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Di immagini di Jim Thorpe ai Giochi del 1912, ne esistono una manciata. Una fotografia, famosa, lo immortala all’Olympiastadion mentre ai piedi ha due scarpe diverse, con cui ha appena corso i 1500 metri nella finale del Decathlon. Subito prima della gara, andando a prendere il borsone, aveva scoperto che il suo paio era stato rubato. In fretta, nello spogliatoio era riuscito a trovare una scarpa e un’altra l’aveva recuperata da un bidone dell’immondizia. Nonostante la figura ben dritta, le mani puntate ai fianchi, nella foto Thorpe dà un’impressione di scompostezza: oltre ai capelli in disordine e ai modelli diversi di scarpe, ci sono i calzini spaiati che indossa. Uno è corto e scuro, l’altro bianco e più lungo, di rinforzo per aggiustare la misura troppo larga di una scarpa. In queste condizioni a Stoccolma ha svolto l’ultima delle dieci prove del Decathlon, e l’ha vinta con un tempo straordinario.
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Indossava una tuta da lavoro sopra una camicia di denim, e un paio di scarpe trovate in palestra che appartenevano a qualcun altro, quando si mise in testa di fare il suo primo salto in alto, a Carlisle. «Sembravo tutto tranne che un saltatore in alto», ammetterà. Chiese di poter provare lo stesso, lui che era appena entrato a scuola dopo gli anni di lavori domestici per le famiglie dei dintorni. Era un pomeriggio qualsiasi di primavera, nel 1907, e la disciplina ancora non aveva trovato di meglio per saltare che la tecnica delle sforbiciate. Un gruppo di atleti smise gli esercizi per guardarlo, da branco rise un po’ di lui. Thorpe corse incontro all’asticella, staccò, e al momento di atterrare (l’urto dei piedi, l’asticella lì al suo posto) aveva appena superato il record scolastico nel salto in alto. Venne avvisato l’Athletic Director, Pop Warner, che il giorno dopo affrontò il ragazzo. Era il primo vero contatto tra loro: «Ti rendi conto di cos’hai fatto?», «Niente di male, spero», rispose Thorpe. Subito fu inserito nella squadra di atletica.
L’anno seguente, con la c di Carlisle sul petto, la stessa con cui si sarebbe allenato a Stoccolma a ridosso delle gare olimpiche, Thorpe si aggiudicò il salto in alto nei prestigiosissimi Penn Relays di Philadelphia. L’altezza era la stessa raggiunta da un altro atleta, così venne lanciata una moneta per decretare il vincitore, e Thorpe ebbe fortuna. Pochi anni dopo, su un nichelino da cinque centesimi che verrà detto «testa d’indiano», sarà raffigurato il profilo di un nativo – la prima rappresentazione di un nativo americano su denaro statunitense. E nel 2018 sarà Jim Thorpe a comparire su una moneta degli Stati Uniti: una composizione ne accosterà il volto alla sua figura che salta un ostacolo ai Giochi e che stringe un pallone da football con la c di Carlisle sul petto. La moneta varrà un dollaro, sarà fatta perlopiù di rame e una delle due zecche a coniarla sarà proprio quella di Philadelphia.
Al rientro a Carlisle dopo i Penn Relays del 1908, i suoi compagni di classe piantarono un ippocastano e gli diedero il nome «Thorpe». Nei mesi successivi, vinse gare giovanili di ostacoli alti e bassi, di salto in alto, salto in lungo e lancio del martello. A ventun anni la trasversalità del suo talento sportivo veniva fuori, tutto gli riusciva agevolmente. Anche senza considerare il football e l’atletica, a Carlisle fu capitano della rappresentativa di basket, fece parte della squadra di lacrosse, si dimostrò un bravo nuotatore e un formidabile giocatore di biliardo, e brillò nel tennis, nella pallamano, nell’hockey e nel canottaggio. «In ogni sport, è sempre alla ricerca di nuovi stimoli», osservava Pop Warner nel 1911. E parlava di una meravigliosa capacità di concentrazione, che Thorpe metteva in ogni movimento.
Gli bastava che ci fossero attività fisica e competizione. Lungo la sua vita tumultuosa, è la traccia che si dipana da quand’era un bambino. Lo stesso spirito si estende anche a una gara di ballo di two-step senza pretese, durante un ricevimento studentesco di Carlisle, una gara che Thorpe vincerà pochi mesi dopo i Giochi 1912.
Dopo la scuola e a conferma degli ori nelle multiple di Stoccolma, l’adulto Thorpe continuò a esprimersi in sport diversi con naturalezza, come se a cambiare fossero solo le regole intorno al suo talento. Tra il 1915 e il 1928, percorse una carriera da professionista sia nel football che nel baseball. In contemporanea: perché i campionati si disputavano in stagioni diverse (autunno-inverno il football, primavera-estate il baseball) e così nella off season di uno sport poteva dedicarsi all’altro. Con orgoglio, tirando una linea, diceva: «Non mi sono mai specializzato, ho provato tutto». Non si limitava a riuscire negli sport multipli, o ad alternare la perfetta sfera del baseball e quella ovale e imprevedibile del football. Nel suo abbraccio allo sport, Thorpe corrisponde all’ideale omerico del successo in ogni cimento. Curioso, appassionato, combattivo. Provò il golf, a quasi trent’anni, perché gli avevano detto che migliorava la coordinazione occhio-mano e poteva aiutarlo a colpire le palle da baseball. «Era il più grande tra tutti gli atleti. Avrebbe potuto eccellere in qualunque cosa», sosterrà il pugile Jack Dempsey, campione mondiale dei pesi massimi, nativo Cherokee per un ottavo, suo amico e ammiratore.
La capacità di fare tutto nello sport, di non avere limiti, che rintoccava nella vita di Thorpe, poteva suonare come onnipotenza. Qualcosa che si eleva sopra la prestazione umana, raccordando il mortale e l’irraggiungibile. Meritevole d’ammirazione oppure dubbio, addirittura sinistro, da una prospettiva ostile. Nei suoi migliori anni di football professionistico, i giornali scrivevano che giocava come se fosse animato da un «autentico demone». Si poteva anche piegare il suo talento al razzismo: Thorpe non ha doti comuni perché non è come noi. La sua eccezionalità non sarebbe altro che una compensazione, come succede con i freak del circo.