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Tommaso Clerici
Jon Jones, ragazzo selvaggio
03 mar 2023
03 mar 2023
Un ritratto di uno dei più grandi fighter di sempre.
(di)
Tommaso Clerici
(foto)
IMAGO / Bildbyran
(foto) IMAGO / Bildbyran
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L’ennesima gomitata arriva dopo più di un minuto e mezzo passato a terra, con quel demonio in pantaloncini rossi e neri sopra, impegnato a schiacciarlo al suolo e scaricargli addosso i colpi dalla posizione di monta. Finalmente Mauricio Rua, che in quel preciso istante è ancora campione in carica dei pesi massimi leggeri UFC ed è già una leggenda delle MMA, trova il pertugio per rialzarsi, sopravvivendo a una nuova, pesantissima offensiva. Si mette in piedi ma è segnato in volto, sfinito: indietreggia in modo scomposto verso la parete della gabbia, mentre quel giovane lo insegue passeggiando in avanti, composto, senza farsi prendere dall’impeto. Lo osserva, studia la situazione. E quando gli arriva vicino sferra un montante sinistro al fegato tanto preciso quanto devastante che piega le gambe a Rua. Il campione in carica crolla, e mentre cade incassa anche un’ultima ginocchiata in volto. È l’atto finale, l’ultimo passo di una demolizione metodica. L’arbitro interrompe, Rua è sconfitto e cede la cintura a quel fighter così potente e preciso che sembra già dominante nonostante i suoi 23 anni, e che è appena diventato il campione UFC più giovane di sempre, record che tuttora gli appartiene. Appena capisce di avercela fatta Jon Jones cammina in silenzio a braccia aperte, poi si ferma e si lascia cadere sul tappeto dell’ottagono in un gesto liberatorio. Si siede a gambe incrociate e sorride alle telecamere. Sembra più sollevato che euforico, come se si aspettasse esattamente quel finale. D’altronde Jones aveva sempre saputo che quella sarebbe stata la sua sorte, tanto che anni dopo dirà: «Credo fermamente di essere nato per combattere. Sto vivendo il mio destino».

Atto primo – Jones. L’eroe Durante la composta esultanza sul pettorale destro di Jones spicca il tatuaggio “Philippians 4:13”, un passaggio della “Filippesi”, passo della Bibbia che rimanda alla frase: “Tutto posso in colui che mi dà la forza”, con riferimento a Gesù. Jon Jones, nome di battesimo Jonathan Dwight, nasce nel 1987 a Rochester nello Stato di New York in una famiglia religiosa che presto si trasferisce a Endicott, un piccolo comune nelle vicinanze. Jones cresce in un quartiere che lui stesso definisce “rispettabile”, proprio di fianco a uno piuttosto degradato. Suo padre Arthur è l’assistente di un pastore, mentre la madre Camille lo aiuta con l’attività in Chiesa, arrotondando come infermiera. Jones ha un fratello, Arthur Junior, e una sorella Carmen, maggiori e un fratello minore, Chandler. Arthur Junior e Chandler diventeranno dei giocatori di football di livello NFL, mentre Carmen muore a 17 anni per un tumore al cervello. Un momento drammatico per Jones, che più tardi deciderà di tatuarsi quel passo della “Filippesi” perché era il preferito della sorella. Anche la madre lo lascerà prematuramente, a 55 anni, a causa del diabete. Jones ha definito la sua famiglia come appartenente alla classe medio-bassa, lasciando intendere che ha sofferto di problemi economici ma sottolineando come siano sempre rimasti uniti; i genitori gli hanno sempre dato affetto e amore. Tuttavia nel 2021 Jones ha pubblicato un tweet, subito cancellato, rivelando di aver subìto molestie da bambino. Un tema che non ha più voluto approfondire. Suo padre Arthur avrebbe voluto per lui un futuro da pastore, e in seguito disapproverà la scelta del figlio di dedicarsi alle MMA. Ma d’altronde la famiglia è praticamente obbligata a spedire i figli maschi a fare sport per placare la loro esuberanza, scatenata in zuffe quotidiane, e dalla feroce competizione reciproca che li anima – alcuni sostengono che la forza d’animo di Jones venga da lì. Così da ragazzino prova a darsi al football, dove viene soprannominato “Bones” per via dell’altezza e della corporatura longilinea che ricorda, appunto, un osso di quelli lunghi. Scopre presto però di avere un talento notevole nel wrestling, disciplina in cui eccelleva anche suo padre da giovane. In realtà l’inizio è in salita, a causa della sua struttura fisica, ma grazie al duro lavoro Jones diventa uno dei migliori. Vince diverse, prestigiose competizioni a livello di college mentre studia diritto penale con l’idea di diventare poliziotto, anche se i libri non fanno per lui. Non si laureerà mai perché la sua fidanzata di quel periodo, Jessie Moses, rimasta al suo fianco fino a pochi mesi fa, gli rivela di essere incinta: a Jones servono soldi e la strada più pratica per guadagnarli gli sembra da subito il passaggio alle MMA. In seguito, in un’intervista a Bleacher Report racconterà di avere avuto un’altra figlia in precedenza, da una sua cara amica: «Avevo 19 anni, sono passato dall’essere un ragazzo pieno di sogni sul wrestling a sentirmi un fallito. I miei due fratelli facevano il college e si iniziava a parlare di NFL mentre io ero lì, ancora a casa, a lavorare come buttafuori in un locale, con una figlia e un’altra in arrivo. Mi sentivo come se nemmeno i miei genitori credessero più in me. Le uniche persone che mi hanno dato fiducia sono state Jessie e sua madre. Non potevo deluderle». In un’altra intervista Jones racconta di come la signora Moses sia stata una grande fonte d’ispirazione per lui, dato che è stata la prima persona a insegnargli ad essere ottimista, concentrandosi sui pensieri positivi per raggiungere i suoi obiettivi, sviluppando una dimensione spirituale che lo contraddistinguerà nella prima parte del suo successo: «Cercavo su YouTube video di motivatori e mental coach, mi scrivevo le loro frasi. Ho imparato a meditare, a capire il potere di visualizzare quello che potrebbe accaderti». Il suo approdo alle arti marziali miste avviene quasi per caso: un tizio che lo aveva visto alle gare di wrestling gli consiglia di provare le MMA nella palestra di suo cugino. Jones ricorda così quell’esperienza: «Me ne sono andato con un occhio nero e un sorriso enorme stampato in faccia. Sapevo di essere a casa». Il debutto da professionista risale all’aprile del 2008, e solo in quel mese Jones disputa e vince prima del limite tre match. Arriva in UFC ad agosto dello stesso anno con un record di 6 vittorie e nessuna sconfitta. Si aggiudica i primi due incontri per decisione unanime, il terzo lo conclude senza scomodare i giudici. Poi un incidente di percorso che macchia il suo record: la squalifica per gomitate illegali contro Matt Hamill registrata come una sconfitta. Jones in realtà stava dominando la sfida, ma non aveva ancora imparato i dettagli il regolamento: d’altronde era un fighter da poco più di un anno. Ma l’atleta americano non si abbatte e anzi vince i successivi tre match tra il primo e il secondo round contro nomi altisonanti come Brandon Vera e Ryan Bader, che finiscono letteralmente annientati da “Bones”.

L’esordio di Jones in UFC.

Arriviamo a marzo 2011: Jones sostituisce il compagno di team Rashad Evans, infortunato, nel match titolato contro Mauricio “Shogun” Rua. La mattina del giorno dell’incontro sventa una rapina mentre sta facendo running, la sera Jones si afferma definitivamente con una netta vittoria per TKO al terzo round, per poi cominciare una serie impressionante di difese del titolo che nessuno riuscirà più a strappargli. Il suo stile di combattimento mostra uno striking tanto creativo quanto efficace, con un massiccio ricorso ai calci, soprattutto quelli obliqui – una sua caratteristica peculiare – che prendono di mira il ginocchio dell’avversario e che rimandano ai precetti di Bruce Lee. “Bones” ha un controllo magistrale delle distanze, eccelle nel clinch, ovviamente nelle fasi di transizione grazie al wrestling, e anche a terra, dove è abile nel trovare la posizione migliore da cui scaricare colpi devastanti. È in grado di adattarsi alle situazioni grazie alla completezza del suo bagaglio tecnico e all’elevatissimo “fighting IQ” (il grado di intelligenza di un fighter quando combatte) che lo contraddistingue. Da subito viene definito come uno degli atleti più dinamici, innovativi e in continua evoluzione nella storia delle MMA. In passato è stato accusato di ricorrere volontariamente alle ditate negli occhi dei suoi avversari, ma lui ha sempre negato. Fresco di cintura, “Bones” supera due icone come Quinton “Rampage” Jackson e Lyoto Machida per sottomissione, in particolare quella contro Machida resta nella storia per brutalità ed efficacia. Jones strangola l’avversario con una ghigliottina mentre entrambi sono in piedi a parete; quando Machida ormai è svenuto l’arbitro interrompe il match. Allora Jones lascia completamente la presa, facendo crollare a terra l’avversario esanime. È una rappresentazione spietata e totale della sua superiorità su un altro essere umano.

La storia di Jones è anche un racconto di grandi rivalità, come ogni grande storia di sport che si rispetti. La prima è quella con l’ex compagno di team Evans, che lo accoglie in palestra come suo protetto, ma a cui “Bones” si ribella perché il ruolo di comprimario gli sta stretto. Ma riavvolgiamo il nastro: dopo la sua terza vittoria consecutiva in UFC, Jones sente il bisogno di alzare l’asticella e di cambiare team, trasferendosi alla Jackson Wink MMA Academy di Albuquerque, nel New Mexico, dove si allenano alcuni dei più forti fighter in circolazione, tra cui Evans. Inizialmente le cose tra i due sembrano andare bene, fino a quando Jones lo sostituisce per il match titolato contro Rua. Da lì il loro rapporto degenera tra le ambizioni di “Bones”, le sue risposte alla stampa che creano occasioni di scontro, l’addio di Evans al team e la rottura definitiva, sancita da Jones che dichiara: «Non è mai stato mio amico, è una serpe invidiosa». La risposta suona profetica: «Jones non è sincero né spontaneo, è un’altra persona rispetto a quello che mostra al pubblico. Non dico di più, ma con il tempo vedrete il vero Jon Jones. Non potrà nascondersi per sempre». Jones batte Evans per decisione unanime ad aprile 2012 e un mese dopo si schianta con la sua Bentley contro un palo: viene arrestato perché rifiuta di sottoporsi all’alcool test per poi dichiararsi colpevole di guida in stato d’ebbrezza, che gli costa la sospensione della patente per sei mesi. Poco dopo firma con Nike – è il primo fighter di sempre a farlo – e dice di voler diventare il Michael Jordan delle MMA. Vince i successivi quattro match, tra cui l’epica battaglia contro lo svedese Alexander Gustafsson, che mostra come in una serata no contro un avversario in stato di grazia anche Jones possa soffrire; in seguito supera un momento critico con UFC, costretta per la prima volta nella sua storia ad annullare un evento per un rifiuto di Jones a una proposta di short-notice che gli attira l’ira di Dana White. E così si arriva alla sfida con Daniel “DC” Cormier, la seconda, accesissima rivalità della carriera di Jones. Una contrapposizione vera, sincera, viscerale, lontana dalle messe in scena di showbusiness. Una rivalità personale, fisica ed emotiva, arrivata a costargli 50mila dollari di multa per una rissa davanti alla stampa riunita. I contrasti con Cormier hanno radici lontane. Nel 2010, quando si conoscono, Jones prende in giro Cormier, sostenendo di poterlo surclassare facilmente, e quello si offende. Raccontando l’episodio anni dopo dirà che era solo «il suo modo di fare nuove conoscenze». Cormier risponderà che insultare qualcuno non è la strada migliore per rompere il ghiaccio. Il destino li mette uno contro l’altro a UFC 182 a gennaio del 2015, quando Cormier sostituisce l’infortunato Gustafsson. All’evento stampa appena ricordato, degenerato in rissa, sembra che i due non riescano neanche a condividere lo stesso spazio, a respirare la stessa aria. Dopo l’accaduto Nike interrompe la collaborazione con Jones, una decisione che comporta dover rinunciare a entrate economiche a sei cifre. Lo scontro verbale è asprissimo, con Cormier che dichiara di voler sputare in faccia all’avversario, che gli risponde: «Lo sai che ti ucciderei se lo facessi, vero?». Cormier giudica Jones un falso, lo definisce un “camaleonte” per la sua capacità di trasformarsi dando il peggio di sé quando si accendono le telecamere. Sicuramente la distanza tra i due protagonisti, sia a livello di personalità che di personaggio pubblico, è abissale. Quando il match va in scena Jones batte Cormier per decisione unanime. Pochi giorni fa Jones sembra aver accantonato definitivamente l’astio, commentando la presenza di Cormier in cabina di commento per il suo prossimo impegno in gabbia: «Sono sicuro che Daniel farà un ottimo lavoro, sarà imparziale. Le persone cercano di renderci acerrimi nemici, ma è solo normale concorrenza. Al di fuori delle MMA non ho rancore nei suoi confronti. Anzi credo che se mai dovessimo sederci di fronte a chiacchierare diventeremmo grandi amici».

È una fase della vita di Jones in cui sembra sereno e realizzato. Le sfide lo esaltano, le vittorie lo rendono implacabile, la sua ascesa è travolgente. Tutto però cambia, Jones diventerà il peggior nemico di sé stesso. Nel 2013 un reporter di Bleacher Report lo segue per una giornata intera e lo descrive come un ragazzo maturo, educato, misurato, un atleta modello ossessionato dall’allenamento e dallo studio degli avversari, appassionato d’armi e di pick-up. In quel periodo Jones si tiene ben lontano dai giornalisti, si sa poco di lui e quello che traspare viene filtrato cercando di trasmettere un’immagine il più possibile positiva. In un’altra intervista si presenta così: «Mi sento la persona migliore del mondo. La chiave del mio successo è la mentalità. Le MMA hanno stimolato la mia creatività e con il tempo mi sono reso conto di avere un approccio psicologico unico verso il combattimento». Per Jones combattere bene richiede entusiasmo, bisogna avere «una mente fiduciosa e pacifica» per mettere il corpo nelle migliori condizioni possibili. Nelle sue parole esce fuori un uomo apparentemente felice, realizzato dentro e fuori dall’ottagono; il cui successo è dovuto a un approccio più olistico e spirituale di quello che riconosciamo di solito ai lottatori. Un atteggiamento che a posteriori lui stesso commenta così: «Penso che il mio problema quando è arrivato il successo sia stato il voler essere un santo a tutti i costi. Volevo essere davvero un esempio, un bravo ragazzo. Ma ai fan non importa davvero questo, l’importante è che tu non faccia cazzate». Jones, senza darlo a vedere all’inizio, ha sofferto la sovraesposizione derivata dal suo talento, temendo il giudizio che avrebbe avuto la gente di lui se ne avesse scoperto la vera natura. Atto secondo – Jon. L’antieroe Pochi giorni dopo il successo su Cormier e la menzione del suo nome nella lista dei trenta sportivi sotto i 30 anni più promettenti stilata da Forbes, la Commissione Atletica del Nevada diffonde la notizia della positività di Jones a un metabolita della cocaina, rilevata in un test effettuato un mese prima del match con Cormier. L’incontro non viene annullato perché la cocaina non rientra nelle sostanze vietate nei periodi lontani dalle competizioni. Jones annuncia il suo ingresso in una struttura di riabilitazione che lascia dopo una sola notte, e successivamente dichiara di non essere né cocainomane né un consumatore occasionale di quella droga, ma di aver commesso un errore stupido e di essere stato scoperto. Passano tre mesi e l’atleta UFC viene coinvolto in un incidente in cui ferisce una donna incinta dopo essere passato con il rosso. Jones scappa, consegnandosi alla polizia a distanza di ore. Nella sua macchina viene trovata della marijuana e i testimoni raccontano che Jones è ritornato sul luogo dell’incidente per prendere dei soldi prima di darsi alla fuga. Il giorno successivo UFC gli revoca la cintura e lo sospende a tempo indeterminato. L’ex campione si dichiara colpevole davanti ai giudici e viene condannato a 18 mesi di libertà vigilata, così UFC lo reinserisce nel suo roster. Su Twitter scrive: “Mi dispiace per tutti quelli che ho deluso, devo cercare molte risposte nella mia anima”. In seguito a questi episodi che ne minano l’immagine, Jones si espone in una lunga videointervista con Ariel Helwani in cui ammette i suoi errori, tra cui la dipendenza dalla marijuana e i periodi di festa sfrenata tra fumo e alcool. In quel momento appare di nuovo sereno, tranquillo, come se si fosse lasciato il passato alle spalle, pronto a ripartire più leggero e consapevole. Ma ecco che invece ci ricasca: viola il regime di pena che deve scontare e viene arrestato mentre oppone resistenza e offende gli agenti. Riesce comunque a tornare nell’ottagono, a 15 mesi di distanza dall’ultima volta. Batte Ovince St. Preux e si aggiudica il titolo ad interim. A questo punto viene fissato il rematch con Cormier che salta perché “Bones” ha di nuovo problemi con i controlli antidoping. Fallisce un test e quando la notizia esce fuori organizza una conferenza stampa in cui proclama la sua innocenza. Jones è alle corde, e se all’inizio aveva cercato di mantenersi a debita distanza dai media e dal pubblico, ora è più esposto che mai: mentre si giustifica e nega le accuse scoppia a piangere davanti ai cronisti. Il suo lato umano e personale più intimo emerge con una forza dirompente; appare come in balìa degli eventi, di cui ha perso le redini in brevissimo tempo. A indagini concluse “Bones” viene sospeso per un anno e viene accertato che le sostanze proibite trovate nel suo sangue derivano da un farmaco per la disfunzione erettile che l’atleta ammette di aver assunto ignorandone le conseguenze. UFC gli revoca di nuovo la cintura di categoria. Passano altri 15 mesi e Jones torna a combattere. Mette KO Cormier con uno spettacolare head kick che gli regala il titolo. A distanza di un mese UFC rivela la positività di Jones a uno steroide anabolizzante, per cui la vittoria contro Cormier viene trasformata in un No Contest e Jones perde ancora la cintura. Subisce una nuova sospensione di 15 mesi perché anche in questo caso pare che abbia assunto inconsapevolmente la sostanza, utilizzando degli integratori contaminati. Se gli organi di giudizio lo avessero giudicato colpevole di un’assunzione volontaria, Jones sarebbe stato squalificato per 4 anni.

A dicembre 2018 l’ex campione torna in azione nel rematch contro Gustafsson. Prima della sfida gli vengono trovate nel sangue tracce minime dello stesso steroide anabolizzante per cui ha scontato la squalifica, che probabilmente risalgono alla contaminazione di mesi addietro. UFC riesce a far combattere Jones spostando la location dell’evento - e quindi la Commissione Atletica annessa - e perché gli esperti medici concludono che non ci fosse nessuna prova di un’assunzione consapevole da parte sua e che, comunque, date le quantità non avrebbe avuto nessun vantaggio in termini di performance. Jones batte Gustafsson per KO al terzo round e torna campione. Le vicende con il doping si concludono qui, ma ormai l’opinione pubblica è polarizzata tra chi lo difende e chi lo reputa un imbroglione, un bugiardo patologico disposto a tutto per continuare a vincere. Nel 2019 Jones prevale su Anthony Smith e Thiago Santos, ma contro quest’ultimo sfodera una performance opaca. Tra un match e l’altro una cameriera di uno strip club lo denuncia: al rifiuto di un ballo sexy in privato Jones l’avrebbe stretta in una presa soffocante per baciarla sul collo e toccarle i genitali. In tribunale viene condannato a una pena alternativa al carcere. Nel 2020 batte Dominick Reyes per decisione unanime, ma i fan e i media criticano duramente il verdetto, sostenendo che in realtà avesse vinto Reyes. Successivamente dichiarerà di aver sottovalutato gli ultimi avversari per mancanza di stimoli. E infatti, dopo un altro arresto per aver sparato un colpo di pistola dalla sua auto mentre era ubriaco, Jones si dichiara insoddisfatto del trattamento economico che gli riserva UFC, reclama un match da antologia contro Israel Adesanya o Francis Ngannou, afferma di perdere sempre più interesse nelle MMA. Una convinzione che lo spinge a rinunciare volontariamente al titolo, che rende vacante. Intanto a settembre 2021, poche ore dopo la cerimonia per il suo inserimento nella Hall of Fame di UFC, viene arrestato con l’accusa di violenza domestica. Una delle figlie di Jones infatti chiede aiuto alla guardia dell’hotel in cui la famiglia alloggia per una lite tra i genitori, e quando la polizia arriva ferma l’ex campione UFC mentre cerca di scappare. Gli agenti trovano la fidanzata Jessie con sangue sul viso e sui vestiti e con un labbro gonfio: lei minimizza ammettendo un litigio ma negando la violenza. Intanto Jones, ubriaco e ammanettato, dà in escandescenze colpendo con una testata la macchina della polizia, insultando gli agenti, singhiozzando. Una scena che viene ripresa dalle telecamere di sicurezza e che diventa di dominio pubblico: è probabilmente il momento più basso della parabola di Jones. In tribunale, grazie alla collaborazione della compagna, resterà in piedi solo l’accusa di danneggiamento di un veicolo della polizia, per cui verrà condannato a una multa. Su Instagram scrive: “Ho troppi traumi per poter consumare alcool, il mio cervello semplicemente non ce la fa più. Lascerò l’alcool nel mio passato per sempre”.

Nel frattempo viene bandito dalla Jackson Wink MMA, la sua palestra di riferimento da anni. Infine lo scorso gennaio UFC annuncia finalmente l’approdo di Jones nei pesi massimi, pronto all’assalto della cintura contro Ciryl Gane dopo l’addio di Francis Ngannou alla promotion. Un incontro che andrà in scena questo sabato notte a UFC 285 e che è uno dei più attesi dell'anno.

Jon Jones è e rimane un personaggio unico sotto tanti punti di vista. Per molti è il GOAT delle MMA, il più forte di tutti i tempi. D’altronde dal 2011 al 2020 ha combattuto con in palio il titolo dei massimi leggeri, vincendo sempre. Per molti di questi anni è stato al primo posto nella classifica pound-for-pund di UFC, la lista dei fighter migliori tra tutte le categorie di peso. Sul Jones atleta c'è poco da discutere per quello che ha dimostrato nell'ottagono. Tuttavia le vicende legate al doping ne hanno minato le imprese agli occhi di molti, nonostante non abbiano toccato i suoi titoli. Per quanto fatto fuori dalla gabbia, il discorso è diverso. In molti, dai commentatori agli psicologi, hanno cercato di trovare una spiegazione ai suoi comportamenti. Jones è stato definito un sociopatico narcisista con un’immagine di sé falsa, una mentalità vittimista e una predisposizione alla perdita del controllo. Mike Tyson, uno che di problemi personali e di vita dissoluta se ne intende, ne ha parlato così: «Sono situazioni difficili da interpretare dall’esterno, vanno affrontate e tante persone non ce la farebbero. Però bisogna capire quando è troppo e fare un passo indietro, se no saranno le circostanze ad avere la meglio su di te. Penso che Jones sia stato un ragazzo selvaggio, come me quando ero giovane, ma si può imparare tanto dai propri errori. Devi riflettere su te stesso per scoprire chi sei veramente». Oggi Jones è un uomo di 36 anni, probabilmente ancora irrisolto. Ma sabato perlomeno sapremo se la sua classe è intatta. E chissà se a fine match lo vedremo esultare ancora in silenzio, a braccia aperte, come in quella magica notte della vittoria contro Rua, per poi lasciarsi cadere al centro dell’ottagono. Finalmente libero, il suo nome scolpito nella leggenda. Ma sempre alla ricerca della pace interiore, di un luogo in cui i suoi demoni non possano raggiungerlo.

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