Dieci
Trovare aggettivi da affiancare al nome di João Pedro Geraldino dos Santos Galvão non è affatto un’operazione semplice, bisogna saper restare in equilibrio tra il sublime e la mediocrità, senza mai sbilanciarsi troppo da uno dei due lati.Ne sceglierò perciò uno, solo apparentemente banale. João Pedro è un po’ come la sua posizione in campo, è medio: più nel senso della locuzione latina in cui sta la virtù (in medio stat virtus) che in quello dell’ordinarietà grigia. Essere “medio” pur vestendo la numero 10 non è un difetto, ma un pregio, cioè.
A complicare le cose è proprio la narrativa legata ai Numeri Dieci, talenti preziosi e spesso indolenti. Nel “Vocabolario sardo-logudorese/Italiano” di Pietro Casu, compare una parola che sembra tagliata per descrivere il distacco di certi trequartisti indolenti. Quella parola è Mandròne: agg. e sost. pigro, poltrone, ozioso, sfaccendato. It’omine mandrone.
Basta pensare, per restare in terra sarda, alla nobile indolenza del “Principe” Francescoli, o a quella più da bohemiènne di Fabián O’Neill: una caratteristica comune a molti grandi talenti è proprio questa specie di volontà di non eccellere oltre misura, di non piegarsi all’imperativo della costanza o dell’efficacia. Ma l’indolenza di João Pedro, la sua “svogliatezza”, è più intimamente legata al riconoscimento dei propri limiti, del confine oltre il quale non è che sia proibito avventurarsi. È come se João Pedro avesse quella che in effetti è un virtù rarissima nei calciatori, specie in quelli dotati del talento da Numero Dieci: riconoscere i propri limiti.
I suoi tifosi, oltre che “Geppo”, lo chiamano “Pippero”, un omaggio simpatico ai suoi giorni meno entusiasmanti. A me João Pedro fa sempre venire in mente una canzone non troppo conosciuta di Nicola Di Bari in cui la voce narrante ammette con una sincerità che non suona mai commiserata «non ho brillato neanche un giorno in vita mia», e poi nella seconda strofa si augura «verrà forse il giorno che qualcuno scriverà parole belle anche per me», ma senza aspettarselo troppo: insomma, se càpita ben venga, ma ti pare. Ovviamente è un’iperbole, perché il personaggio della canzone di Di Bari, proprio come João Pedro, sa perfettamente di brillare, e di meritarsi le parole belle, ma con umiltà si ridimensiona.
D’altra parte, non è che tutti gli eroi mettono a ferro e fuoco Troia o spingono Didone a suicidarsi: Aristeo, il mitologico eroe al quale viene ascritta la fondazione di Cagliari, per esempio, si limitava a vigilare sui greggi e coltivare api. Così come Aristeo, João Pedro è un eroe minore, uno di quei calciatori bravi a fare molte cose ma eccellenti in nessuna: un atleta talentuoso ma privo di quella scintilla capace di farlo schizzare nell’iperspazio del prodigio.
Sto cercando di portarvi con tutte le mie forze a vedere Pedro dal mio stesso punto di vista, quello dal quale ogni sua partita è un tentativo di uscire dai confini dell’anonimato di largo respiro e, al tempo stesso, una performance con la quale rivendica la cittadinanza nel popolino indistinto della storia del calcio.
Questione di cortociruiti sbagliati?
A Cagliari ormai da cinque anni, un tempo sufficiente per assorbirne tutta l’inflessione dialettale, João Pedro è arrivato in Italia nel 2010, tesserato dal Palermo. Se abbiamo un problema interpretativo con João Pedro oggi, le cause sono tutti in quell’estate post-Mondiale, più precisamente dal giorno in cui, con lo sguardo timido, si è presentato alla conferenza stampa della sua presentazione. Pur capendo poco il portoghese, l’impressione è che quel ragazzo neppure ventenne si sforzasse di dare risposte molto articolate alle domande, risposte però banalizzate dalla tendenza del traduttore simultaneo a liquidarle con frasi di circostanza.
João Pedro è nato a Ipatinga: come Amantino Mancini, come Kerlon “Foquinha”. Ma condividere il luogo natale non conferisce nessun passaporto della fantasia.
Quando gli chiedono in che ruolo preferisca giocare, João Pedro si confessa centrocampista puro. La sua è una categoria concettuale astratta, ecumenica: dice che il centrocampo è la zona più importante, in cui si sviluppa il gioco di una squadra. Per questo, il suo posto è là.
Qualche mese prima di quella conferenza stampa, João Pedro ha giocato il Mondiale U-17 in Nigeria. In quel Brasile c’erano anche Alisson, Coutinho, Wellington e soprattutto Neymar. Nella Seleçao U-17 João Pedro aveva giocato due partite da doble pivote, preferito anche a un certo Casemiro, anche se col senno di poi dirà che in realtà in quel ruolo era adattato. Dirà che aveva dovuto retrocedere il suo campo d’azione perché sulla trequarti c’era troppa qualità. Il che ci dice essenzialmente due cose: che João Pedro è sempre stato un calciatore duttile, innanzitutto; e che è sempre stato umile. Ma ci dice anche che non era il migliore della sua generazione, come trequartista.
Un gol con l’Atletico Mineiro Sub20, da ala sinistra, che nel 2010 era ancora una legittimazione a farsi certi tipi di viaggi mentali.
Del giovane João Pedro si capiva perfettamente che non era l’uomo cui affidare le sorti offensive della squadra. Si diceva che, nato centravanti, sulla fascia l’avesse spostato Vanderlei Luxemburgo: eppure nessuno, forse addirittura neppure lui, aveva chiaro dove avrebbe potuto giocare. E il fatto che non esistesse un ruolo naturale per lui, di contro, faceva sì che tutti i ruoli gli si potessero potenzialmente cucire addosso.
«È il miglior centrocampista brasiliano della sua età», diceva Zamparini, che si auspicava di aver trovato in lui «il nuovo Kakà». João Pedro, insomma, aveva tutte le carte in regola per fallire clamorosamente. Ma erano anche gli anni in cui il presidente aveva estratto da un cilindro il coniglio dalle fattezze sinuose di Javier Pastore.
La miglior performance di brasilianità di João Pedro?
Oggi che João Pedro ha ventisei anni lo abbiamo capito, che non era il nuovo Kakà, che non avesse nessuna delle caratteristiche tecniche e tattiche per somigliare a Kakà. Lui sostiene che giocare da trequartista lo esalta, che gli piace il fatto che i compagni lo cerchino con costanza, ammette di aver preso la 10, a Cagliari, perché quello è il suo ruolo: ma è una semplificazione che non ci aiuta, perché il vero ruolo di João Pedro è nessuno in particolare, e quindi tutti quelli possibili nel centrocampo. Si dice spesso che alcuni giocatori possono giocare in più posizioni, ma nel suo caso dovremmo parlare più di un’inadeguatezza di fondo per ricoprire in maniera completa le funzioni di un determinato ruolo, abbinata con una qualità, un talento, decisamente fuori dalla media.
Dopo una parentesi davvero negativa al Vitoria Guimaraes, in cui arriva in prestito e si fa cacciare per aver perso la ragione dopo una sostituzione (con tanto di rimbrotto live da parte del vicepresidente della squadra), viene girato al Peñarol, in Uruguay.
Ábel Hernández, che allora era un talento scintillante, da Palermo rassicurava i connazionali: «è il tipico brasiliano: ottima tecnica, gli piacciono i duelli uno contro uno, ha un buon tiro». João Pedro, così come lo raccontava Ábel, assumeva i connotati del cliché, in cui peraltro lui stesso si trova piuttosto a suo agio: come quella volta in cui ha cercato un gol “olimpico” in un derby di Montevideo.
Quando il Santos lo ha acquistato nel 2012, per sopperire alla mancanza di Ganso e Neymar convocati per le Olimpiadi di Londra, João Pedro sembrava un calciatore maturo. La parentesi al Peixe, invece, finirà per definirlo una volta per tutte: nel peso specifico tecnico, e nelle ambizioni. Alla presentazione dice che gli piace giocare in impostazione, nelle retrovie, da pivot: forse perché è spaventato dalla concorrenza sulla trequarti, che è discretamente agguerrita visto che con il Santos in quel periodo giocano Elano e Luis Felipe. «Neymar è il più forte con cui abbia lavorato», dice oggi. «Mi mandava in porta, ma non segnavo».
Alla fine, nonostante le premesse, giocherà pochissimo: il presidente del Santos, dopo un semestre, lo scarica all’Estoril, in Portogallo, ammettendo di non ricordare neppure il suo nome per intero. Lì lo nota Marroccu, il ds del Cagliari che ha appena cambiato gestione, passando dalle mani di Cellino a quelle di Giulini. Zeman si era invaghito di lui, lo aveva fortemente voluto, forse proprio per la sua duttilità. Con il boemo, João Pedro si presenta in amichevole con una tripletta, poi giocherà da mezzala un campionato al termine del quale il Cagliari retrocederà.
Il proprio posto nel mondo
Nella stagione disputata in serie B, João Pedro è stato molto più a suo agio. Nella serie cadetta poteva fare la differenza, e spesso la faceva. Massimo Rastelli è stato il primo ad accorgersene, e il primo ad affidargli l’investitura di leader, silenzioso e dimesso quanto volete: gli ha insegnato trucchi e movimenti, come lui stesso dice lo faceva «muovere tra le linee», «cercare spazi», senza dare punti di riferimento.
Lo ha schierato da trequartista, esterno d’attacco, mezzala. Ha sublimato la sua rapidità, l’efficacia nei contrasti offensivi, ne ha tirato a lucido la capacità e il tempismo negli inserimenti. In quella stagione João Pedro ha segnato 13 gol, che lo hanno consacrato come secondo cannoniere della squadra, e 7 assist.
Un classico movimento di João Pedro, quando parte dal basso: impostazione e inserimento tra le linee avversarie.
In quella stagione non era più João Pedro, il suo talento, a essere inafferrabile, quanto il suo modo di giocare, per gli avversari. João Pedro è diventato un giocatore che possiamo trovare ovunque, in un dato momento della partita, senza che scompaia mai veramente. Scende fin nella trequarti difensiva per impostare, per prendersi il pallone e verticalizzare; poi all’interno della stessa partita si trova a fare il centravanti ombra, o ad amministrare il possesso con una tecnica non celestiale ma cristallina, con un uso del corpo - che non sprigiona onnipotenza, un corpo tutto sommato normale - che gli consente di difendere la palla e innescare gli inserimenti dei compagni.
A volte fa anche da seconda punta, dove può svariare su tutto il fronte, quasi a nascondersi. Non sembra mai avere l’urgenza di dimostrare il proprio talento: l’unico retaggio che conserva di questa impostazione brasiliana, nel senso forse che voleva dargli Hernandez, è il tiro a giro, di destro, dal limite dell’area, una parabola che cerca con l'insistenza dell’esercizio ripetuto, finalizzato a raffinare un’arte intima. Questo è uno dei meglio riusciti, contro il Bari, nella stagione della serie B: forse svetta sugli altri perché è impreziosito da una preparazione sontuosa, inaugurata da uno stop petto volante e un controllo a seguire d’esterno, prima del tiro vero e proprio.
I suoi giochi di gamba non sono mai funambolici, non ha la malattia del dribbling spettacolare: sono dribbling funzionali, semplicemente, a mettere il pallone nelle condizioni di essere portato avanti, oltre l’ostacolo-avversario. Nei suoi strappi non c’è l’eleganza della volpe che lancia la volata in una battuta di caccia, ma la semplicità spicciola, bucolica, dei trattori che si trascinano dietro un carico zavorrato nelle gare di Tractor Pulling. Negli anni ha affinato il suo modo di stare in campo per sottrazione: meno azioni offensive dentro l’area, più tiri dalla distanza, meno dribbling, ma anche meno tackle. Il tempismo negli inserimenti: quello è rimasto invariato.
João Pedro ha iniziato questo campionato in corsa. In ritardo, anzi. Alla quarta giornata, in casa con il Milan, è tornato ed è subito andato in gol: aveva appena finito di scontare sei mesi di squalifica.
A rimorchio, un po’ nell’ombra.
È tornato però subito al centro del nuovo Cagliari di Maran, che era alla disperata ricerca di un trequartista per far funzionare il proprio rombo di centrocampo. Sembrava scontato che potesse farlo Joao Pedro, nello stesso ruolo che aveva ricoperto con Rastelli, ma dopo qualche giornata Maran ha trovato un abito tattico più ibrido. Joao Pedro che parte da seconda punta, ma che si scambia spesso la posizione con Castro, posizionato trequartista. In questo modo Joao Pedro può fare il lavoro sporco, mettendosi a disposizione di un giocatore con più talento di lui come Castro. Una buona metafora della sua carriera.
A tenerlo lontano all'inizio dell'anno è stato l’idroclorotiazide, un diuretico rilevato durante un controllo antidoping lo scorso febbraio, ma anche, a credere alle sue parole, l’ingenuità. «Mi sono affidato a uno dei migliori medici di nutrizione sportiva in Brasile, che mi ha prescritto degli integratori leciti, preparati da una rinomata farmacia brasiliana», ha confessato. E a colpire maggiormente sono state le parole a cui, nella lettera aperta in cui forniva la sua spiegazione, ha affidato la premessa: «Non sarò il miglior giocatore del mondo, ma ho sempre dato il meglio di me».
Essere João Pedro è questo: riconoscere i propri limiti ma non restringere il proprio campo d’azione, stare al proprio posto e allo stesso tempo combattere per non perderlo. Senza medaglie al valore, né trofei da ostentare, per ora, se non la propria straordinaria normalità.