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Emanuele Atturo
Il Sinner che avevamo sognato
15 nov 2023
15 nov 2023
È riuscito a battere Novak Djokovic per la prima volta in carriera.
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Emanuele Atturo
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IMAGO / Marco Canoniero
(foto) IMAGO / Marco Canoniero
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Ieri, ben oltre la mezzanotte, siamo andati a dormire con l’adrenalina in corpo e i più bei punti di Jannik Sinner ancora negli occhi. Prima di addormentarci, nelle fantasticherie che ci concediamo tra sonno e veglia, li abbiamo ripensati. Quello schiaffo al volo perentorio sul 5-5 del primo set; quel dritto incrociato stretto, feroce, che ha costretto Djokovic all’applauso. Le palle corte, i cambi di ritmo coraggiosi e poi quella serie di risposte brucianti, sempre in momenti decisivi, che hanno fatto camminare Djokovic su un sottile strato di gusci d’uova. Sinner ha battuto Djokovic, il numero uno al mondo, per la prima volta in carriera.

Oltre i singoli punti, la sensazione è che Sinner sia diventato grande, come si dice con un po’ di paternalismo - ma anche di dolcezza. Ce lo ricordiamo quando è arrivato nel circuito, un tennis così puro, ma anche così fragile; le spalle strette, le gambe magre come quelle di un bambino che ha passato troppo tempo a letto. Quante cose sarebbero potute andare storte nel percorso. Ieri sera abbiamo visto Sinner crescere, fiorire, giocare un tennis che ancora non gli apparteneva, e quasi non lo riconoscevamo. Da dove arrivava tutto quel coraggio, tutto quel desiderio di imporsi? Quante cose possono cambiare in poche settimane, per un giovane tennista. A quel livello ci è arrivato anche grazie alla forza del suo avversario, perché nel tennis funziona sempre così: ci si spinge a vicenda in territori nuovi, finché la partita non prende una propria vita, e bisogna giocarci attraverso. Quel momento è arrivato nel terzo set.

Il primo Sinner lo aveva vinto all’improvviso. Djokovic si era addormentato sul 5-5, 40-0; si era estraniato, con la testa chissà dove, e Sinner lo aveva recuperato; costretto a un game di lotta imprevisto, aveva ceduto. Il secondo si è trascinato fino al tiebreak; lì Sinner è andato avanti di un mini break, ed era davvero molto vicino a poter chiudere la partita. Dentro di noi pensavamo che era quello il momento: in quel secondo set avrebbe dovuto vincere, perché rimettere in partita Nole significa svegliare un drago nella sua caverna. Sul 3-2 in quel tiebreak c’è uno scambio durissimo, con Djokovic che ne esce con un dritto in cross che piega le gambe di Sinner, e abbiamo immaginato Nole in versione Syrio Forel: “Not today”. Iniziate le provocazioni col pubblico, la sua energia vitale era cresciuta. Dopo il set point Nole mostra l’orecchio con un gesto strano: vuole sentire tutto l’odio dei tifosi italiani. Non gli basta che tifino Sinner, vuole anche che odino lui - nonostante, va detto, non c’è forse posto fuori dalla Serbia in cui Djokovic viene apprezzato di più.

Quando è iniziato il terzo set avevamo poche aspettative. Dentro di noi speravamo, ma avevamo visto troppe volte quella sceneggiatura. Djokovic che fatica all’inizio, sgonfio, stranamente deconcentrato; Djokovic che poi sale nel corso della partita, fino ad appuntirsi come una picca nei momenti decisivi, magari nel tiebreak, il regno dei margini esigui. Djokovic che litiga col pubblico, si chiama i fischi, e il suo tennis che cresce proporzionalmente al conflitto col pubblico, demone che prolifera nel male. Interpella l’arbitro più del solito, ma sembra farlo solo per far alzare il volume dei fischi. I dritti salgono di velocità, la seconda di servizio pure, le discese a rete si fanno perfette e illeggibili.

Eppure sul 3-2 tel terzo set, dal nulla, arriva quel game, quello delle tre risposte vincenti di Sinner. Djokovic può giocare con le marce del suo tennis come vuole, lo sappiamo, ma ieri Sinner ha dimostrato di poter alzare la sua potenza di fuoco fino a travolgerlo, almeno in alcuni momenti. E questi momenti per vincere devono diventare solidi e costanti. Sul 4-2 Sinner commette l’errore di giocare sull'ispirazione. È spesso descritto come un tennista freddo e anti-emotivo, ma in realtà gioca spesso sui brividi dell’entusiasmo, gli piace colpire leggero e sovrastare l’avversario col ritmo. Con Djokovic, però, è meglio non staccare mai pensiero e azione. Quel game corre troppo veloce, è un insieme di colpi con poca strategia, Sinner sembra perdere per un attimo la pazienza, mentre Djokovic rimane fermo e concentrato, e ottiene il contro-break. A quel punto le occasioni non sfruttate da Sinner cominciano a diventare troppe. Abbiamo la sensazione che Djokovic stia esercitando le sue solite arti magiche, con una sottile triangolazione tra sé stesso, il pubblico e il suo avversario. Si lamenta dei flash dei fotografi, delle urla durante gli scambi, delle chiamate della giudice-arbitro - lamentele non del tutto infondate, va detto: bisogna riconoscere serenamente che il tifo di Torino è stato molesto e sopra le righe. Djokovic si abbevera di quel tipo di situazioni: sentirsi vittima di un’ingiustizia e cercare la vittoria come un obiettivo morale.

Sinner è riuscito a non farsi toccare, come gli era successo in passato (contro Monfils, o contro Tiafoe a Vienna). Il tennis è spesso questo: riuscire a rimanere impassibili. Non permettere all’avversario di entrarti sotto pelle. Riuscire a non farne un conflitto personale, tornare a concentrarsi su sé stessi e sul proprio tennis, un punto alla volta, un colpo alla volta, praticare l’alienazione. Non nutrire sentimenti di alcun tipo, trasformarsi in specchi riflettenti del gioco stesso. Vivere nell’astrazione. E così, mentre il pubblico italiano si torceva le budella nell’odio per Djokovic, Sinner restava impassibile. C’è qualcosa persino di tossico nel modo in cui certi tennisti, nell’atto di isolarsi, rifiutano i sentimenti dell’altro; ed è questa una delle cose che i tifosi di Djokovic apprezzano di più di lui: la sua autenticità emotiva.

Sinner va avanti 6-5 e va a sedersi spedito. Nel frattempo Djokovic chiama il challenge. Sono tutti sicuri che la palla sia fuori, ma Djokovic lo chiama lo stesso per il puro gusto del conflitto. Il pubblico aveva esultato così forte - di sollievo e spavento passato - che il tennista serbo voleva ricacciargli quell’urlo in gola. Mentre il falco dimostra che la palla era fuori Djokovic si siede come un lottatore di WWE che gode della propria heel, della propria malvagità, assaporando l’odio provocato nel pubblico.

Mentre il pubblico gli canta “you suck” Kurt Angle sembra risentito, ma nel profondo è finalmente felice.

Al tie break Sinner ha la forza per alzare di nuovo il volume del suo tennis. Dalla vittoria del mille di Toronto gioca con una consapevolezza diversa, sembra più leggero e spigliato mentre esplora i propri stessi limiti. Ieri la testa non si è mai appannata, il braccio non ha mai tremato. Ha continuato a spingere sulla prima e sulla seconda di servizio, dal lato del dritto e da quello del rovescio. E quando lo scambio lo invitava a una palla corta, è riuscito ad addolcire il suo braccio di pietra per uscire fuori dagli schemi - e a fare quindi qualcosa che non gli è mai appartenuto troppo.

Sono partite che si vincono leggendo i momenti, e quando Sinner ha potuto appoggiare i piedi in campo e spingere lo ha fatto senza paura e si è preso la partita. Lo ha ammesso anche Djokovic: «Ha meritato di vincere perché nei punti importanti gli ho dato l’opportunità di prendere il controllo dei punti. Ero nello scambio e avrei dovuto mettere i piedi in campo, non l’ho fatto e l’ha fatto lui. Ha assolutamente meritato di vincere».

Non avevamo mai visto giocare Sinner con quel tipo di sicurezza. La parola “confidenza” (nella traduzione un po' troppo letterale di "confidence", quindi fiducia), l’ha usata più volte nelle interviste di ieri. Nel tennis tutto è collegato, ed è difficile non vedere in questi miglioramenti intangibili l’effetto di quelli tangibili: un servizio che finalmente porta punti facili, una seconda palla di alto livello, qualche variazione in più, un ritmo da fondo così fiammeggiante da costringere spesso Djokovic a mischiare le carte. Una condizione fisica mai vista («Fisicamente questa stagione abbiamo fatto un passo in più, e si è visto»). C'è stato qualcosa di più, però, a rendere il match speciale. Una sensazione, inusuale, di vedere Sinner maturare all’interno del match stesso, come dentro un'esperienza trasformativa. Lo ha detto anche lui in fondo. Ha spiegato di essersi reso conto di aver sbagliato la velocità del servizio nel tiebreak del secondo set, e quando è arrivato alla fine terzo ha giocato diversamente.

Parole che ci fanno capire due cose: quanto queste partite passino per dettagli microscopici e invisibili, e il processo mentale a cui è costretto ogni avversario di Djokovic per provare a stare al suo livello, che è quello della perfezione. Lo ha detto lo stesso Sinner ieri: «Quando vedi giocare Djokovic pensi alla perfezione». Da quando è arrivato nel tennis, Sinner ha mostrato picchi eccezionali, ma nelle ultime settimane sembra essere riuscito ad abitare quel livello di gioco, a starci più comodo. Ora ciò che gli costava un grande sforzo tecnico e mentale sembra automatizzato, far parte di Sinner al di sotto della coscienza. Sembra aver raggiunto un nuovo plateau di gioco.

Ai microfoni, intervistato da Meloccaro, Sinner ha definito questa vittoria uno dei traguardi più importanti della sua carriera, se non il più importante. In parte è strano, a pensarci. È una partita di round robin, nelle ATP Finals - un torneo sempre ricco di sorprese, per le condizioni di forma ondivaghe in cui ci arrivano i giocatori. In più ieri per Sinner c'era il contesto ideale: forma brillante, superficie indoor veloce, punteggio due su tre, pubblico scatenato ai livelli di una partita di Davis. Eppure non bisogna mai, in alcun modo, ridimensionare una vittoria contro Djokovic. Batterlo resta una delle imprese più estreme nello sport oggi. «Mi era già capitato di battere Alcaraz quando era lui numero uno, ma lui lo vedo in modo diverso, perché siamo della stessa generazione». Djokovic non solo non fa parte della sua generazione, ma appartiene a una dimensione che va oltre le contingenze storiche: è una leggenda vivente, un maestro del tennis, uno dei più grandi sportivi di sempre. Ieri era in un'ottima versione, e ha messo in campo un livello insostenibile per praticamente tutti i giocatori al mondo. Giocare con lui è un percorso di conoscenza, e batterlo - specie in un contesto pesante come quello di ieri - significa aver capito delle verità profonde sul gioco. È come laurearsi, o prendere la cintura massima nelle arti marziali. Per questo la prima vittoria contro di lui ha una grande importanza simbolica, ma anche pratica, perché fa capire a Sinner che appartiene al massimo livello possibile. Gli permette di crescere nella fiducia, nella consapevolezza: vivere momenti come quelli di ieri significa anche sapere di poterli rivivere.

La partita però è stata importante anche per il posto del tennis nel nostro Paese. Ieri il match era in diretta su Rai Due, e due milioni e mezzo di italiani sono rimasti davanti allo schermo a vedere Sinner vincere. È difficile quantificare l'impatto sull'immaginario di una partita come quella di ieri, ma speriamo che qualcuno sia rimasto folgorato dalla bellezza di questo sport. O anche solo dalla meraviglia di un ragazzo che realizza il proprio talento, di un essere umano che fiorisce nelle sue possibilità.

«Prima o poi il lavoro paga sempre», ha detto Sinner in una recente intervista a Federico Ferri su Sky. «Faccio tanto lavoro in palestra, faccio tanta atletica, lavoro un po’ sulla mente. Mangio meglio, vado a dormire presto, uso meno il cellulare, che è importantissimo. Sto cercando quelle cose che mi fanno dire: ok, ho più energia in campo. Andando avanti, prima o poi, qualcosa ti dà. Magari anche solo lo 0,01, ma qualcosa ti dà». Questa fiducia nel lavoro, questa tensione verso la perfezione, è ciò che rende luminoso il percorso di Jannik Sinner, anche al di là dei risultati contingenti. Non sappiamo come andranno a finire queste ATP Finals, per esempio. È possibile per esempio che una partita così dura, e così soddisfacente, porti subito il conto nella prossima sfida con Rune, che invece arriverà fresco e riposato. Ma nessuna sconfitta ora sembra poter incrinare la fiducia nel processo. «Forse posso ancora migliorare, ed è la cosa più bella» ha detto ieri ai microfoni, fantasticando sul proprio potenziale.

Ci saranno altri momenti difficili, e magari la prossima volta sarà Djokovic a mettere i piedi in campo e a prendersi i punti importanti. Cambia poco: il tennis di Sinner di ieri è una verità che non dimenticheremo.

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