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Sandro Modeo
Jannik nel giardino dei sentieri che si biforcano
08 dic 2023
08 dic 2023
La storia di Jannik Sinner tra mondi possibili e impossibili.
(di)
Sandro Modeo
(foto)
Illustrazione di Emma Verdet
(foto) Illustrazione di Emma Verdet
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In uno dei racconti-cult di Borges (dalla raccolta Finzioni), il protagonista Yu Tsun è una spia cinese al servizio dei tedeschi (degli Imperi Centrali) nella Grande Guerra. Il suo obiettivo - scoprire il luogo in cui sono dislocate le artiglierie dell’XI Parco Britannico - è legato allo scioglimento di una “chiave” molto particolare, ovvero alla decrittazione del libro -labirinto scritto dal nonno Ts’ui Pen, Il giardino dei sentieri che si biforcano (da cui il titolo del racconto stesso). Lo scioglimento - e la conseguente “rivelazione” - porterà Tsun a dover uccidere suo malgrado lo studioso-solutore, Stephen Albert, dato che proprio“Albert” è anche il nome del sito segreto delle artiglierie; e l’unico modo con cui Tsun può comunicarlo ai superiori è attraverso i titoli dei giornali britannici sull’omicidio da lui stesso commesso. Indissolubile dalla vertigine del plot, è quella della chiave che lo risolve, se il giardino e i suo sentieri si espandono a metafora delle “biforcazioni” (e poi ramificazioni) estese a ogni livello di organizzazione della materia inanimata e biologica, dagli scontri delle particelle elementari all’articolarsi di universi paralleli (in uno solo dei quali Borges - qui precursore di tanta SF - rende possibile l’incontro fra Tsun e Albert); passando, in mezzo, per le sliding doors, i percorsi alternativi che si succedono nelle parabole di tutti noi, animali umani.

Quella di Sinner non fa eccezione: anzi, l’insieme delle sue sliding doors è talmente denso da invogliare a indagarne la successione per cercare di capirne il senso, forse coincidente, almeno in parte, coi segreti del suo tennis o con l’impatto crescente che sta producendo in Italia e nel mondo. Proviamo quindi a seguire Jannik (o Jan, o JS) nel suo “giardino dei sentieri che si biforcano”; dove il giardino non può non echeggiare anche il green mitico di quel torneo - i Championships londinesi - mai conquistato, finora, da un italiano.

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Prima biforcazione: l’ombra lunga della Grande Guerra...

La prima biforcazione risale molto indietro, a 80 anni prima della nascita di Jan, cioè proprio alla fine della Grande Guerra che fa da teatro al racconto di Borges. Ed è una biforcazione decisiva per schiarire le nebbie e gli equivoci intorno all’italianità di JS.

La “questione altoatesina", a meno di non affrontarla con sbrigatività ideologiche di segno opposto, è dannatamente complessa, un vero nodo di Gordio. Come mostra la guida ideale per decifrarla, cioè il libro recente di Oswald Überegger (All’ombra della guerra. Storia del Tirolo (1918-20), Carocci, 2020); un testo magistrale per rigore e intensità del tracciato, che qui possiamo solo liofilizzare.

Überegger innesca la sua ricostruzione dall’ultimo anno di guerra, tornando da par suo su passaggi-chiave: uno su tutti, la paradossale “scossa” della disfatta di Caporetto (ottobre 1917), in seguito alla quale l’Italia resetta e reimposta i vertici militari, sostituendo Cadorna col giovane Diaz, ovvero la condotta autodistruttiva dell’uno (attacchi scriteriati con perdita immane e gratuita di vite umane, modi repressivi con ufficiali e soldati) con quella razionale e lungimirante dell’altro: militari responsabilizzati e valorizzati, concessione di licenze, razioni alimentari più consistenti, strategia intelligentemente difensiva. Un passaggio che condurrà, insieme alla capacità diplomatica di reclutare accanto alle forze italiane 240.000 alleati tra francesi, inglesi e americani, alla “stabilizzazione del Piave” e alla controffensiva finale, ratificata dal Bollettino della Vittoria dettato da Diaz (4 novembre ’18). Ma altrettanto decisivo, sul versante degli Imperi Centrali, è invece il logorio di un esercito a sua volta eterogeneo, composto solo all’8% da tedescofoni, tra decine di migliaia di ungheresi, croati, sloveni, polacchi: a riprova definitiva, argomenta Überegger, di quanto infondata sarà la retorica postbellica sulla mistica dell’eroismo austro-tedesco.

Infondata ma spiegabile - senza dover ricorrere alla psicologia sociale o alla psicanalisi - in quanto da ricondursi a un sentimento pervasivo di frustrazione-umiliazione, che si convertirà - anche grazie alle irrealistiche e punitive richieste di riparazione finanziaria da parte degli Alleati, peraltro esercitate su popolazioni già piagate da un impoverimento tragico, come denunciato in tempo reale da Keynes - nel “risentimento” e nella pulsione di giustizia-vendetta su cui mieterà consensi di massa la palingenesi nazista. E quel sentimento verrà amplificato, oltretutto, dalle modalità di spartizione postbellica, come mostra proprio il caso particolare del Südtirol o Alto Adige (anche se, in teoria, il termine tedesco si dovrebbe riferire alla sola componente tedescofona dell’area), che qui più di tutti ci interessa.

L’“assegnazione” del Tirolo meridionale è di fatto stretta tra due tappe diplomatiche, una pre e una postbellica: la prima è il cosiddetto “patto segreto” di Londra (aprile 1915), in cui gli Alleati promettono quei territori all’Italia (al Presidente Salandra e al Ministro degli esteri Sonnino) in cambio della stessa discesa in guerra; la seconda è il mantenimento delle promesse, a vittoria acquisita, nel trattato parigino di Sant-Germain-en-Laye, ratificato nel settembre 1919, ma dopo mesi di trattative. In realtà, sotto quella gelida scansione, ricorda Überegger, vanno sottolineati tre risvolti decisivi. Primo: la decisione finale sul Sudtirolo viene presa, di fatto, dal Presidente americano Woodrow Wilson, in parte contro l’opinione di consulenti accademici sia americani che europei («Per quanto mi riguarda, il Brennero è vostro», sentenzia nell’aprile dello stesso ‘19); decisione che va vista, a differenza di quanto a lungo creduto, come una compensazione o meglio un “contentino” per il “no” a Fiume, che gli Alleati non concedono per limitare l’espansione italiana a est. Secondo: le argomentazioni italiane per l’annessione evocano una logica geo-strategica (i “confini naturali”, a dispetto delle maggioranze tedescofone dell’area), secondo una plasticità opportunistica che vede invece usare l’argomento opposto proprio per Fiume, per cui si evoca il rispetto delle maggioranze italofone. Terzo - e siamo al dunque - le richieste italiane sull’Alto Adige, rispetto al “patto segreto” di Londra, vengono ampliate secondo il “memorandum” di Salvatore Barzilai (politico triestino di origini ebree, nonché emissario di Salandra a Parigi), contenente quella aggiuntiva, per motivi strategico-commerciali, di San Candido e Sesto Pusteria, ovvero i comuni dell’infanzia e dell’adolescenza di Jannik Sinner. Richiesta che verrà accettata dopo la tenace, inutile resistenza della delegazione austriaca, che chiede di poter conservare “almeno la Val Pusteria e l’alta valle Isarco”; anzi, verranno aggregati anche Versciaco e Prato alla Drava (che prende il nome dal fiume locale, affluente danubiano).

Quell’annessione, in ottica sudtirolese, è una sorta di trauma originario: il quotidiano socialdemocratico Volkszeitung parla di “ingiustizia” e di “stupro”. Gravi tensioni, per la verità, si erano avute già prima di Saint-Germain, a guerra appena finita e a occupazione italiana compiuta, non solo in Alto Adige, ma in Trentino e nel Tirolo tutto, fino a Innsbruck; vedi, tra le varie sequenze (proprio a Innsbruck), quella di un gruppo di donne colpevoli di “relazioni sentimentali” coi soldati italiani, e quindi stigmatizzate dalla stampa, coi loro nomi esposti su manifesti affissi in tutta la città. Ma è dopo Parigi, dopo “la pace del diktat” o “pace violenta”, che tutto degenera, con gli italiani accusati in primo luogo, in un prequel del post 8 settembre ’43, di essere dei “traditori”: ci si riferisce a come, a inizio conflitto, Salandra e Sonnino avessero giocato abilmente (e ambiguamente) su due tavoli, passando in fretta dall’Alleanza all’Intesa proprio col “patto segreto” di Londra.

…e l’identità plurale del SudTirolo (l'“italianità” di Jan)

Da quel momento, quel trauma originario si traduce in una ferita destinata a suppurare lungamente prima di cicatrizzarsi a fatica.

Il quadro peggiora pesantemente con le politiche fasciste, vissute dai sudtirolesi, con molte buone ragioni, come un tentativo di sistematica “cancellazione del carattere tedesco dell’Alto Adige” attraverso provvedimenti ad hoc: la proibizione dell’insegnamento del tedesco, il cambio della toponomastica e soprattutto la sostituzione del personale statale tedescofono con quello italiano, in continuità con pratiche già avviate prima, per esempio nelle ferrovie. È un processo che allarma gli autoctoni soprattutto dal ’37, quando il Regime incentiva l’immigrazione in Alto Adige da “regioni italiane depresse” (leggi: il Meridione); anche se gli esiti saranno molto più contenuti rispetto alla percezione locale. Una potente, tragica sintesi di questa fase è la figura di Giacomo Matteotti, che con altri compagni socialisti tratta coi socialdemocratici altoatesini il loro “progetto di autonomia”: dialogo troncato dal suo feroce rapimento-assassinio (10 giugno ’24), vero spartiacque-acceleratore, com’è noto, nel saldarsi della dittatura.

Nel primo dopoguerra, si avvia un nuovo dialogo, protagonisti la Svp (Südtiroler Volkspartei) e il Presidente De Gasperi (per inciso trentino), che pur rifiutando a quelle aree l’autonomia, in quanto troppo importanti per ragioni economiche, apre per una tutela effettiva e non nominale a livello “etnico, linguistico e culturale” trovando un “accordo” ad hoc col premier austriaco già nel ‘46: ma non ne seguiranno, in ottica sudtirolese, mutamenti sostanziali, e il Trattato di Stato Austriaco del ’55 (l’agognata ri-acquisizione della sovranità) riaprirà brutalmente la ferita, con la richiesta esplicita di (ri) annessione del Tirolo cisalpino.

Lì si spalanca il decennio forse più difficile di tutta la parabola, come ricostruisce un altro libro-chiave, quello di Mauro Marcantoni e Giorgo Postal: Südtirol. Storia di una guerra rimossa (1956-67) (Donzelli, 2014.) Sulla spinta del break del ’55, il movimentismo autonomista-secessionista passa da un irredentismo strisciante (memore delle Katakombenschulen o “scuole clandestine di tedesco” organizzate da un mito locale, il presbitero Michael Gamper, avventurosa e ambigua figura di simpatie nazi-fasciste, almeno fino al ’38) a un terrorismo intriso di neonazismo pangermanista, concentrato nel Bas o Befreiungsausschluss Südtirol (“Comitato per la liberazione del Sudtirolo”) che ha tra i suoi leader figure estreme ed efferate come Norbert Burger. In una prima fase, quella spinta eversiva si traduce per lo più nella cosiddetta “guerra dei tralicci”, serie di attentati esplosivi ai cavi dell’alta tensione culminata nella “notte dei fuochi” (11 giugno ’61) con 37 cariche tra Bolzano e dintorni, una delle quali, legata a un pioppio di Salorno, costerà la vita al cantoniere Giovanni Postal, stradino dell’ANAS. In una seconda fase, tra ’64 e ‘67 - in primis per sabotare nuove, promettenti trattative tra i governi - degenera nel sangue di omicidi plurimi, culminati nelle stragi di Malga Sasso e Regina Vallona, in cui muoiono 15 esponenti delle forze dell’ordine italiane tra Carabinieri, Polizia e Finanza.

La svolta verrà esercitata nello stesso ’67 dall’allora Ministro degli esteri Aldo Moro, con l’avvio di trattative che porteranno al “pacchetto” dell’ottobre ’69 e finalmente allo Statuto di Autonomia del’72. Statuto che diverrà però operativo a tutti gli effetti solo vent’anni dopo, così che in quell’intertempo si insinueranno nuovi attentati, sia nel ’78 (acuiti dalla concessione del bilinguismo) che nell’88 (vedi quelli del gruppo Ein Tirol in scuole e uffici pubblici, per fortuna senza vittime). La progressiva, angosciosa conquista di un minimo di pacificazione passerà per rivelazioni inquietanti su una rete di opacità incrociate: quelle del governo austriaco, che mentre trattava con l’Italia copriva il terrorismo sudtirolese (vedi il Ministro Kreisky) e quelle dei servizi deviati italiani (l’allora SIFAR), che - svelerà un’inchiesta parlamentare tra fine anni ‘90 e inizio millennio - alimentava il terrorismo stesso per poter attuare rappresaglie controterroristiche e condizionare le trattative istituzionali.

Attraverso questo lungo percorso è più facile, forse, visitare i paesaggi sudtirolesi-altoatesini penetrando oltre il loro sembiante oggettivamente fiabesco: percepire - come in sovrimpressione - il vissuto tragico che li contrappunta, per superarlo senza rimuoverlo in modo qualunquistico, che è poi il modo migliore per incubarne le recidive. Vedere la stessa San Candido (o Innichen, o Sanciana in ladino, in ogni caso il meraviglioso luogo nativo di Jan) nella sua complessità, tra l’impatto immediato - il centro, la sublime Collegiata romanica, il profilo dolomitico, lo scorrere della Drava, e i diversi edifici delle sue dolorose memorie: su tutti, il sacrario militare e il cimitero del Burg, in cui riposano caduti sia dell’esercito imperial-regio che dell’Intesa; col secondo, in particolare (oggetto di severo restyling dal 2003) che richiama il vicino ospedale “di confine”, in cui venivano ricoverati durante la Grande Guerra, spesso in condizioni disperate, feriti e malati dell’uno e dell’altro fronte.

In quest’ottica, è anche più facile non stupirsi se in queste cittadine e in questi borghi si continua e continuerà a vedere il Rathaus e l’Apotheke (la farmacia) con le loro insegne antiche; e persino se in diversi bar o ristoranti ci si sente rivolgere la parola prima in tedesco che in italiano. Così come, venendo a JS, non deve sorprendere che l’italiano non sia la sua madrelingua (ha studiato fino alla medie in scuole tedescofone), né che il toccante necrologio scritto dalla famiglia per la morte di nonno Josef, nel gennaio di quest’anno, fosse rigorosamente in tedesco.

Si può, forse si dovrebbe, tifare ed empatizzare con Jan non nonostante la sua appartenenza o identità plurale, ma proprio per quello; per la storia complessa e drammatica che la sostiene e la sostanzia. In fondo, la sua identità di austro-italiano non è molto diversa da quella afro-italiana di Paola Egonu (così lei stessa si definisce): nel senso - è quasi umiliante doverlo chiosare - che tutto questo non depaupera, ma al contrario arricchisce il concetto stesso di “italianità”, espandendolo - a un tempo - oltre la propria rigidità burocratica e univocità antropologica, magari razziale e fenotipica, in cui tanti (non solo il generale Vannacci) vorrebbero confinarlo, secondo una visione così anacronistica, regressiva e lontana dalla realtà da assumere i contorni dell’allucinazione.

Semmai, vien da pensare con un brivido lungo a come il sentiero, nella biforcazione storico-bellica, avrebbe potuto prendere il ramo alternativo: al fatto che se gli Imperi Centrali avessero vinto la guerra (come succede con le forze dell’Asse in The Man of the High Castle di Philip Dick, altro autore che deve qualcosa a Borges) Jan non sarebbe stato un “atleta di confine”, ma un connazionale di Muster e Thiem “senza se e senza ma”. 

Seconda biforcazione: luce d’agosto (2001)

Possiamo così tifare ed emozionarci per Sinner come abbiamo fatto (e prima di noi i nostri padri) con altri campioni di quelle aree di confine: per Eugenio Monti da Dobbiaco (Toblach, in piena area-Sinner), altro rosso o meglio “il rosso volante" (Brera), forse il più grande bobbista di sempre; per fuoriclasse dello sci come Gustav Thöni da Stelvio (Stilfs), sul cui albergo di famiglia a Trafoi campeggia il nome bilingue (“Bella vista”= “Schöne Aussicht”), o Isolde Kostner da Bolzano; per Armin Zöggeler da Merano (Meran o Maran in ladino), se non il più grande, tra i più grandi con lo slittino; e per Dorothea Wierer da Brunico (Bruneck, Bornech), pluricampionessa mondiale di biathlon. Solo per citare alcuni picchi della catena.

Di Jan, colpisce innanzitutto come sia uno dei pochi di quelle regioni (insieme a un altro tennista, Andy Seppi, e al marciatore Alex Schwazer) a non appartenere a sport invernali; anche se, come vedremo, avrebbe potuto rientrare anche lui nel canone. Il punto è che prima del bivio disciplinare (dei “perché” del tennis), ce n’è uno anteriore, a lungo comprensibilmente velato di discrezione.

«Considero Jannik Sinner il riassunto di tutta la mia vita nel tennis…»: così Riccardo Piatti - il mentore-maieuta di Jan a partire dai 14 anni - nell’incipit del capitolo che gli dedica nella sua autobiografia (Il mio tennis, con Federico Ferrero, Rizzoli, 2020). Incipit impegnativo, in cui viene comunicata da subito - col sigillo di un autorità indiscussa - una conoscenza profonda del giocatore e del ragazzo, che infatti verrà confermata nelle pagine a seguire. Non a caso, Piatti è stato tra i primi - se non il primo - a rivelare un dettaglio di peso. Risalendo al primo incontro con Jannik - una giornata sulle piste di sci di Selva di Val Gardena, presenti anche i genitori, Hans Peter e Siglinde -, Piatti ne ricorda in particolare la conclusione, quando si apparta con Hans Peter per sondare la possibilità che venga accettata la richiesta di portare con sé il ragazzo al leggendario Lawn Tennis Club 1878 di Bordighera. Nel corso di una conversazione molto aperta, a un certo punto Hans Peter rivela come “tanto tempo prima” i dottori avessero detto a lui e a sua moglie “che non potevano avere figli”; e come loro, per nulla rassegnati, prima avessero adottato un bambino, Mark, e poi, “contro ogni pronostico” fosse arrivato “naturalmente” anche Jannik.

Ora, per quanto non frequentissimo, lo “schema riproduttivo” della famiglia-Sinner non è nemmeno così raro: anche perché i parametri statistici sull’infertilità sono proiezioni verosimili ma non certo infallibili. Se in questo caso ci colpisce particolarmente è perché - a posteriori - ne carichiamo il senso in rapporto alla nascita di un campione. Fatto sta che - zoomando su particolari omessi da Piatti - i Sinner adottano Mark (un bambino di Rostov sul Don, terra dei Cosacchi) nel ’98, quando ha appena nove mesi; e il 16 agosto 2001 arriva Jannik, che nell’immaginario di noi spettatori slitta subito - con un’ellissi temporale simile a quella della Vita è bella di Benigni, quando Guido e Dora scompaiono nella serra per baciarsi e il piccolo Giosuè ne esce correndo a sei anni - ai tratti di un paio di foto che lo immortalano con la fluente chioma fulva e tra le mani una racchetta più grande di lui.

Lì Jan di anni ne avrà quattro, forse cinque, l’età in cui comincia o ha cominciato da poco sia con lo sci che col tennis: è un bambino dai tratti elfico-efebici, da remote ascendenze Tudor o da angelo di quadro fiammingo (certi Van Eyck, l’Annunciazione di Memling). Sono due foto, guarda caso, sul rovescio bimane, già con l’impugnatura che verrà, con avambracci e polsi d’acciaio: una più difensiva, l’altra - meravigliosa - più offensiva, in ponderatio a gambetta sinistra alzata a sostenere la torsione, con lo sguardo vigile, prensile, cognitivamente aperto.

Quel piccolo corpo si distenderà via via in un giovane corpo da longilineo “nodoso e ‘nvolto”, rispondente ai canoni anatomo-morfologici dell’atleta contemporaneo riassunti da McClusky (“higher-faster-stronger”), ma - riguardo al tennis - deficitario per flessibilità e plasticità, oltre che per touch e manualità. Un corpo che ricorda quelli “sdenodati” (così Jacopone) di certi Cristi lignei della scultura medieval-rinascimentale tirolese, come quello nella chiesa di San Michele, proprio a San Candido; o certi autoritratti “naked” del grande Egon Schiele.

Ma è meglio non spoilerare, né rispetto al suo lungo adattamento (il distendersi della dinamica o meglio della dialettica innato-appreso), né rispetto alle analogie con l’arte e gli artisti.

Terza biforcazione: il perché (i perché) del tennis

Il caso più noto, almeno in tempi recenti, è ovviamente quello dei Big Three (Federer, Nadal, Djokovic). Tutti e tre, cioè, pur impugnando la racchetta - come Jan - tra i quatto e i cinque anni, appaiono da sùbito dotati in varie discipline, RF persino a pingpong, squash e badminton; e tutti e tre eccellono nel calcio, tanto da esserne tentati “professionalmente” in luogo del tennis; Nadal, in particolare, anche per il precedente “genetico” di uno dei tanti carismatici zii di famiglia, Miguel Ángel alias “Tarzan” o la “Bestia”, centrale difensivo nientemeno che del Dream Team blaugrana allenato da Cruijff. Del resto, due studi-spartiacque condotti dallo psicologo di Heidelberg Wolfgang Schneider su centinaia di promettenti kids tennistici (tra il ’78 e l’88, in collaborazione con la Federtennis tedesca), hanno dimostrato da tempo e una volta per tutte quanto incida - nel tennis molto più che in qualsiasi altro sport - l’essere dotati di qualità atletiche generali, per così dire “sottostanti”: in sintesi, vari tipi di abilità motorie e di intelligenza cinestetica, decisive perché un atleta eccella negli “intermittent work patterns” della sintassi tennistica. Schneider citava i casi esemplari dei quasi coetanei Boris Becker e Steffi Graf; con Steffi vista addirittura come “il perfetto talento tennistico”, in quanto sopravanzava tutti sia nella tecnica che - appunto - nelle qualità motorie di base (“basic motor skills”), tanto da essere pronosticata anche come possibile campionessa europea dei 1500 metri.

Come quella polivalenza costitutiva - aperta plasticamente, se non a tutti, almeno a vari sport, tra loro anche dissimili - si incanali e si affini verso il tennis, dipende poi da un mix di spinte deterministiche e contingenze casuali. Lo dimostra, di nuovo, proprio il caso dei Big Three, accomunati anche dal fatto di scegliere il tennis (o, in parte, esserne scelti) per motivi simili: sia perché incrociano delle sliding doors umane “funzionali” (Federer i genitori e il coach aussie Peter Carter; Nadal l’altro zio, Toni; Djokovic la maieuta Jeca Gencič); sia per l’impossibilità dichiarata di condividere con altri la responsabilità tecnica e agonistica della prestazione; per essere vocati più a uno sport individuale che di squadra.

Con la sua polivalenza iniziale, quindi, JS è in buona compagnia; nel senso che la predisposizione al tennis, da non confondere con la predestinazione, rientra in quei parametri. Altre foto di Jan bambino-ragazzo, al riguardo, ci colpiscono. Alcune, rispetto all’habitat altoatesino, sono quasi ovvie, come quelle dello sciatore dalla postura dinamica perfetta, da Zurbriggen più ossuto e macilento. Altre, più sorprendenti: vedi quelle - una in particolare - che lo mostrano calciatore filiforme e spigoloso, emulo di un Andreas “Andy” Möller o, meglio ancora, di un Thomas Müller, l’attaccante-aracnide del Bayern con cui condivide complessione e proporzioni (Jan 188 centimetri per 76 chili, TM 186 centimetri per 76 chili).

La scrematura verso il tennis è più o meno nota; anche se forse non alcuni dettagli risolutivi.

Caduta presto la tentazione calcistica, il giovane Jan combatte a lungo con quella sciistica, trascinando la fibrillazione amletica tra i due sport (anche per via dei successi tra i paletti, tra cui un titolo in gigante nel 32° Gran Premio Giovanissimi, 2009) fino ai quattordici anni. Il tennis comincia a praticarlo sistematicamente l’anno prima (2008), quando proprio nonno Josef lo accompagna ogni mattina alle sette al Circolo Tennis di Brunico, supplendo all’impedimento dei genitori, impegnati tra la cucina e i tavoli del Rifugio Fondovalle (Talshlusshütte) in val Fiscalina. Lì, il Rosso è notato dal suo primo maestro, Heribert “Hebi” Mayr, che resta impressionato dalla facilità “dei colpi e degli spostamenti”, tanto da informarne il “collega” Andrea Spizzica (ex buon tennista, arrivato al n°327 ATP), che in principio lo inquadra in un gruppo di diversi altri talenti della Pusteria: “le sorelle Ploner, Hopfgartner, Berger…”. La testimonianza di Spizzica è preziosa perché descrive tratti fondativi: partito con dialoghi beckettiani (Spizzica “zero tedesco”, Jan “poche parole di italiano”), il rapporto maestro-allievo decolla “molto lentamente”, come quasi tutti i rapporti di Jan, e accompagnando il ragazzo fino alla semifinale di Coppa Lambertenghi e alla finale nazionale under 13, il tecnico resta impressionato dalla sua “grande voglia di apprendere “(la “spugna” che tutti poi descriveranno).

La virata definitiva è alla fine spiegata da Jannik stesso come meglio non si potrebbe, e molto c’entra proprio la pulsione cognitiva all’auto-correzione, inseparabile da quella verso la vittoria, troppo spesso elusa nelle descrizioni caratteriali che lo riguardano: “Nel tennis, se perdo un punto, cerco di rifarmi in quello successivo; lo sci questo non lo consente. Se sbagli sei fuori, o non vinci. E se io non vinco, sto male. Non ci dormo. E non sono tipo da fare spallucce e passare oltre. Mi arrovello sul perché, e devo trattenermi per non scendere in campo di notte, per allenarmi e correggere gli errori che ho commesso”. Più tardi, aggiungerà un paio di chiose: la prima, sulla paura, nello sci molto superiore (quella di “rompersi un braccio, o l’osso del collo”); la seconda, una sentenza: “Sciare mi piace, ma non è un gioco. E a me piace giocare”.

Quarta biforcazione: l’addio ai monti

Imboccato il sentiero del tennis, decisiva è la tappa - la biforcazione o sliding door “interna” - del trasferimento a Bordighera. Di fatto una svolta, che come molte svolte ha un innesco accidentale.

Protagonista è il vicentino Massimo “Max” Sartori, coach-mentore storico di Andreas “Andy” Seppi (altro altoatesino) ma coach anche di Cecchinato, Karin Knapp, dello stesso Simone Vagnozzi. Siamo nel 2014: da poco a Bordighera con Riccardo Piatti, Sartori riceve in novembre una telefonata da Brunico: è l’ex allievo Alex Vittur, che lo costringe, più che esortarlo, a “visionare assolutamente” un ragazzino sensazionale. Sartori coglie l’occasione del Challenge di Ortisei, cui deve partecipare proprio il suo allievo Seppi, combinando un incontro-allenamento di “Andy” col ragazzino. Ma al giorno fissato - l’8 - Seppi si sente male, così che Sartori decide di prenderne il posto. Ne uscirà “distrutto”: “Jannik era un tredicenne, io un quarantaseienne ancora in piena forma che insegnava tennis da quando ne aveva venti: beh, mi mise in difficoltà, non ho mai sudato tanto in vita mia”. Sartori allerta allora Piatti, che sulle prime - per sua stessa ammissione - non è “altrettanto ricettivo”. Lo sarà quando Sartori, senza avvisarlo, invita Jannik a uno stage in Liguria: lì, Piatti ha un potente deja vu, ricordando quel ragazzino alla Coppa Lambertenghi (cui l’avevano portato Mayr e Spizzica): nonostante ne fosse uscito sconfitto 6-1, 6-2, Piatti era rimasto impressionato dal “grande senso della posizione”. Il passaggio a Bordighera, a quel punto, avverrà sia col placet dei genitori, sia - soprattutto - per ferrea volontà di Jan. Anche se “l’addio ai monti” sarà graduale, con puntate liguri “di qualche giorno” e “per brevi periodi” prima del trasferimento definitivo.

Foto di Inggrid Koe.

Come ogni vero maieuta, Piatti ausculta e plasma. Ausculta, nel senso che lo avvincono, in JS, tratti in parte coincidenti con quelli osservati da Mayr e Spizzica: su tutto, il modo di colpire la palla (“come se per lui fosse un movimento automatico”) e il tennis naturalmente offensivo, con la ricerca costante di vincenti e assalti a rete, quando i coetanei si rifugiano spesso in passanti e/o in pallonetti difensivi. E plasma,

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