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John McEnroe: l'impero della perfezione
22 mar 2019
Una delle esperienze estetiche più uniche nello sport, ben rappresentate dal film di Faraut.
(articolo)
12 min
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Pubblichiamo il riadattamento scritto del discorso di presentazione del film John McEnroe: in the realm of perfection, presentato a Mantova al Cinema del carbone in occasione del ciclo “Che storia, lo sport!”. Giovedì 28 marzo Dario Vismara presenterà Doin’ it in the park.

Il rapporto fra cinema e sport è stato, tranne rari casi, un rapporto problematico. E questo nonostante il cinema abbia sin dai suoi albori provato a raccontare e a rappresentare lo sport. Uno dei primi filmati del cinemascopio di Edison ritraeva due uomini fare boxe, con indosso dei calzoncini di una femminilità che oggi riterremmo scandalosa.

Il cinema però non è mai riuscito a trovare la giusta misura, forse anche per un problema strutturale. Lo sport si consuma nell’avvenimento in diretta, e anche le storie più clamorose finiscono per esaurirsi in pochi giorni, persino in poche ore. A quel punto il cinema è condannato a una funzione meramente celebrativa, o commemorativa, di imprese sportive o campioni, senza però riuscirne a trasmettere davvero l’immediatezza, la complessità. Come se i suoi mezzi fossero inadeguati, o se il linguaggio dell’uno fosse intraducibile in quello dell’altro.

Uno dei film sportivi più riusciti è disinteressato all’intento celebrativo o narrativo sullo sport, è uscito nel 2006 e si intitola Zidane: un ritratto del XXI secolo. Il film è stato girato da Darius Khondji ma è stato realizzato insieme agli artisti Douglas Gordon e Philippe Parreno, entrambi interessati all’arte performativa e alla riflessioni sul corpo, il tempo, la memoria.

Zidane viene ripreso da 17 macchine da presa mentre gioca la sua ultima partita con il Real Madrid, al Bernabeu contro il Villareal. Due di queste camere erano state prestate dall’esercito statunitense, le uniche a disporre di uno zoom così profondo. Il film restituisce bene la forma di astrazione che Zidane - come molti sportivi di alto livello - viveva sul terreno di gioco. Ci riesce introducendo nel cinema una dimensione che ha sempre faticato a introdurre nello sport, quella del corpo, della sua fatica, ma soprattutto della sua grazia misteriosa, che nel caso di Zidane era una forma d’arte.

Sentiamo Zidane ansimare, sentiamo i suoi passi sull’erba del campo, lo vediamo solo e, almeno all’apparenza, relativamente interessato alle cose che lo circondano, che gli scorrono attorno a un ritmo diverso dal suo. Poi lo vediamo farsi espellere a fine partita, all’improvviso (come una specie di anteprima/profezia dell’ultima partita della sua carriera, la finale del Mondiale con l’Italia).

Il film restituisce soprattutto un aspetto essenziale dello sport, che ne determina la sua potenza estetica nonostante rimanga quasi indescrivibile: cioè il gesto, il movimento di un corpo nello spazio, la sua presenza unica e irriducibile.

L’empire de la perfection parte da premesse molto simili. È stato presentato al festival di Berlino del 2018 ed ha avuto una genesi piuttosto peculiare: Julien Faraut, il regista, lavora come archivista all’istituto nazionale dello sport a Parigi, e lavorando ha scovato le registrazioni di Gil de Kermadec, ex direttore della Federazione francese di tennis. Nel film lo vediamo davanti agli scaffali di questi archivi con l’aria di chi è di fronte ad un tesoro dal valore tutto da definire.

Kermadec voleva creare dei video tecnici a scopo didattico da proiettare prima delle partite. Era però insoddisfatto del risultato: i movimenti dei tennisti non riuscivano a restituire esattamente quelli della realtà. Così ha iniziato un lavoro diverso, non riprendendo più la partita ma i tennisti singolarmente, isolati nel loro angolo di campo, cercando di scomporre i loro movimenti attraverso il ralenti, per capire finalmente il processo dietro ai loro colpi.

In particolare, Kermadec comincia a sviluppare un’ossessione per John McEnroe, e nel film vediamo montate insieme le riprese che gli sono state dedicate al Roland Garros del 1984.

John McEnroe è stato numero uno del mondo per quattro anni, ha vinto quattro US Open e tre Wimbledon. È stato uno dei tennisti più iconici della storia, di quei pochi che segnano un prima e un dopo nella loro disciplina. Eppure, nessuno di questi successi riesce a descrivere il perché John McEnroe sia stato - ed è tuttora attraverso i suoi filmati - una delle esperienze estetiche più uniche che lo sport possa mai offrirci. E non si può neanche ridurre questa esperienza al suo carattere irascibile, l’aspetto senza dubbio più famoso e anche più banalizzato. Bisogna parlare proprio del suo modo unico di stare in campo.

Come sappiamo, il tennis è uno sport fondato su un individualismo spietato, e per questo è forse lo sport più psicologico ed esistenziale di tutti. I tennisti sono costretti a risolvere equazioni complesse continuamente, e sfidare i propri limiti un punto dopo l’altro. Non si può parlare con nessuno (anzi: esiste il reato di coaching, se appunto il coach dà consigli dalla tribuna) e bisogna venire a capo da soli delle strategie e, soprattutto, delle proprie emozioni. Per questo ai tennisti è richiesta prima di tutto un’operazione preliminare: costruire una barriera fra sé e il mondo esterno, ma anche fra sé e la propria parte più fragile ed emotiva.

È il modello psicologico che associamo comunemente ai tennisti di successo: la loro capacità di astrazione, di vivere solo nel presente, di ragionare un punto alla volta, lasciando che il corpo reagisca attivando la memoria involontaria dei gesti come una seconda pelle.

Per questo David Foster Wallace aveva creato un’analogia, in Infinite Jest, fra gli alcolisti anonimi e i tennisti: un punto alla volta, come un giorno alla volta. L’iterazione continua e spersonalizzata dei gesti come forma di sopravvivenza.

Il primo tennista a riuscire nella scissione delle due parti del cervello è stato l’arci-rivale di McEnroe, ovvero Bjorn Borg. Lo svedese riusciva in maniera fenomenale a creare una barriera non solo fra sé e il mondo esterno, ma anche fra sé e la parte più emotiva e insicura di sé, e quindi a ragionare sempre un punto alla volta. Per McEnroe questo era semplicemente impossibile: se per gli altri il silenzio era la condizione essenziale per la concentrazione, per lui, come ha scritto Tim Adams (nel libro Essere John McEnroe, Mondadori): “Era come se il rumore bianco del mondo gli gravasse addosso”. Nel film lo vediamo gridare dentro le cuffie di un cameraman a bordocampo, per poi buttargliele per terra.

Per McEnroe una partita di tennis era davvero un inferno. Sulla sua autobiografia (Non puoi dire sul serio, Piemme) ha scritto: «Non vedevo l’ora di giocare, ma la partita in sé era una costante battaglia contro due avversari: l’altro giocatore e me stesso». Non aveva la freddezza glaciale e zen di Borg, ma neanche la naturalezza trascendentale di Federer o la concentrazione maniacale di Nadal. McEnroe era sempre a disagio, troppo spaventato che qualcosa, qualunque cosa, potesse compromettere i suoi sforzi verso la perfezione.

Certo, McEnroe non è stato il primo e non sarà l’ultimo maniaco del controllo su un campo da tennis. Anche Borg lo era, ma aveva un talento prezioso per uno sportivo: sapeva riconoscere le cose che non erano in suo controllo e le lasciava semplicemente andare. McEnroe era invece un maniaco del controllo assoluto.

E così vediamo McEnroe protestare all’infinito con il giudice di sedia, quello di linea, con i fotografi dietro il campo e i cameraman sugli spalti. Il film ce li mostra con un’insistenza che finisce quasi per darci la nausea. Per l’epoca fu una cosa di grande impatto: non si era mai visto un essere umano così angosciato e così pieno di tic praticare un’attività sportiva, figuriamoci poi il tennis, uno sport che celebra il proprio stoicismo.

McEnroe non riusciva semplicemente a vincere nonostante questa grande dispersione di energia nervosa, ma proprio grazie a questa. Come il film sottolinea, McEnroe distruggeva il momentum degli avversari, reinventando il tempo attorno alle proprie esigenze. Non lo faceva in maniera consapevole, altrimenti non sarebbe stato così espressivo e autentico nella sua indignazione. Al punto che Tom Hulce, il protagonista di Amadeus - il biopic su Mozart - ha dichiarato di essersi ispirato a McEnroe per il suo personaggio di ragazzino prodigio in aperto conflitto con gli adulti.

C’era infatti qualcosa di insopportabilmente adolescenziale nell’indignazione di McEnroe. In fondo solo gli adolescenti arrivano a credere con tale certezza che il mondo delle autorità ce l’abbia con loro. In una delle ultime scene - quando sbaglia un servizio decisivo contro Lendl - McEnroe si avvicina all’arbitro sconsolato non tanto per la sua chiamata, quanto perché sembra sentirsi vittima di un complotto nei suoi confronti.

Nel bellissimo Essere John McEnroe, Tim Adams ha paragonato McEnroe a Holden Caulfield: un rampollo della borghesia americana perennemente arrabbiato e in preda a un malessere esistenziale indefinibile. Guardando il film è impossibile non fare una riflessione per contrasto, e cioè come è che McEnroe è stato praticamente l’unico a riuscire a riversare all’esterno la propria emotività senza risentirne nelle prestazioni. E chiedersi quanto in fondo sia giusto che uno sport ad alti livelli costringa delle persone a mutilare una parte di sé per ottenere risultati. Quale idea di persona ci veicola.

In the realm of perfection ci mostra quanto il temperamento di McEnroe fosse strettamente legato al suo stile di gioco. Non sarebbe esistito l’uno senza l’altro. McEnroe giocava sul filo dei sensi, e viene naturale immaginarselo come una corda pronta a vibrare a qualsiasi stimolo ambientale. Emerge una grande fatica, un grande sforzo, e soprattutto una grande fragilità. Questo era l’unico modo per McEnroe di giocare a tennis, ed esprimere sé stesso come essere umano nei suoi lati più oscuri e più luminosi. Da questa fragilità nasceva il tennis miracoloso di McEnroe.

Per descrivere lo stile di McEnroe forse vale la pena citare una definizione di Borg: “McEnroe è il maestro dell’inatteso”. La sua forza era la straordinaria varietà dei colpi: non dava mai all’avversario una palla uguale all’altra. Prima di un colpo usava sempre la parte più creativa del cervello: «Mi piaceva prendere lo slancio con la racchetta per un forte dritto o un bel rovescio e poi, all’ultimo millesimo di secondo, tagliare piano la pallina e mandarla al di là della rete».

I primi fotogrammi di McEnroe, nel film, ce lo mostrano intento a provare il suo servizio sulla riga di fondo, al ralenti. È forse il colpo più iconico di McEnroe, quello che più di tutti riassume la sua grazie storta, l’armonia che riusciva a trovare dentro l’imperfezione, l’anti-convenzionale. McEnroe lo aveva brevettato per la prima volta in una partita in cui aveva un dolore lombare, poi aveva deciso di tenerlo, un po’ per una questione scaramantica, e un po’ perché sembrava sempre sorprendere gli avversari, che non riuscivano a leggerglielo e rimanevano sorpresi quando se lo vedevano piombare a rete. McEnroe prepara il movimento chiudendosi su sé stesso con aria spaventata, come per nascondere la palla agli avversari, poi mentre se la lancia in aria si flette all’indietro in diagonale, sempre un po’ storto, ma con una rilassatezza e un senso di libertà che non apparteneva al suo tennis nervoso.

In the realm of perfection ci mostra McEnroe colpire la palla tantissime volte, e è impossibile non notare quanto fosse diverso il tennis degli anni ’80: McEnroe sembra tenere in mano la racchetta come un oggetto spirituale, una specie di crisalide sempre sul punto di spezzarsi, troppo fragile per assorbire la pesantezza delle palline. Vediamo McEnroe interrompere i movimenti dei suoi colpi all’improvviso, togliergli l’aria e spezzarli come i danzatori di Pina Bausch, nel loro complicato equilibrio tra fragilità e forza.

Il film è disinteressato all’aspetto informativo, e quindi alla narrazione. Non vediamo nessun torneo se non il Roland Garros; vediamo a malapena McEnroe vincere o perdere, solo di sfuggita riusciamo a riconoscere qualche suo avversario. È un film interessato solo a farci vedere McEnroe colpire la palla e interagire con lo spazio, le regole e l’universo che il tennis gli ha costruito attorno come fosse una prigione. Come ha scritto il New Yorker: «È come se vedessimo Fred Astaire senza Ginger Rogers, perso nel delirio della sua arte».

Gil de Kermadec era ossessionato da tutto ciò che permette di vedere ciò che l’occhio non riesce a vedere. Quindi il cinema diventa uno strumento investigativo sulla realtà, come quando in Blow-Up il protagonista ricerca nella fotografia una forma più esatta e rivelativa dell’oggetto fotografato.

Gil de Kermadec nelle sue riprese ossessive su McEnroe era alla ricerca di una qualche verità profonda ed essenziale che restituisse il mistero del suo tennis, portando in fondo all’estremo quello che noi tutti facciamo quando guardiamo dei tennisti professionisti giocare dal vivo, ipnotizzati dal modo in cui fanno sembrare naturale qualcosa di onestamente folle. Viene in mente una frase di Boris Becker in riferimento agli spettatori: «Quelli non vogliono guardarti, vogliono possederti».

Quindi il film davvero finisce per raccontare due storie - come ha scritto Aldo Spiniello su Sentieri Selvaggi - quella di McEnroe e quella di Gil de Kermadec, entrambi ossessionati dalla perfezione e perciò condannati all’approssimazione.

Nel 1984 John McEnroe non è riuscito a concludere una stagione perfetta: giocherà 85 partite, ne perderà 3, ma una di queste - la sconfitta contro Ivan Lendl in finale del Roland Garros - rimarrà la più dolorosa della sua vita. Lendl è stato per molti aspetti la nemesi di McEnroe, persino più di Borg, per la freddezza calcolatrice del suo tennis, ottenuta apparentemente senza sforzi. McEnroe perderà la partita dopo essere stato in vantaggio di due set a zero, andando davvero vicino alla perfezione del suo tennis, per poi sciogliersi all’improvviso, come se il complicato equilibrio tra la sua interiorità e il mondo esterno si fosse per la prima volta spezzato: «Tutto all’improvviso è diventato una distrazione».

Un crollo spettacolare che ancora oggi perseguita McEnroe: «La scena di Lendl festante a fine partita mi torna come un incubo anche ad anni di distanza. Mi sveglia ogni anno quando sono a Parigi a commentare il Roland Garros - almeno una volta, più spesso due».

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