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Giulio Pecci
Quando Joe Frazier suonò in Irlanda
18 gen 2022
18 gen 2022
Una storia poco conosciuta del grande pugile statunitense.
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Giulio Pecci
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L’8 Marzo del 1971 Joe Frazier vince “la battaglia del secolo”. Sconfigge ai punti, cioè, e per decisione unanime, l’apparentemente invincibile Muahmmad Ali. È il primo incontro di una trilogia che ancora oggi rimane insuperata, vero e proprio scontro tra titani, un’opposizione che sfuma subito nella leggenda, nel mito. Frazier in quel momento è di conseguenza lo sportivo più importante sulla faccia della terra, un semidio dai muscoli granitici e l’aria un po’ sempliciotta: campione indiscusso di uno degli sport più antichi, nella categoria di peso di maggior prestigio. Quello che forse non sapete è che pochi mesi dopo quell'incontro Frazier andò in Irlanda per un tour con la sua band. Com’è possibile, vi starete chiedendo? La risposta ha a che fare con la musica, il soul, e quella spinta verso il mondo dello spettacolo che sembra essere un tratto comune alla maggior parte dei pugili di ogni epoca.


 

Frazier iniziò ad esibirsi con il suo gruppo, puntualmente chiamato The Knockouts, già alla fine degli anni sessanta. La passione per la musica è intrinseca alla sua famiglia, composta da uomini e donne di chiesa della Carolina del Sud - uno degli stati americani storicamente più razzisti e in cui il ruolo sociale svolto dalla congregazioni religiose era fondamentale per la comunità afroamericana. Nelle chiese si cantava, nelle famiglie si cantava: la musica era un mezzo di sollievo e tensione verso sfere più alte di quelle terrene, annichilite dalla brutalità sistematica del razzismo; ma anche un potente collante umano, un modo di fare comunità e comunicare con gli altri. Dagli inni e i gospel d’infanzia al soul, la sua versione “profana”, il passo è abbastanza breve. Il successo, anche commerciale, della musica afroamericana di quegli anni si sposò in modo naturale con la traiettoria sportiva ascendente del giovane Frazier.


 

Nel 1964 il pugile nato a Beaufort vince la medaglia d’oro ai giochi olimpici di Tokyo. Per capirci, solamente nel 1964 negli Stati Uniti uscivano Where Did Our Love Go delle Supremes; Meet the Temptations dei Temptations; Ain’t That Good News di Sam Cooke; Under the Boardwalk dei Drifters. La vittoria olimpica ovviamente lo carica di aspettative enormi e infatti Frazier diventa professionista e inizia un percorso costellato di KO e scelte assennate che lo vede diventare campione del mondo il 16 febbraio del 1970, sconfiggendo l’ottimo Jimmy Ellis.


 

Il giorno prima della battaglia di quell'incontro è all’Ed Sullivan Show (sì, esatto, il giorno prima un incontro tra pesi massimi per un titolo mondiale) per cantare quella che è un po’ la sua hit: Knock On Wood - cover di un fortunato singolo scritto da Eddie Floyd e Steve Cropper qualche anno prima. La voce impastata del leggendario conduttore americano lo introduce come “il più giovane di sette fratelli di una famiglia con quindici bambini”; ricorda poi la vittoria alle Olimpiadi e l’appuntamento della sera seguente con l’incontro per il titolo.


 


Lo stacco della telecamera alla fine della presentazione regala l’inquadratura di una vestaglia in raso nero con su scritto “Singing Joe Frazier”. Il pugile sprinta subito verso il palco allestito per l’occasione: un ring, ai piedi del quale è posizionata la band. È paradossale, ma osservarlo su un “palco” in completo nero con doppio petto e camicia rosa invece che su un ring in pantaloncini e a torso nudo gli toglie grazia. Il sudore non è più una patina lucida che lo fa splendere come un dio e che ad ogni colpo schizza come fuoco dalla bocca di un drago, ma diventa il miele appiccicoso a cui siamo tutti abituati. La sua stazza imponente risulta quasi fuori luogo e caricaturale, costretta a trovare posto in tutta quella stoffa. Le mani attorno ad un microfono invece che incastrate nei guantoni di pelle, le movenze goffe, scattanti e poco fluide al ritmo di musica che tradiscono la sua reale professione: sembra un leone che prova a ballare il tip tap con indosso dei jeans. La sua voce non è terribile, anzi, a tratti risulta anche piacevole. Ha l’intelligenza di evitare di strafare, rimanendo molto neutro durante tutta la durata del brano. Alla fine dell’esibizione Frazier viene raggiunto sul palco/ring da Sullivan. Sembra sfinito: il faccione è imperlato di sudore, parla combattendo un fiatone evidentissimo e francamente incomprensibile, dovuto forse all’emozione o allo sforzo fisico - in ogni caso un tratto meravigliosamente incongruo e umano per un enorme peso massimo campione del mondo in divenire. Qualcuno direbbe che bastano questi secondi per capire che non sarebbe mai potuto uscire vincitore dalle battaglie con Ali, dal punto di vista mediatico e psicologico.


 

Guardando l’impacciata esibizione viene in mente l’imbolsito Jake La Motta di De Niro in “Toro Scatenato” quando, dopo il ritiro, dal palco del suo locale riflette con nostalgia su quanto dura sia stata la sua carriera. “Datemi un’arena già che il toro si scatena. Perché oltre al pugilato sono attore raffinato. Questo è spettacolo”. Uno spettacolo abbastanza mediocre, nel caso del pugile italo-americano addirittura triste. I pugili spesso sentono la necessità di inseguire gli alti mostruosi cui possono arrivare grazie allo sport anche fuori dal ring. Forse è perché la boxe modella il tuo fisico in una scultura, ti rende forte e resistente come un toro, capace di spegnere il cervello di un altro essere umano con la forza di un solo pugno. Insomma, quando le cose vanno bene, è forse la forma umana più vicina a quella di un supereroe - quando si vince su grandi palcoscenici quindi l’ubriacatura raggiunge picchi che probabilmente non possiamo comprendere. Inseguire quegli alti per tanti diventa la condanna verso il basso, verso l’abuso di sostanze, la violenza gratuita; per altri significa imbarcarsi in progetti improbabili, anche lontanissimi da ciò per cui si è conosciuti e in cui si è capaci.


 

È più o meno quello che è successo a Joe Frazier in Irlanda. Non che negli Stati Uniti i suoi concerti fossero i più richiesti e presenziati, anzi. Le recensioni della sua musica e delle sue esibizioni oscillavano tra la benevola indifferenza e la stroncatura creativa. Celebre quella del giornalista sportivo americano Red Smith: “[Frazier] suona come utensili da cucina che cadono giù dalle scale”. Oltre all'Irlanda, anche le altre date europee - come Berlino e Amsterdam - non furono entusiasmanti. Ma la debacle irlandese raggiunge picchi da commedia dell’arte: concerti davanti a una manciata di persone, interviste snobbate, ritardi catastrofici, incontri con le autorità locali puntualmente mancati e perfino la tragedia sfiorata.


 

Il gruppo va a Derry, Donegal, Castlebar, Castlerea, Dublin, Limerick, Tralee, Youghal, Cork, a Belfast. In quest’ultima città uno dei membri della band, Lester Freeman, ha ricordato come vennero fermati da un paio di truppe britanniche mentre erano sulla loro Rolls-Royce. “Stavamo guidando sulla strada e la polizia ci ha fermato e ha chiesto: 'Cosa sta succedendo?’. Penso che volessero controllare tutti, quindi ci hanno detto di scendere dall'auto. Joe ha detto: "Non esco da nessuna macchina, amico, non esco da nessuna macchina". Poi ha visto le loro pistole ed è saltato fuori con entrambe le mani in aria”. A Castlerea furono costretti ad essere scortati dalla polizia per entrare nel locale, preso d’assalto da spettatori che cercarono di strappare Frazier fuori dalla sua auto e con nessuna intenzione di pagare il caro prezzo dei biglietti.


 

Anche questo fu un tema. I cachet richiesti da Frazier erano così alti da vedere costretti i promoter ad alzare il prezzo dei biglietti ben oltre il normale. Un problema per due motivi: gli irlandesi volevano vedere un campione del mondo e conoscevano bene il soul e il funk. Insomma: era Frazier che volevano vedere, non un cantante soul. Dalla fine degli anni sessanta in Inghilterra e poi nel Regno Unito, soprattutto in Irlanda, prese piede il movimento del Northern Soul. A Londra e nel sud del paese ci si perdeva tra la musica e i consumi psichedelici di giovani ricchi frequentatori di college d’arte. Nel più povero nord, il soul fu adottato e interiorizzato quasi per reazione, trovando anche una forte identificazione con le tematiche comunitarie e sociali afroamericane di cui il genere è da sempre interprete. Le cantine, le case e i locali di Manchester o Birmingham iniziarono ad animarsi in modo sorprendentemente simile alle chiese battiste del sud degli Stati Uniti: la gente ballava, si incontrava, si astraeva dalla realtà concedendosi slanci vitali quasi artificiali, ma forse per questo ancor più potenti e desiderati.


 

Lo racconta bene The Commitments, libro di Roddy Doyle e poi fortunato film di Alan Parker - storia di uno spiantato gruppo di soul nella depressa Dublino degli anni ottanta. Per capire il grado di identificazione sciamanica e di potenza evocativa della musica basta ricordare due diverse citazioni: “Il soul è la musica che le persone capiscono. Certo è molto semplice. Ma è incredibile perché è onesto. […] Sicuramente c'è un sacco di musica diversa con cui puoi divertirti, ma il soul è più di questo. Ti porta da qualche altra parte. Ti prende per le palle e ti solleva sopra la merda”. Ma soprattutto quella che è diventata un po’ la tag line del film “Gli irlandesi sono i neri d'Europa. E i dublinesi sono i neri d'Irlanda. E i dublinesi del Northside sono i neri di Dublino. Quindi dillo e dillo ad alta voce: sono nero e me ne vanto”.



Purtroppo, però, Frazier questo spirito non lo incontrò. Anzi, come scrive con un’ironica iperbole Gavin Cooney su The42 “sei giorni in Irlanda inflissero a Joe Frazier un tipo di subbuglio interiore che non riuscì ad infliggergli neanche Ali”. Cooney forse esagera, ma è vero che il colossale fallimento di questo tour ci racconta qualcosa di più della storia di Frazier, che va molto oltre alla sola rivalità con Ali.


 

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