
Non sappiamo come andrà, ma l’arrivo di Vardy in Italia ci ha già regalato un momento irripetibile. L’attaccante inglese viene portato in un parcheggio pieno di tifosi della Cremonese da un NCC e quando esce il suo look è già oltre qualsiasi aspettativa. Occhi stralunati, cappello plasticato blu con la scritta BALLER (probabilmente acquistabile solo nel metaverso di Jamie Vardy), con i pantaloni della tuta stretti intorno alla caviglia. Un manifesto di stile della working class inglese negli anni 2000.
L’apice si raggiunge però quando compare un tifoso che ha la sua maglia del Leicester della stagione 2023/24, quando non era nemmeno in Premier League. Vardy comincia ad autografare il numero nove sulle sue spalle, ma quello rilancia: «Vardy, Vardy, please», gli dice come in una canzone degli Smiths indicandosi il polpaccio dove ha un tatuaggio di Jamie Vardy con la faccia tirata da un’esultanza rabbiosa. Jamie Vardy deve autografare la faccia di Jamie Vardy e c’è un attimo di esitazione in cui deve decidere dove mettere la sua firma senza apparire irrispettoso nei confronti se stesso, optando alla fine per la tempia (chissà se ha pensato che è lì che si farebbe un tatuaggio). Mentre sta apponendo la sua firma sulla pelle di uno sconosciuto, tenendogli la gamba in una posa di strana deferenza, notiamo che il tifoso in questione indossa le Vans Slipon a scacchi: a loro volta un manifesto di nostalgia nei confronti della scena skate-punk britannica e americana dei primi anni 2000. La generazione che non poteva permettersi di dire di aver vissuto i grandi gruppi del Novecento e si è dovuto accontentare della schiuma rimasta sulla storia del rock nei primi anni del nuovo millennio. I Green Day, gli Offspring, i blink-182, i Rancid.
In questo video ci sono due province che si incontrano. Jamie Vardy, nato nella Sheffield che fu cuore della Rivoluzione Industriale, ex operaio e fino al 2012 ai margini del calcio professionistico. E Cremona, città-esempio della tradizione bottegaia italiana, parte del sistema produttivo del Paese e fulcro dell’arte liutaia. Insieme sono comparse sotto forma di foto sui nostri cellulari nelle ultime ore: Jamie Vardy e un violino, uno accanto all’altro, a mostrarci la bellezza che può nascere dagli accostamenti più assurdi e inaspettati.
Come siamo arrivati a questa foto? Il calciomercato conserva un nocciolo di mistero che qui su Ultimo Uomo, durante le sessioni in cui è aperto, proviamo a raggiungere con una rubrica settimanale che si chiama: “I movimenti di mercato più assurdi della settimana”. Non sappiamo quasi mai perché un giocatore si è ritrovato lì dove non ce lo saremmo mai immaginato, e questa è una parte del bello del calciomercato, una macchina che sembra poter congiungere punti irraggiungibili in modi sorprendenti e inaspettati.
Jamie Vardy alla Cremonese è forse IL movimento di mercato più assurdo della settimana, di tutte le settimane, ma l’entropia è solo una parte del fascino di vederlo a Cremona, a farsi le foto con agenti immobiliari come se fosse un idolo locale. Un centravanti cresciuto in una cittadina qualsiasi della Padania lombarda che ha trovato la sua consacrazione nelle serie minori italiane.
Fermarsi di fronte a questa entropia, ammirarla come se fosse solo un oggetto bizzarro, sarebbe però un peccato. Vardy alla Cremonese fa presa sulla nostra nostalgia per il periodo d’oro del calcio italiano degli anni ’80 e ’90. Di Zico a Udine, di Gullit a Genova, di Maradona a Napoli se vogliamo, in una sfumatura che nel corso degli anni ha preso una piega via via più ironica o addirittura grottesca, e che ci ha portato a Ronaldinho a Milano, a Mario Gomez a Firenze, a Ribery a Salerno, fino per l’appunto a Vardy a Cremona. In questo qualcuno ci vede una venatura di decadenza, ed è difficile dargli torto in una sessione di mercato in cui in Serie A sono arrivati anche Luka Modric, Edin Dzeko e Kevin De Bruyne, per una media età, tra questi, di 37 anni. Negli anni ’80 e ’90 i campioni finivano in provincia perché nei grandi centri ce n’erano troppi, e i soldi erano talmente tanti che il debordamento - chiamiamolo così - era inevitabile. Oggi vengono più per mancanza di coraggio imprenditoriale: perché i soldi sono pochi ma le idee ancora meno.
Vardy alla Cremonese però suona diversamente, e si potrebbe chiudere il discorso dicendo che Vardy è Vardy e la Cremonese è la Cremonese. Per andare più a fondo bisognerebbe sapere qualcosa sulle motivazioni che hanno spinto l’attaccante inglese ad accettare l’offerta dei grigiorossi, e vi preannuncio che in giro non c’è molto e temo che anche con le prime interviste ufficiali non si riuscirà ad andare molto oltre le solite frasi di rito. Un’ipotesi però mi ha colpito. L’ha riportata su The Athletic il giornalista Stuart James, secondo cui Vardy “è attratto dall’idea di giocare nella prima serie italiana, e di farlo in una underdog come la Cremonese”.
Dandola per buona, ci sono almeno due cose notevoli in una motivazione di questo tipo. La prima ovviamente è che Vardy voglia giocare in Italia, il che è già strano. Vardy è nato nel cuore dell’Inghilterra, forgiato calcisticamente dai terribili campi inglesi di provincia dove i tifosi ti insultano a un palmo dal naso, ed è stato cresciuto in una di quelle rivalità un po’ polverose del calcio inglese che però a livello locale hanno ancora grande rilevanza, quella cioè tra Sheffield United e Sheffield Wednesday. Non sembra una persona che potesse interessarsi al calcio italiano al tempo o comunque questa fascinazione non è mai emersa, almeno da quanto mi risulta. È puro esotismo allora? L’idea un po’ posticcia dell’Italia da cartolina, che nel mondo anglosassone fa ancora presa?
Il secondo aspetto notevole di una motivazione di questo tipo è quello di considerare la Cremonese una underdog, cioè, secondo il dizionario Oxford, “una concorrente da cui ci si aspetta che abbia poche possibilità di vincere un incontro o una competizione”. In Italia, persino nella stessa Cremona credo, nessuno nemmeno si sognerebbe di considerare la Cremonese una underdog, un termine che sottintende che quelle possibilità di vincere, per quanto poche, ci siano. La possibilità che la Cremonese possa diventare la “Leicester italiana” e che Vardy sia lì proprio per quello è accolta al massimo con un sorriso di scherno, anche dopo i sei punti raccolti dopo le prime due partite. Un sorriso di scherno che è figlio della natura castale del nostro calcio, e dell'avversione per l'ambizione e quindi per il conflitto che prova in maniera quasi naturale la provincia italiana.
Se avete visto il video dell’arrivo di Vardy a Cremona per intero di sicuro avrete notato il tifoso che a un certo punto grida: «Bring us to Europe, Conference League please!», e la cosa notevole non è che il massimo dell’immaginazione che Vardy ha portato a Cremona sia la Conference League, cioè un settimo posto in campionato, ma che quella richiesta, già urlata in maniera vagamente ironica, sia accolta da grandi risate. In quell’ironia, in quell’ilarità c’è tutta la differenza tra la provincia borghese e compiaciuta italiana, e quella depressa e a volte rabbiosa inglese di cui Vardy, nel calcio, è un grande esponente. Tra chi, in fondo, sta bene al proprio posto e non chiede altro che un campionato dignitoso, e chi per tutta la propria vita ha lavorato per dimostrare che il proprio posto gli faceva schifo, e che per questo ha vinto la Premier League nel modo più assurdo e inaspettato possibile.
Questo momento ci porta a LA domanda e cioè perché Vardy sia proprio a Cremona, e non, che so, a Londra o, anche dando per buona la sua voglia di giocare in Serie A, a Bologna o a Firenze o Udine, ma anche a Roma o a Milano (scarto Riyadh o qualsiasi altra città del Golfo Persico perché la realtà ci ha portato già oltre, ma sarebbe stato molto meno assurdo se a 38 anni Vardy avesse voluto mettere qualche altro soldo da parte accontentandosi di una sfida meno impegnativa). Sia chiaro, non voglio suonare irrispettoso né nei confronti di Vardy né nei confronti della Cremonese, ma credo siano domande interessanti da sollevare. Possibile che Vardy, che viene da una stagione da 9 gol nel campionato più competitivo del mondo, non avesse offerte nemmeno dalla bassa Premier League? Le ha scartate per non mancare di rispetto ai tifosi del Leicester? E, anche se fosse così, perché scegliere proprio una neo-promossa della Serie A, quando il livello che ha dimostrato Vardy in questi anni vale, almeno sulla carta, una media-alta classifica di uno qualsiasi tra i cinque principali campionati europei? A nessuno è venuto in mente? O, nella categoria dei giocatori a fine carriera in cui volente o nolente ormai si ritrova, Vardy non era ritenuto all'altezza di squadre più grandi?
Lo so che in molti considerano Vardy, in sostanza, uno scarsone - uno scarsone per essere accolto così, si intende. Uno cioè che è arrivato dove è arrivato solo con il sacrificio e la forza di volontà. Ho letto anche chi spiega proprio così la decadenza della Serie A: una volta in provincia ci andava un giocatore come Zico, adesso ci va uno come Vardy, e ci siamo capiti.
È un fraintendimento che colpisce spesso i giocatori inglesi working-class, chiamiamoli così - che ha colpito un giocatore ancora più grande come Rooney, e che, come avevo scritto in un articolo di qualche anno fa, forse ha colpito inconsciamente lo stesso Vardy, che un anno prima di segnare il suo primo gol in Premier League a 27 anni stava pensando di abbandonare il calcio per diventare il promoter di una discoteca ad Ibiza.
La storia di Vardy è stata raccontata mille volte: il provino andato male allo Sheffield Wednesday, il lungo purgatorio tra i non professionisti, il lavoro da operaio, le risse nei pub, la libertà vigilata e infine il miracolo di Leicester. Vardy si porta dietro quest’aura che da una parte lo nobilita, almeno agli occhi di chi crede che queste storie costituiscano il nocciolo duro della purezza del calcio, ma che dall’altra lo fanno anche passare per un giocatore meno nobile e tecnico di quanto in realtà non sia. Che fanno passare in secondo piano i 145 gol in Premier League in appena 10 stagioni, i 200 in 500 presenze con la maglia del Leicester segnati praticamente in qualsiasi modo. Vardy che sembra in perenne lotta con i difensori e con i tifosi avversari per dimostrare che lui, lì, ci può stare e che se non la pensano così: che si fottano. Che persino dopo aver segnato nella sua ultima partita in Premier League, contro l'Ipswich, è andato a zittire la curva avversaria che cantava il nome di Wayne Rooney per il celebre caso che ha coinvolto le rispettive mogli.
Vardy che però, proprio da questi atteggiamenti, sembra portarsi dentro questa sottovalutazione (la sua autobiografia si intitola: “Dal nulla”), che, va detto, non è che sia del tutto frutto della sua immaginazione. I suoi trasferimenti, spesso record per le cifre che hanno coinvolto, sono stati spesso contestati dai suoi nuovi tifosi (proprio per le cifre che hanno coinvolto) e ogni volta la fiducia se l’è dovuta conquistare, nonostante i suoi ex compagni delle leghe non professionistiche siano tutti sostanzialmente concordi che fosse decisamente troppo forte per quelle categorie. Una statistica strana che in pochi riportano, forse proprio perché cozza con la sua immagine da calciatore operaio, è che Vardy, quando è passato dal Fleetwood Town al Leicester, è diventato il primo giocatore della storia del calcio inglese a essere stato acquistato per un milione di sterline da un club non professionistico.
È possibile allora che, anche quest’estate, Vardy sia stato considerato troppo poco? Che ci abbia pensato solo la Cremonese, tra tutte le squadre a cui avrebbe potuto fare comodo? E, anche fosse così, perché Vardy ha accettato? E se davvero stesse immaginando di poter ripetere quel miracolo a Cremona, dove non solo nessuno se l’aspetta ma nessuno nemmeno ha l’ambizione di sognarlo? Nel caso saremmo di fronte a un doppio fraintendimento: che Vardy sia a Cremona perché sostanzialmente oggi è quello il suo livello; e che Cremona sia davvero una underdog del campionato italiano. Che ci sia cioè una speranza, anche minuscola, di vincerlo.
I giocatori arrivati all’età di Vardy vogliono spesso dimostrare a se stessi e al mondo di valere ancora qualcosa, magari di fronte alla mancanza di offerte ritenute all’altezza. È per questo, in fondo, che ci gasano gli arrivi di Modric e de Bruyne nonostante siamo coscienti che il loro meglio sia alle spalle. L’idea che un giocatore si voglia sentire ancora vivo, che non percepisca il calcio solo come un lavoro ma che gli dia un significato più grande, ci esalta, e che per farlo abbia scelto proprio la Serie A ci esalta ancora di più, ci fa sentire nobilitati e più giovani, e non credo ci sia nulla di male in questo.
Quella di Vardy però non è una storia di grandezza, ma quella di uno che ha compiuto l’impossibile, che è venuto “dal nulla” per portare a termine una delle più grandi imprese sportive di sempre. Dimostrare di valere ancora qualcosa, per lui, è tutto un altro paio di maniche. Che regalo sarebbe se la Cremonese si rendesse conto a un certo punto che quelle maniche sono anche le sue?