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Fabrizio Gabrielli
Javier Milei, il portiere
22 nov 2023
22 nov 2023
Il nuovo presidente argentino ha un insospettabile passato da calciatore.
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Fabrizio Gabrielli
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Un anno fa cominciava il Mondiale in Qatar. L’Argentina era pervasa da una scossa tellurica di sensazioni contrastanti, che oscillavano tra la disillusione malinconica, una certa fiducia in se stessi (l’Albiceleste veniva dalla vittoria in Copa América e nella Finalissima contro l'Italia) e una speranza in qualche modo soprannaturale, che la spingeva ad aggrapparsi alle vesti di Lionel Messi. Gli argentini hanno scelto di crederci, il resto l’ha fatto la mistica. E ha funzionato.A un anno di distanza, di fronte alle elezioni presidenziali, il sentimento generale era in qualche modo simile. «Fare un paragone con il calcio è pericoloso», mi mette in guardia il giornalista sportivo argentino, Ezequiel Fernández Moores, per messaggio. Stavolta gli argentini si sono convinti a crederci, anche senza avere qualcosa di non conflittuale come la Nazionale in cui confidare. Molti erano semplicemente stufi dello status quo, e non potrebbe essere altrimenti in un Paese dalla situazione così deteriorata a livello economico e sociale come l'Argentina. E quindi ha scelto di crederci, ma credere a che cosa? All’utopia di un cambiamento radicale, totale, del tutti-a-casa perorata da un líder máximo sciamannato, arruffone, con una motosega in mano. Di uno che gongolava nel far parlare di sé anche più del passaggio maestoso di Messi per Molina contro l’Olanda.

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Un utente, all’epoca, rispondeva «Messi e Milei. È il destino!». Sembra incredibile, ma è andata proprio così.

Alla base della scelta degli argentini di votarsi a Javier Milei come nuovo presidente – con un largo consenso, va detto – c’è la disperazione di una situazione economica e di conseguenza sociale che il trionfo mondiale, panacea a tempo, ha lenito nella percezione, ma di cui non ha potuto ovviamente arginare gli effetti. Il risultato è un racconto di Roberto Fontanarrosa che si distorce fino a diventare una sceneggiatura di Black Mirror, e ammetto di avere qualche problema ad affrontare con il sorriso un articolo su un candidato che in campagna ha disquisito allegramente di liberalizzazione del porto d’armi e privatizzazione della vendita di organi, che parlando della dittatura non ha mai usato il termine “crimini” ma “eccessi”, che ha fatto dell’insulto e del disprezzo la sua cifra. Di quella che mi sembra, da parte degli argentini, una disasterclass inaudita. Di un individuo che si è inserito all’interno di una delle fibre più sensibili della cultura argentina, quelle del fútbol, con gli esiti della mina impazzita, a tratti direi addirittura irrispettosamente."Sarà un caso", ha scritto Ezequiel Fernánez Moores qualche settimana fa in una colonna per La Nación "che quattro dei cinque candidati siano stati portieri in una Nazione che vive costantemente parando rigori?". Patricia Bullrich ha giocato in porta, a hockey su prato. Sergio Massa ha confessato di giocare in porta nelle partitelle da potrero con gli amici, e Juan Schiaretti di vedersi tra i pali in ogni sogno in cui gioca a calcio.Dopotutto quella del portiere, negli ultimi tempi, in Argentina, è una narrazione efficace, passata per la mitizzazione del "Dibu" Martínez ma anche per il Boca Juniors che ha raggiunto la finale di Libertadores trascinata dalle parate, nelle sfide ai rigori delle eliminatorie, di un redivivo "Chiqui" Romero. Il portiere, nella cosmogonia calcistica rioplatense, è el loco per eccellenza. E mai definizione sarebbe più azzeccata, per Javier Milei.

La palla è indirizzata verso l’angolo sinistro della porta. Il portiere qua è Milei, che si distende con una plasticità goffa, respinge con la mano di richiamo, una scelta stilistica più votata alla spettacolarizzazione che all’efficacia, e se suona premonitore, beh, magari lo è. Indossa una giacca di jeans, la mascherina con la disinvoltura di chi non crede al bisogno di indossare una mascherina, ha una capigliatura ribelle da rocker, o da portiere – appunto – loco. La porta che sta difendendo Milei, in questo caso, è quella dello stadio del Chacarita Juniors, a Villa Maipú (un distretto della provincia di Buenos Aires in cui ha vinto, ovviamente), una squadra fondata in una libreria anarchica che per uno strano caso del destino è l’amore di gioventù tanto di Milei («Mio nonno era tifoso, andavo allo stadio con lui, in quei giorni [1983, ndr] erano appena stati promossi, tutto mi sembrava impressionante») che di Massa. Figlio di un autista di autobus che si caricava i ragazzini per portarli allo stadio senza farli pagare, Milei, per il Chacarita, ha addirittura giocato. «Si buttava da tutte le parti, non gli fregava niente», ha raccontato Gabriel Bonomi, suo compagno ai tempi, arrivato poi in prima squadra con i "Funebreros", ovvero "i becchini", per via della vicinanza dello stadio con il cimitero del distretto. Nelle sue scorribande adolescenziali Milei ha difeso la porta del Chacarita Juniors di fronte al River di Juanjo Borrelli, di Leo Astrada, e al Vélez del "Cholo" Simeone, di cui il neopresidente ha un ricordo piuttosto lucido: «La prima volta che lo affrontavamo ha rotto uno dei miei compagni, ma non l’ha fatto a posta. Giocava così: ti veniva a rubar palla e ti mangiava il fegato con il solo sguardo».El loco del arco, lo chiamavano invece, a Boedo, al San Lorenzo, dove ha disputato una stagione nella squadra giovanile alternativa, quella che non disputava i tornei ufficiali AFA, ma solo tornei locali. Era il 1986: una settimana prima di Argentina-Inghilterra ai Mondiali messicani, in una finale contro l’Huracán, i rivali storici, ha addirittura vinto il campionato. Sarebbe potuto diventare un professionista? Chi può dirlo, d'altra parte sembra che ci mettesse tutto se stesso, e poi outsider lo è sempre stato. Forse c’erano le stesse probabilità che diventasse Presidente.Nel 1989, però, ha scelto di mollare il calcio. Per via di un calcione che gli ha fratturato la mascella, dice qualcuno. Per via di una passione smodata per l’economia, sostiene qualcun altro. Per pigrizia, visto che non gli andava proprio giù di doversi allenare per sei ore al giorno, insinua qualcun altro ancora. Mi sembrano tutte ipotesi credibili.Diciassette anni più tardi, in una puntata di “Animales Sueltos” (letteralmente: animali randagi), un late-night show che aveva preso sfumature sempre più politiche, condotto da Alejandro Fantino, irrompe un economista che si lancia infervorato in invettive contro le teorie keynesiane. E lo fa in maniera così teatrale che – come si dice – buca lo schermo. Pochi avrebbero riconosciuto quello strano animale come il portiere delle giovanili del Chacarita Juniors. Nessuno, probabilmente, avrebbe pronosticato che sarebbe diventato, un giorno, Presidente della Repubblica.Di Milei si può leggere, in rete, in ordine sparso, che è un fanatico degli schemi tattici; che definisce il calcio italiano, il suo preferito, «calcio-scienza», e che ha un crush importante per Fabio Capello, un «ossessionato» che «studia tutto nel minimo dettaglio, anche gli arbitri». Che è stato tifoso, fino a un certo punto, del Boca; che idolatrava Martín Palermo, e che il giorno in cui "el optimista del gol" ha segnato quel celebre gol contro il River, il muletazo, si è sporto così tanto dal palco alla Bombonera che ha rischiato di cadere nel vuoto. È stato tifoso del Boca fino a un certo punto, dicevamo, perché ha smesso di esserlo nel 2013, quando Angelici ha riportato alla Bombonera Riquelme: «È stato un atto populista», gli rimprovera Milei, e da che pulpito. Per il nuovo presidente argentino, sullo stesso piano della Banca Centrale, dei peronisti e del comunismo ci sarebbe anche Fernando Gago, «il più grande bluff del calcio argentino», uno che Milei odia così tanto che quando è entrato in campo, a Madrid, nella finale di ritorno della Libertadores 2018, lui ha «iniziato a tifare per il River. E infatti, al secondo gol, che è assoluta responsabilità di Gago, ho esultato forte».Da questo mosaico di opinioni, tic, convinzioni – succede un po’ sotto tutti i punti di vista, in effetti, ma qua stiamo parlando di legami con il calcio – ci viene restituito un immaginario calcistico di Milei un po’ rabberciato, iconoclasta, anticonvenzionale, non sempre coerente, ma il punto è esattamente questo: quando ha sfiorato, e sfiora, le paludi malmostose del calcio, Milei ci passeggia rasente con l’ingenuità strafottente di quello che non ci capisce niente, e proprio per questo crede di poterci capire tutto. Dal calcio, con goliardica astuzia, ha però assorbito certe dinamiche comunicative campanilistiche, totalizzanti, caciarone, che non ammettono replica, che non necessitano approfondimento. «Le società, ma tutte, non solo quella argentina», mi spiega Fernández Moores «sono molto frammentate, futbolizzate. Voglio ascoltare solo chi parla bene della mia squadra, e gridare solo ai gol della mia squadra. Del resto delle squadre non voglio sapere niente, non mi interessa: ti dico di più, non voglio neppure ascoltare le partite alla radio, perché la cronaca la fa un giornalista. Preferisco mettere uno youtuber, che esulti ai gol della mia squadra. È così che viviamo ascoltando solo quello che vogliamo ascoltare».Quando Menotti, parlando di lui, lo ha definito un prodotto del processo di deculturazione in cui è invischiata l’Argentina - in una parola «spaventoso» - Milei gli ha risposto, attraverso i social: «Bilardista fino al midollo, come ogni brava persona! Grazie mille rabanito!» (Bilardo aveva apostrofato Menotti rabanito, cioè ravanello, perché proprio come il tubero era «rosso fuori, ma bianco dentro»). Milei, l'avrete capito ormai, opera per riduzioni e opposizioni: menottisti? Fuori! Peronisti? Fuori! Comunisti? Fuori!Nella campagna presidenziale di Milei, ricorda Ezequiel Fernández Moores, non ci sono stati molti momenti strettamente calcistici. Ma in Argentina, alla fine della fiera, quasi tutto è calcistico. Quando Massa gli ha rimproverato l’ammirazione per la Thatcher, che in qualche modo si traduce in una manifestazione di scarso rispetto riguardo alla questione delle Malvinas, Milei gli ha risposto che allora cosa?, non si possono elogiare Crujiff perché «la Germania (sic) ha fatto quattro gol all’Argentina» o Mbappé per «tutti i gol che ci ha segnato?».La simpatia per la "Lady Di Ferro", però, si spinge oltre. Margaret Thatcher, per molti versi, è la madre del calcio inglese moderno: nel suo humus politico hanno trovato terreno fertile la repressione degli ultras, gli investimenti milionari, le privatizzazioni, la moltiplicazione dei prezzi dei biglietti d’ingresso, le quotazioni in Borsa, insomma, un passaggio del calcio da people’s game al prodotto televisivo rilucente che conosciamo oggi. Non che a Milei dispiacerebbe un modello del genere: già un anno fa si è detto favorevole all’ingresso di capitali privati in uno schema culturale basato sull’associazionismo popolare: «Deve esserci solo un tipo di struttura societaria? Perché non posso aprire alla possibilità che ci sia un Manchester City argentino?». Guillermo Tofoni, il CEO di World Eleven, la società che si occupa dell’organizzazione e della commercializzazione delle partite della Selección e che si è autodefinito, salendo sul carro del vincitore, rappresentante de La Libertad Avanzaper quanto riguarda il calcio, ha dichiarato un eventuale dollarizzazione aprirebbe la strada agli investimenti stranieri nel calcio argentino. Poco prima del ballottaggio, quando questa posizione è riemersa, praticamente tutti i club professionistici si sono schierati fermamente con la conservazione dello status quo, dichiarandosi pronti a lottare per conservare la fedeltà alle proprie origini, all’assenza di scopo di lucro: che il club appartenga alla sua gente, in Argentina, è qualcosa di più di un artificio retorico. A privatizzare il calcio, in Argentina, non è riuscito Carlos Menem, che pure ha concesso l’indulto ai genocidi del regime militare, né Mauricio Macri, che ci aveva provato con i diritti televisivi, cercando di compiere una liberalizzazione guidata, orientata perlopiù a beneficio del Grupo Clarín proprietario della TyC Sports, emittente alla quale l’AFA ha ceduto per un periodo i diritti della Primera B, la seconda divisione argentina.Non è detto, quindi, che ci riesca Javier Milei. «Ci proveranno di sicuro», mi dice Fernández Moores, «già stanno parlando di un progetto di legge». «Poi, riuscirci, chi lo sa. Bisognerebbe fare un atto di futurologia». Tanto per cominciare l'elezione di Milei avrà sicuramente un peso specifico nelle prossime elezioni per la presidenza del Boca Juniors, che si terranno a inizio dicembre, e che vedranno sfidarsi il fronte di Juan Román Riquelme, il santo protettore, il masaniello della gente, e il fronte di Mauricio Macri, l’affarista, l’iconoclasta, quello che durante le nozze di Valeria Mazza si scontrò con Maradona, al quale disse «tu parli troppo», per sentirsi rispondere «sì, parlo troppo, ma ho fatto cose. Tu parli parli, invece, e sei impresentabile».In un Paese in cui il calcio è una forte componente del panorama culturale, Milei ha abbracciato la più parossistica declinazione del panem et circenses. Nel 2016, appena apparso sulle scene della televisione nella sua veste più polemica, più oltranzista, più turbocapitalista, Milei ha passato al vaglio della sua motosega anche la più fulgida e santificata delle icone argentine.

Ha confrontato, sulla scorta di categorie un po’ sceme, irriverenti, mi verrebbe quasi da dire anticalcistiche, Pelé e Maradona (che ha ribattezzato "Mardedroga"): gol segnati con le mani, quantitativi di sostanze inalate, baci in bocca a uomini.Insomma, se il calcio in Argentina è religione, Milei non si è fatto problemi a dissacrare anche quella. E se pensate a questo, il risultato elettorale di poche ore fa è ancora più inspiegabile: come ha fatto a diventare presidente dell'Argentina un uomo che ha fatto in mille pezzi l'icona di Maradona? Nel 2018, in pieno Mondiale russo, il conduttore televisivo Mariano Iúdica gli ha calciato contro un rigore, che Milei ha parato (anche in buono stile) prima che partisse la musichetta di Italia ‘90, l’evocazione di Goycoechea, del portiere salvapopolo, prima insomma che venisse – come si dice a Roma – buttata in caciara. Forse qualcuno, in quel momento, ha riconosciuto l’ex portiere delle giovanili del Chacarita Juniors. Credo che nessuno, però, abbia pensato per un secondo che sarebbe potuto diventare, un giorno, Presidente della Repubblica.

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