan segna la sua prima rete in Europa.
Un esordio da favola, quindi. Cinque giorni più tardi, in Polonia, nell’andata dei preliminari di Europa League, segna il gol vittoria contro il Jagiellonia: imbastisce l’azione nella sua metà campo, poi taglia trasversalmente tutto il rettangolo per andarsi a prendere la conclusione, e segnare sulla ribattuta del portiere. Tre giorni più tardi segna la sua prima doppietta in campionato. E quattro giorni dopo, nel ritorno di Europa League, va ancora a segno.
Per ricapitolare: nelle sue prime quattro partite da professionista, in poco più di un’ora di gioco effettivo, Jonathan David ha collezionato quattro gol, che è un dato ridicolo, stucchevole se si fosse trattato della sceneggiatura di una serie tv sulla giovane stella che sbarca in Europa da una meta esotica e non necessariamente calciocentrica; e invece keep it real.
Come se non bastasse, un mesetto più tardi diventa il più giovane marcatore nella storia della Nazionale Canadese, segnando peraltro una doppietta contro le Isole Vergini Americane (ok, le Isole Vergini Americane, ma tant’è): un gol che avrebbe meritato anche un’esultanza un minimo più entusiasta, se solo non avessimo capito che tipo di calciatore è David.
A Ottobre del 2018, sulla panchina del Gent, siede Jesse Thorup. Il danese punta tantissimo sulla crescita di David, che in effetti sta lievitando, e gioca nella Jupiler League belga con la stessa disinvoltura con cui affronta le avversarie dell’area caraibica nordamericana nella Nations League. Intendo dire che scende in campo con l’Anderlecht come se si trattasse di Aruba, con il Bruges come fosse la Guyana, perché è un treno inarrestabile - nella misura in cui, praticamente da subito, lo è stato Alphonso Davies nel Bayern Monaco.
In Belgio, al termine di ogni giornata, al calciatore in testa alla classifica dei cannonieri viene consegnata una maglia celebrativa, tipo la maglia rosa a chi è in testa alla chiusura di ogni tappa del Tour de France. Funziona così anche per i migliori assistman: in quelle maglie celebrative, il numero è d’oro. In quella del capocannoniere, invece, c’è un toro d’oro in filigrana.
Jonathan la riceve al termine della stagione 2019/20, dopo aver segnato 7 reti in quattro partite (ma la conserverà solo per una settimana, scavalcato da Diemurci Mbokani). A quel punto della sua carriera è già stato il capocannoniere della Gold Cup (il torneo estivo della CONCACAF), il giocatore canadese dell’anno, è il secondo massimo cannoniere di tutti i tempi con la Nazionale della Foglia d’Acero, e ha diciannove anni. Per uno strano caso del destino, Dwayne De Rosario, che è in testa a quella speciale classifica, negli anni dell’esplosione di David sta giocando le sue ultime partite da professionista nella Lega di Calcio Indoor canadese a Mississauga.
È chiaro, a questo punto, che il Belgio, per David, è diventato uno stagno troppo piccolo. È altrettanto ovvio che nel suo futuro debba esserci un campionato più competitivo.
Lille, aka Hipsterland
La formazione de Les Dogues che Christophe Galtier assembla per la stagione 2020/21 è un caravanserraglio di giovani calciatori promettenti - e gli aggettivi possono essere declinati al superlativo: ci sono il portiere Maignan, il difensore Botman, i centrocampisti Yazici e Sanches. E poi Ikoné, Jonathan e Timothy Weah. Hanno tutti massimo ventiquattro anni. E poi ci sono giocatori esperti, come José Fonte, o Burak Yilmaz. Sono una buona squadra, ben assortita, ma nessuno crede possano arrivare a vincere il campionato.
Jonathan parte tra i titolari, ma l’ambientamento è più stentato del previsto, finisce per perdere il posto. Poi, a novembre, sembra sbloccarsi: in Europa League, con il Milan, serve a Yazici l’assist per l’ultimo gol della sua tripletta; si ripete a Lille, ancora un assist per Bamba. Nel mezzo, nella sfida di Ligue1 con il Lorient, segna il suo primo gol, dopo aver messo a sedere il marcatore con una finta, mesmerizzato il portiere avversario.
Ma è nel 2021 che l’esplosione diventa davvero deflagrante: inizia a giocare con una confidenza fuori proporzione, e soprattutto a segnare. Infonde alla squadra una scossa elettrica, fatta di dinamismo, di adrenalina, di potenza. L’infortunio di Yilmaz, l’evanescenza di Bamba, il calo di forma di Ikoné lo mettono nelle condizioni di prendere in mano l’attacco. E David, come sempre, non si fa trovare impreparato. Segna di giustezza, con opportunismo, con coraggio: il coraggio di tentare la soluzione, anche controintuitiva, di mettere alla prova le sue capacità, di esporsi.
Con lo Stade Brestois, per esempio: stop volante di sinistro con giro di 180 gradi alle spalle, e poi finta a eludere due avversari spostandosi il pallone con il tacco destro sul sinistro.
A Marsiglia segna una doppietta. A Parigi il gol vittoria. Si mette al servizio della squadra, mai un dribbling da arte per l’arte, un trick innecessario. Gioca in maniera associativa, facendosi trovare nel momento giusto nella posizione in cui serve. Fa valere la sua presenza fisica, perché è un giocatore forte fisicamente, nella difesa del possesso di palla, negli spazi stretti. E poi pressa: pressa come un ossesso, mulinando le gambe per recuperare una palla persa, o per scappare dalla morsa dei marcatori.
Quando gli chiedono dei suoi idoli, parla spesso di Ronaldinho: dice che ha sognato di giocare la Champions per la prima volta quando lo ha visto segnare quel gol con il Milan al Camp Nou, quello dell’elastico tra Gattuso e Nesta, del sinistro al fulmicotone. Eppure il gioco di David non esprime quasi mai quella joie de vivre, è sempre molto pragmatico, quadrato, intelligente. Poi, aggiunge, si ispira agli strappi di Henry, e alla furbizia di Eto’o, ai suoi tocchi di punta.
Jonathan David è un calciatore sorprendentemente fuori dagli standard del suo contesto. Un calciatore completo e - soprattutto - incredibilmente maturo.
Il gol che segna all’ultima giornata, aprendo le marcature contro l’Angers, spiana la strada alla vittoria di uno scudetto che per il Lille mancava da dieci anni. Il silenzio che lo accompagna, il silenzio della pandemia, del lockdown, degli stadi vuoti, sembra amplificare la sensazione di estrema pacatezza, e concretezza, che evoca il suo stare in campo.
La responsabilità dei sogni
Vincere uno scudetto a Lille, e poi ripetersi nella stagione successiva - dove ha già collezionato 12 gol -, raggiungere gli ottavi di Champions, paradossalmente, non sono neppure state le maggiori soddisfazioni nella carriera recente di David.
Con la Nazionale canadese, insieme a Cyle Larin, a Tajon Buchanan, ad Alphonso Davies, sta per strappare una qualificazione ai Mondiali che manca dal 1986. È la punta di diamante di un gruppo di giovani, architettato con cura da John Herdman, che sta ridisegnando l’immaginario del calcio in Canada, lo sta spogliando dai pregiudizi e gli sta facendo finalmente superare i complessi di inferiorità nei confronti dei vicini Stati Uniti.
Con la maglia della Nazionale fa esattamente tutto ciò che fa in Ligue1, ma con in più la consapevolezza - e la responsabilità - di cullare un sogno che trascende la vittoria di un campionato, forse addirittura il sogno di un cammino prepotente in Champions League.
A 22 anni, David può già vantare 20 gol e 11 assist in 27 presenze con la Nazionale. Non è solo l’attaccante più importante del presente canadese, ma è pronto a diventare il più importante di tutti i tempi. «Dobbiamo a tutti i costi qualificarci al Mondiale» ha detto «per rendere il calcio popolare. Dobbiamo approfittare di questo momento per farci seguire da tutto il movimento. Siamo consapevoli di essere la più talentuosa generazione della storia del calcio canadese».
Nella finestra di marzo, David ha l’opportunità di concretizzare la sua presenza al Mondiale qatariota. Due settimane prima, chissà, potrebbe aver proiettato il Lille ai quarti di Champions, con in mano lo scalpo dei campioni in carica. Jonathan David vive ogni momento animato da un’ossessione vera, eppure mai scomposta, folle, squilibrata.
«Non scusarti mai per aver inseguito la tua ossessione. Perché se eri lì, in quel momento, significa che quella era davvero la tua ossessione», sembra abbia detto una volta William Cody, Buffalo Bill, un altro partito dal Lago Ontario per conquistare il mondo.