Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Jakob Ingebrigtsen, cattivo, arrogante, fenomenale
18 set 2025
La storia del mezzofondista che vuole dimostrare al mondo «quello che la razza umana può fare».
(articolo)
44 min
(copertina)
IMAGO / Bildbyran
(copertina) IMAGO / Bildbyran
Dark mode
(ON)

Mentre corri può succederti un fatto spiacevole. Un ago sottilissimo punge un gigantesco tirante di tessuto molle a ripetizione: a ogni spinta, a ogni appoggio. È l’infortunio al tendine d’Achille, tra i più diffusi tra chi corre. C’è la tendenza a ignorare i primi segnali, quasi non ci si fa caso. La caviglia viene messa sotto stress per capire se quel fastidio se ne possa andare da solo nel giro di pochi giorni. Tra runner si dice “correrci sopra”: di solito, l’insistenza peggiora la situazione. Il fastidio degenera in infortunio. Alla fine la prognosi è da due settimane a diversi mesi, e non è rara la possibilità di ricadute.

Jakob Ingebrigtsen non ha un bel rapporto con i propri tendini. Ha tatuato sulla spalla destra il busto di Achille e sulla parte interna del bicipite dello stesso braccio l’omonimo tendine, colpito dalla freccia mortifera. Forse si rivede nell’eroe omerico e nel suo sfortunato destino mentre nella primavera del 2025 affronta l'ennesimo infortunio al tendine d'Achille destro, il più grave che lo abbia mai colpito, arrivato quasi per caso al termine di una stagione indoor trionfale - dominata in lungo e in largo con due medaglie d’oro mondiali, due medaglie d’oro europee e due nuovi record del mondo. Alla fine, per riprendersi completamente di mesi gliene sono serviti cinque. A fine agosto annuncia il superamento dell’infortunio con un post social che cancella gli ultimi residui dubbi sulla sua partecipazione ai Mondiali di atletica in programma per Tokyo tra il 13 e il 21 settembre 2025. Dopo essere stato clamorosamente eliminato nelle batterie dei 1,500 metri, correrà i 5,000 metri: distanza in cui è imbattuto da cinque anni.

Tokyo per lui è un luogo speciale. Lì nel 2021 ha vinto il suo primo oro olimpico, sui 1,500 metri, mantenendo la sua promessa di predestinato, annunciata da altri anni prima di lui, per lui. In primo luogo, l'ex allenatore, nonché padre, Gjert Ingebrigtsen, che ha cucito addosso a Jakob una carriera internazionale già da prima che il diretto interessato potesse ricordarlo. In secondo luogo la stampa, che intervista dopo intervista ha calcato la mano sul potenziale sconfinato di un atleta generazionale. Nel racconto su Ingebrigtsen, via via, cominciano a emergere dettagli più opachi nella sua personalità, nella sua ossessione per la vittoria. Tra gli interstizi di un talento fuori scala ecco montare, in pista o ai microfoni, qualcosa di non propriamente piacevole. Come definirla? Arroganza.

L’ambiente dell’atletica coccola i diamanti come Ingebrigtsen, ma non perdona l’arroganza. Non la perdona il pubblico, per cui diventa insopportabile; non la sopportano i colleghi, che iniziano a compiacersi dei suoi fallimenti.

Eppure, con il tempo, dal buio di un rapporto complicato con la sconfitta e con il suo passato, la sua storia di campione olimpico, mondiale e detentore di tanti record è diventata anche altro: un redemption arc per il villain ideale, in grado di fare i conti con se stesso e trovare la forza di mettere a posto le cose per conto proprio senza snaturarsi.

TI PRESENTO GLI INGEBRIGTSEN
Tra il 1988 e il 2013 Tone e Gjert Ingebrigtsen hanno dato alla luce sette figli, sei maschi e una femmina. Due di questi sono tra i mezzofondisti più forti d’Europa e un altro è professionista fin dalle scuole elementari. Si chiamano Henrik, Filip e Jakob e sono tutti allenati dal padre. Il fatto è strano, e quindi uno dei più grandi canali televisivi in Norvegia (NRK1) ha finanziato una docuserie sulla famiglia: Team Ingebrigtsen. Dal 2016 il reality-family-drama li ha resi la famiglia più nota della Norvegia, i “Norwegian Kardashians”, come li ha chiamati il Times.

Come in ogni famiglia norvegese che si rispetti, tutti i passi della crescita dei fratelli Ingebrigtsen sono accompagnati da altrettante spinte sugli sci da fondo. In Norvegia è una cosa seria: non c’è ragazzo norvegese che tra i suoi idoli sportivi insieme a Erling Haaland e Magnus Carlsen non menzioni leggende viventi dello sci di fondo come Johannes Høsflot Klæbo o Marit Bjørgen. Lo sci di fondo, però, non regala ai giovani Ingebrigtsen grosse soddisfazioni per via della poca competizione - nella Norvegia meridionale, a livello del mare, d’estate la neve non c’è e sciare per mesi dentro ai garage, sugli sci a rotelle, non è proprio il massimo.

Il clima di Sandnes, città dove sono cresciuti e vivono tuttora gli Ingebrigtsen, nel Sud-Ovest della Norvegia, è quello che ci si può aspettare se vivi a due passi dal Mare del Nord e sullo stesso parallelo del punto più settentrionale della Gran Bretagna: pioggia (in questa parte del Paese si arriva a 200 giorni di pioggia all’anno), vento e cieli grigi. Certo, non le condizioni migliori per mettere un paio di scarpe e uscire a correre, ma di sicuro le condizioni ideali per temprare il carattere di chi se ne frega e decide di farlo lo stesso. Il passaggio dagli sci alle scarpe da corsa è naturale, e il mezzofondo diventa la perfetta attività alternativa allo sci nei periodi di clima mite.

Al centro del passaggio che porterà al dominio degli Ingebrigtsen sull’atletica norvegese, però, c’è soprattutto il maniacale approccio di Gjert Ingebrigtsen all’allenamento e alla gestione dell’intera esistenza dei suoi figli. Il metodo è basato su un’applicazione rigorosa della scienza dello sport e su una personalizzazione estrema dell’allenamento. È il risultato di maggior successo di quello che ormai è noto come “metodo norvegese”, un distillato degli ultimi quarant’anni di gestione degli sport di endurance in Norvegia, dal canottaggio alla corsa e al triathlon, passando per lo sci nordico. La scienza è l’unico binario da seguire, non esistono strade diverse da quelle dettate dai valori del proprio organismo. La chiave del lavoro di chi utilizza il metodo norvegese è tenere sotto controllo la fatica, ovvero mantenere la concentrazione di lattato (un prodotto dell'acido lattico, chiamiamolo così per comodità) nel sangue sotto una certa soglia (costantemente verificata con un misuratore apposito). Non c’è bisogno di arrivare al massimo dello sforzo per ottenere i risultati migliori: basta farne uno “medio” per tanto tempo. In questo modo il fisico è meno stressato, può lavorare di più e per più tempo.

Nonostante il modello di crescita sportiva dei bambini e delle bambine in Norvegia si basi sull’importanza dell’attività fisica come esperienza positiva e ricreativa, e che la competizione debba essere introdotta solo in un secondo momento, i due sportivi di maggior successo del Paese sono frutto di un modello totalmente opposto. Jakob Ingebrigtsen ed Erling Haaland sono nati a meno di due mesi l’uno dall’altro, sono stati allevati a poche miglia di distanza da padri ingombranti ed esigenti, e fin dalle scuole elementari sono stati incanalati in un percorso di vita a senso unico. Mentre in Norvegia i ragazzi e le ragazze non hanno paura di fallire nello sport (c’è sempre la “vita vera” a disposizione in un luogo economicamente e socialmente sicuro) non si può dire lo stesso se ad aspettarti a fine allenamento ci sono le mura di casa Ingebrigtsen.

*

La competizione comincia in casa tra fratelli. Ogni gara, ogni allenamento, ogni pasto, ogni serata è l’occasione per confrontarsi, sfidarsi, rilanciare. Più che una casa è un laboratorio. I figli più grandi servono come prove generali per arrivare a quello più piccolo: l’infallibile opera definitiva. Allenato come un professionista dall’età di otto anni.

Ogni fratello ha il suo carattere. Henrik è quello con la testa sulle spalle. Il più ironico, autoironico ed estroverso. Lui e Jakob sono due gocce d’acqua se non fosse per i vistosi baffi a spazzola, il pizzetto e i capelli castano scuri ingellati e leccati all’indietro. Filip è il più defilato, il più serio e il meno esuberante, il più alto e il meno robusto: e anche quello con la carriera più sfortunata. L’unico dei fratelli senza un tatuaggio: ordinato, taciturno, riservato. Con Henrik e Filip negli anni dieci dell’atletica europea la bandiera norvegese è stata allo stesso tempo una novità e una certezza. I due Ingebrigtsen maggiori sono stati in grado di vincere due titoli europei nei 1,500 metri - Henrik nel 2012 (secondo nel 2014 e terzo nel 2016) e Filip nel 2016 (terzo ai Mondiali nel 2017 e primo agli Europei di campestre nel 2018) - oltre che di abbassare di oltre sei secondi il record nazionale sulla stessa distanza, che resisteva da quindici anni (il 3’37”57 del campione olimpico degli 800 metri di Atlanta ’96 Vebjørn Rodal), portandolo progressivamente dal 3’35”43 della finale Olimpica di Henrik ai Giochi di Londra 2012 (quinto al traguardo) fino al 3’30”01 di Filip nella tappa di Diamond League di Monaco del 2018.

Il nuovo record nazionale di Filip in quella tappa di Diamond League del luglio 2018, però, passa in secondo piano. Gli enormi archi in marmo dello stadio monegasco sono la cornice dell’epifania di Jakob - ancora diciassettenne ma già oltre il metro e ottanta di Henrik - che immediatamente alle spalle di Filip abbassa il proprio primato personale di oltre otto secondi, portandolo a 3’31”18. Il fatto che quel risultato abbatta il nuovo record europeo Under 20 di oltre quattro secondi è solo la dimostrazione numerica che nel mezzofondo mondiale sta per fare capolino un fenomeno mai visto prima. Non che ci sia bisogno dei numeri per capirlo: basta guardare Jakob Ingebrigtsen muoversi sulla pista. Con la corsa sempre composta, il busto leggermente proteso in avanti, il volto gelido e impassibile, i piedi che danno l’idea di accarezzare la pista, le spalle immobili, l’angolo delle braccia mai troppo aperto, il carattere di dare uno strattone al campione olimpico in carica a inizio gara: a Monaco corre non solo un ragazzo norvegese che sta per riscrivere la storia del mezzofondo e dell’atletica leggera, corre il prototipo di un atleta generazionale in divenire.

*

Il giorno del dicembre 2016 in cui l’Europa ha il primo assaggio del talento di Jakob Ingebrigtsen è particolarmente caldo a Chia, Sardegna, dove si svolgono i Campionati Europei di corsa campestre. È il più giovane atleta dei campionati; ha sedici anni, corre nella categoria Under 20 ed è un’incognita per praticamente chiunque non sia norvegese. Era presente ai mondiali Under 20 dello stesso anno, ma il nono posto sui 1,500 metri non lo fece brillare. Il terreno pianeggiante a due passi dalla laguna è secco dal sole e dal caldo: forse il piccolo Ingebrigtsen, dall’estremo Nord, non è preparato all’idea di correre a 25 gradi, o almeno non a dicembre. Gli ultimi duecento metri sono tutti una smorfia di dolore, le ginocchia non si alzano più, le braccia e le spalle sono fuori controllo.

È una delle rarissime volte in cui abbiamo avuto la possibilità di vedere l’inscalfibile Jakob fare talmente tanta fatica da preoccuparci di non riuscire a vederlo arrivare sulle proprie gambe oltre la linea del traguardo. Nonostante il patimento finale vince: poi alza l’indice della mano destra al cielo e si butta a terra cadaverico. 

Non è la prima volta che si può apprezzare quell'indice destro puntato verso l’alto in segno di vittoria, e non esiste nulla di più semplice di quell'esultanza tanto sobria - da atleta prossimo al ritiro - per capire chi è il giovane Jakob Ingebrigtsen. Un anno prima il dito era stato sventolato per la prima volta.

Nel 2015, fuori dalla Scandinavia, difficilmente si può venire a sapere del fatto che un ragazzino di quattordici anni abbia corso 3’48” sui 1,500 metri e 1’52” sugli 800. Sono risultati incredibili per quell’età, certo: dieci anni fa, però, il sensazionalismo che oggi permea l’atletica era molto più contenuto, e i tempi del quattordicenne Ingebrigtsen non bucano la bolla locale.

Nell’autunno di quell’anno vince l’oro ai campionati nordici di corsa campestre (un incontro tra Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia) correndo contro ragazzi anche quattro anni più grandi. Il suo stile di corsa - composto, regolare - è ancora acerbo, ma già ama portare l’indice al cielo al traguardo.

Quando non vince e non può alzare il dito al cielo, però, per Ingebrigtsen è una delusione assoluta e totale. C’è un video che gira il fratello ai campionati nazionali di corsa campestre ad aprile 2016. Jakob arriva secondo nella prova corta (circa 3,000 metri), ha perso per pochi decimi da un avversario undici anni più grande di lui. E tutto quello che riesce a dire è: «Il secondo classificato è il primo dei perdenti».

Sei mesi dopo il rischio di vederlo collassare ai vincenti Europei di campestre a Chia, Ingebrigtsen torna in Italia per i Campionati europei Under 20 su pista di Grosseto (luglio 2017) con un nuovo ciuffo biondo e l’idea di vincere, non una, non due, ma tre gare. Ha ancora sedici anni e quella settimana vince i 5,000 metri e i 3,000 metri con siepi. Non gli riesce, però, la tripletta per una caduta nella finale dei 1,500 metri.

Quella afosa settimana di gare di luglio, però, è anche l’occasione per scoprire quale sia il carattere di Jakob Ingebrigtsen, e il biglietto da visita non è dei migliori. Ogni rettilineo finale è l’opportunità per mostrare un atteggiamento poco gradito al pubblico dell’atletica leggera, che non gradisce l'ostentazione della propria nonchalance in faccia agli avversari al picco del loro sforzo fisico. Ingebrigtsen inizia a essere percepito come uno sbruffone antipatico ancor prima di iniziare a mostrare del tutto il proprio talento. Talmente antipatico che quando cade a trecento metri dal traguardo nei 1,500 metri sulle tribune non risuona un grande “no”, come succede di solito quando un atleta finisce a terra. Una voce che gira in quei giorni parla addirittura di una combutta anglo-spagnola per sbarrargli la strada e, magari, “per sbaglio”, farlo cadere. È solo una voce, per l'appunto, ma anche solo il fatto che sia uscita è segno che il clima intorno al giovane norvegese non è proprio di simpatia.

Vince due titoli Europei Under 20 a neanche diciassette anni compiuti e l’unica cosa che gli viene da dire è: «Sono stati dei campionati ok». È strano, per un sedicenne a inizio carriera, no? L'immagine del presuntuoso ci metterà anni a togliersela di dosso.

*

Dal 2016 al 2018 Jakob ha preso consapevolezza dei propri mezzi (molti) e dei propri limiti (pochi). Vincere nelle categorie giovanili a un certo punto diventa infatti troppo facile.

Da nome nuovo si presenta ai suoi primi Europei assoluti, a Berlino. Durante questa edizione i 1,500 metri sono un momento trionfale nella storia degli Ingebrigtsen: Henrik, Filip e Jakob accedono agilmente in finale, e qui mostrano la vera forza della squadra. I tre si muovono all’unisono, come una squadra di ciclismo che negli ultimi chilometri prende posizione per la volata. Insieme partono dal fondo del gruppo e a metà gara sono in testa: il più piccolo dei tre decide di fare il ritmo. Da quella posizione non lo sposta nessuno, mentre i due fratelli maggiori scivolano indietro negli ultimi duecento metri. Il testimone di famiglia passa definitivamente nelle mani di Jakob - bandiera norvegese ed elmo da vichingo annessi.

Il giorno dopo si consuma un altro dei momenti più iconici della storia sportiva degli Ingebrigtsen. Durante la finale dei 5,000 metri ci sono sia Jakob che Henrik. La volata fratricida per l’oro tra i due è emblematica: la progressione irresistibile del più giovane costringe il più vecchio a raddoppiare le frequenze della sua corsa robotica già a trecento metri dal traguardo - come a voler prendere per i capelli il fratellino che lo sta staccando di fronte a 70mila persone. Le frequenze di Henrik si spengono nel momento in cui aumentano di colpo quelle di Jakob, che fino a un centinaio di metri dal traguardo sembrava stesse scortando il fratello maggiore in jogging. Da dietro gli occhiali specchiati Henrik può solo guardare Jakob vincere per la prima volta quei 5,000 metri che diventeranno il suo luogo sicuro.

Di quella gara si ricorda soprattutto un momento: durante una frazione di gara particolarmente rilassata, Jakob si gira verso Henrik, visibilmente concentrato, e gli chiede il cinque. Passa qualche metro: nessuna risposta. L’espressione sul volto di Henrik, nascosto dietro alla sua maschera di baffi e plastica lucente, è indecifrabile. Alla fine, però, arriva una reazione: Henrik tira un piccolo schiaffo sul dorso della mano di Jakob, quasi accompagnandola verso la sua posizione naturale durante la corsa, come per nascondere furtivamente lo sconveniente gesto del fratello minore; poi, riprende per la sua strada.

Il suo debutto da campione continentale in carica arriva nel 2019 ai Mondiali di Doha, ma qualcosa va storto. Ingebrigtsen rimedia due batoste: è quarto nei 1,500 e quinto nei 5,000 metri. Nell’eccitazione del trionfo europeo del 2018, Jakob ha rimosso la lezione di umiltà che Henrik ha provato a dargli a Berlino: per abbattere il dominio africano sui 1,500 metri - saldamente in mano al Kenya nella figura di Timothy Cheruiyot - non c’è spazio per scherzare. Dopo che la pandemia gli ha regalato un anno di preparazione extra per via dello slittamento delle Olimpiadi di Tokyo, alla sua prima partecipazione olimpica Ingebrigtsen ha l’occasione per mostrare al mondo innanzitutto un cambio di atteggiamento.

L'ESPLOSIONE INTERNAZIONALE
La finale olimpica dei 1,500 metri di Tokyo 2021 rappresenta il punto iniziale di una rivoluzione che Ingebrigtsen porterà nell’interpretazione delle grandi gare internazionali, in particolare le finali mondiali e olimpiche (dal 2021 a oggi ne ha corse in media più di una all’anno).

In un contesto in cui gli atleti sono storicamente orientati all’idea di una gara tattica e lenta, Ingebrigtsen adotta un approccio opposto e scommette sul proprio livello e sulla propria capacità di mettere a segno un grande tempo: sa che può fare una prova di livello assoluto (idealmente vicina al suo personale di 3’28”68 stabilito a Firenze tre anni prima), e agli avversari che vogliono batterlo chiede nientemeno che una prova di livello superiore. È un tema tanto semplice quanto controintuitivo, se è vero che per vincere una medaglia d’oro non serve puntare a un tempo specifico, ma solo assicurarsi di essere i primi a tagliare il traguardo. È un approccio che racconta tanto dell’imprinting ricevuto dal padre Gjert, e più in generale dell’idea di atletica di Jakob: un caos da semplificare il più possibile attraverso la solidità dei propri parametri fisici e l’esattezza dei numeri.

Allo stesso tempo è una strategia azzardata, che non tiene conto del fatto che durante una finale olimpica le variabili impazzite possano manifestarsi sotto tante vesti. La sera del 7 agosto 2021, nel silenzio dello Stadio Olimpico di Tokyo sanificato dall’assenza del pubblico sugli spalti, per Jakob Ingebrigtsen la variabile impazzita numero uno risponde al nome di Timothy Cheruiyot, l’incubo della prima parte della sua carriera internazionale. È il campione del mondo in carica e l’uomo del gruppo che avrebbe potuto seguirlo quasi per certo oltre la barriera dei 3’29”.

Cheruiyot è keniano, è nato nel 1995 e ha alle spalle una lunga carriera di primo piano nei 1,500 metri: è l’uomo della continuità del decennale dominio africano sul mezzofondo. Tra il 2016 e il 2021 domina Diamond League e Mondiali, battendo sistematicamente il promettente Jakob. Per dieci volte lui e Ingebrigtsen si sono incrociati in campo internazionale e per dieci volte Cheruiyot ha vinto gli scontri diretti.

Cheruiyot alle Olimpiadi di Tokyo è favorito ma non sottovaluta il suo avversario. Alla prima, immediata azione di Ingebrigtsen, che a neanche cento metri dalla partenza si mette in testa, Cheruiyot, con il suo inconfondibile portamento - il busto vistosamente proteso in avanti e le braccia mobilissime a disegnare quarti di cerchio nell’aria - risponde risalendo varie posizioni e mettendosi davanti a tutti per fare il passo. L'andatura è elevatissima. La scelta di impostare davanti al gruppo non è una novità assoluta per Cheruiyot: ha dominato il mondiale di Doha del 2019 con una strategia di front running aggressiva, presa sottogamba dal resto del gruppo. Aveva in mente una strategia simile per la finale olimpica? O l’offensiva di Ingebrigtsen gli ha forzato la mano?

Cheruiyot martella, Ingebrigtsen gestisce: dietro il gruppo si sfibra. All’inizio dell’ultimo giro, Cheruiyot è ancora in testa, e sta correndo a un passo che gli garantirebbe di superare con una certa facilità il record olimpico. Prova un ulteriore, deciso cambio di marcia: la forma scalena della sua corsa si esaspera - il commentatore del canale olimpico riporta «it doesn’t look effective, but my goodness, speed it is!». All’ultima curva Ingebrigtsen si apre all’esterno e passa Cheruiyot in quello che sembra un sorpasso molto più naturale di quello che è davvero. Pare di vedere al parco, la domenica mattina, un giovane jogger dalla gamba brillante che supera un podista più attempato: senza ostentazione, quasi con riserbo. Ingebrigtsen ha usato il proprio avversario come una lepre, sfruttando le energie di riserva per aprire un importante gap negli ultimi cento metri e vincere la finale con sette decimi di vantaggio. Il suo 3’28”32 da medaglia d’oro è il nuovo record olimpico (il gap è di quasi tre secondi!) ed europeo.

L’oro olimpico di Ingebrigtsen ha risonanza internazionale immediata. Al di là del solito dato anagrafico, e dell’ovvio risalto che in patria si dà alla prima medaglia norvegese sui 1,500 metri, l’impostazione tattica della gara e la sicurezza dimostrata mettono in luce per la prima volta il potenziale impatto di questo ventenne prodigio atleta sul mezzofondo mondiale. Il cambio di paradigma nella gestione della prova olimpica ha portato sei atleti a correre sotto il precedente record olimpico e per quattro di essi il crono è anche un personale.

Ma se c’è un’implicazione culturale ancora più profonda attorno a questa finale, è l’idea che la carriera in rampa di lancio di Ingebrigtsen possa innescare una ridefinizione degli equilibri geografici all’interno del mezzofondo. Il norvegese è la punta di diamante di una giovane classe di mezzofondisti prevalentemente europei e statunitensi che negli anni a venire finiranno per esautorare il dominio africano.

IL RAPPORTO COMPLICATO CON LA SCONFITTA
Nella rituale intervista a tre successiva alla finale olimpica, a Ingebrigtsen viene chiesto: «Tra i tuoi obiettivi c’è anche quello di diventare il più grande specialista dei 1,500 metri della storia?». La risposta perentoria (come spesso lo sono le sue risposte) è: «Sì»; poi sorride.

Rispetto a questa intervista c’è un dettaglio che in una ricostruzione della storia pubblica di Ingebrigtsen non può passare inosservato: seduto con lui davanti ai giornalisti in qualità di medaglia di bronzo c’è anche un atleta britannico, Josh Kerr, che in quel frangente ha definito Ingebrigtsen un «titano» della disciplina. Che all’epoca qualcuno ci avesse creduto oppure no, il trionfo olimpico sui 1,500 metri avrebbe aperto una stagione molto travagliata nel rapporto tra Ingebrigtsen e questa distanza. E, che qualcuno ci avesse creduto oppure no, sarebbe stato questo biondino scozzese con il più classico dei look anni ‘10 - ha un prominente ciuffo fissato con il gel e una barba curata con rigore geometrico - la principale gatta da pelare per Ingebrigtsen.

*

Dopo Tokyo, per Ingebrigtsen comincia una nuova e delicata stagione: la transizione alla dimensione del favorito, non uno dei tanti da cui guardarsi le spalle, ma il nemico pubblico numero uno.

I mesi che anticipano i grandi eventi estivi - i Mondiali di Eugene, Oregon, e gli Europei di Monaco di Baviera, entrambi nello stesso anno nella girandola di rinvii innescati dal Covid - non sono del tutto lineari. La stagione indoor è dolceamara: Ingebrigtsen apre con il suo primo record mondiale senior sui 1,500 metri short track (3'30"60, a Liévin), ma il risultato passa in secondo piano per via di un’importante novità tecnica. A fine febbraio arriva la conferma di una rottura nel rapporto professionale fra i fratelli Ingebrigtsen e il padre Gjert. "Motivi di salute" non meglio specificati. La scelta del nuovo allenatore di Ingebrigtsen è anche più sorprendente della rottura in sé, perché il nuovo allenatore è lo stesso Jakob: dopo una vita passata in pista, Ingebrigtsen decide di fare per conto suo, con l’immancabile supporto di Henrik e Filip.

La prima gara internazionale dopo l’oro olimpico, il record del mondo e la separazione dal padre, non va come sperato. Un po’ a sorpresa, ai Mondiali di atletica indoor di Belgrado del marzo 2022 Ingebrigtsen perde la finale dei 1,500 metri. Fa la sua solita gara di front running, davanti a tutti, ma questa volta l’etiope Samuel Tefera - talento precoce mai compiuto, due volte campione mondiale nei 1,500 metri indoor e detentore di un record del Mondo indoor sulla stessa distanza - resta aggrappato al suo passo aggressivo e lo supera sul finale. A sentire Ingebrigtsen la perseveranza di Tefera c’entra meno di quanto non abbia inciso uno stato fisico lontano dal top della forma: «Se prima della gara mi fossi reso conto della mia condizione di merda, avrei adottato un’altra strategia». Questo tipo di risposta permette di capire come Jakob affronta le sconfitte: addossandosi le responsabilità, centrando saldamente la narrazione su se stesso, adombrando i meriti degli avversari da cause di forza maggiore. In questo caso perlomeno c’è una prova della sua buona fede: il giorno successivo alla gara scoprirà la positività al Covid.

*

A inizio maggio Ingebrigtsen esordisce all’aperto in Diamond League a Eugene, Oregon, nel leggendario Hayward Field - "il teatro dei sogni" dell’atletica statunitense e mondiale.

Nello speciale meeting di Eugene i mezzofondisti non corrono i 1,500 metri, ma una storica gara da un miglio (circa 1,600 metri) dedicata al leggendario coach e co-fondatore di Nike, Bill Bowerman. Ingebrigtsen domina la prova staccando i suoi inseguitori di quasi un secondo. La consueta intervista post-gara rivela un inasprimento nell’ormai codificato tono caustico che Ingebrigtsen mantiene nel rispondere ai giornalisti. «Ti rammarica il fatto che nessuno sia riuscito a tenerti testa dopo che le lepri si sono dileguate? [durante la Diamond League è concesso l’ausilio di pacer, ndr]». «Come potrei essere rammaricato per il fatto che non ci sia nessuno migliore di me?». Avendo imparato a conoscere il personaggio, la risposta in sé è un peccatuccio tutto sommato veniale: ma in bocca al campione olimpico in carica, ed estrapolate dal contesto riparato dell’intervista queste parole possono diventare content utile sia per perpetuare l’idea del personaggio-Ingebrigtsen, antipatico e arrogante, sia per punzecchiare il sonnolento sistema del mezzofondo.

Non tutti gli atleti, però, sono contenti di farsi punzecchiare. Chi sembra essersi stufato dei continui attacchi è Josh Kerr: le scaramucce tra lui e Ingebrigtsen cominciano a intensificarsi nella stessa Eugene, durante i Mondiali. È impossibile sapere se ci sia stata una miccia nascosta, accesa da qualche parola dove le camere non riescono ad arrivare, oppure se sia stato il progressivo gioco di battutine a favore di camera a innescare l’imminente detonazione.

Per quello che sappiamo, la prima uscita pubblica del caso Kerrgebrigtsen avviene durante la semifinale Mondiale. Kerr e Ingebrigtsen sono appaiati sulla linea di partenza per la prima volta da Tokyo: la prova è “semplice” per entrambi, che nelle gambe hanno ritmi decisamente più alti del 3'37"21 sufficiente a qualificarsi. A fine gara, però, succede qualcosa di inusuale: finendo primo sul traguardo, con un vantaggio di circa un decimo su Ingebrigtsen (terzo al fotofinish), Kerr esulta in maniera abbastanza appariscente.

È una reazione strana. A voler proprio cercare una giustificazione, è la prima volta in assoluto che Kerr batte Ingebrigtsen in uno scontro diretto. Di tre anni precisi più grande di Jakob, Kerr ha sempre perso sia a livello juniores - era presente all’esordio internazionale di Ingebrigtsen (nono Ingebrigtsen, decimo Kerr), ed era presente anche agli europei di Cross country di Chia del 2016 (quattordicesimo classificato) - sia a livello assoluto. Inoltre, questa prima vittoria contro Ingebrigtsen è anche una vittoria contro il campione olimpico in carica: è una motivazione sufficiente a giustificare un’esultanza tanto plateale in una gara dal valore relativo?

Se non altro, il gesto sembra avere colpito nel segno. Nell’intervista post gara Ingebrigtsen ne fa inequivocabile riferimento: «La gara è andata bene [...] Ma credo che qualcuno abbia mal speso le proprie energie». Poi, pronostica uno sprint per decidere la finale, aprendo a una gara più tattica. La risposta di Kerr in zona mista è immediata: «Sprint? Sarebbe una pessima decisione per lui, visto com’è finita oggi».

Ingebrigtsen, però, sta bluffando. Nonostante un inizio più sottotraccia, a circa metà gara si mette in testa a fare il passo, con la speranza di dare una scossa alla competizione prima dell’ultimo giro: eppure, a differenza di quanto non fosse accaduto a Tokyo un anno prima, il gruppo non si sfalda. Un atleta in particolare chiude il gap tra il frontrunner e il gruppo: chi se non Josh Kerr? La sua è una gara di sacrificio, e di questo sacrificio può godere tutto il gruppo alle sue spalle. Sornione, Jake Wightman, l’altro britannico sulla linea di partenza, è in grado di mantenere il suo posto nel cuore dell’azione e infilare Ingebrigtsen sull’ultima curva. Ingebrigtsen non resiste all’attacco e deve arrendersi al secondo posto. Kerr finisce solo quinto.

L’intervista post gara è un mix di cliché e classic Ingebrigtsen, con un twist passivo aggressivo non elegantissimo. Si dice deluso e imbarazzato, perché sa di valere più di un argento, e rincara: «So di aver speso troppe energie intorno agli 800 metri. [Wightman] ha fatto una grande gara, ma non ha speso tutte quelle energie». Poi allarga il varco aperto tra lui e Kerr. Un reporter gli chiede se sia stupito del fatto che, dopo il gran parlare di Kerr, sia stato Wightman a vincere: «No. Quando Jake [Wightman] sta bene, è molto costante. Credo sia l’atleta più maturo del team britannico. È una brava persona!».

A differenza di quanto non accada per Kerr, per Ingebrigtsen c’è ancora tempo per riscattare il Mondiale. Sette giorni dopo la finale dei 1,500 metri, vince la sua prima medaglia d’oro mondiale a livello assoluto, dominando i 5,000 metri. È il primo atleta non africano a vincere in un’edizione olimpica o mondiale di questo evento in oltre 30 anni (dalle Olimpiadi di Barcellona 1992). In tempo zero si parla di un roseo futuro nei 10,000 metri, nella mezza maratona, nella maratona.

Senza guardare troppo avanti, Ingebrigtsen si “accontenta“ di chiudere la ricca stagione outdoor legittimando il doppio titolo continentale con una doppietta 1,500-5,000 metri agli Europei di Monaco di Baviera di agosto. Il gran finale, a settembre, è l’ennesima spallata al suo storico avversario Timothy Cheruiyot e al dominio africano sul mezzofondo, con la vittoria dei 1,500 metri alla Diamond League.

L’occasione per rimediare alla sconfitta sui 1,500 metri nel 2022 per mano di Wightman, l’unico neo in una stagione quasi perfetta, si presenta già nel 2023, nella forma dei Mondiali outdoor di Budapest di agosto. Dopo il suo primo anno di programmazione autogestita, Ingebrigtsen sbarca sulla scena internazionale in grande stato di forma. Apre la stagione in maniera speculare a come aveva chiuso il suo 2022: sulla short track degli Europei di atletica indoor di Istanbul fa doppietta, 1,500 e 3,000 metri. Il cosiddetto “double-double”, vincendo cioè entrambi gli eventi per la seconda volta.

All’aria aperta le proporzioni del dominio sembrano anche più ingigantite. A giugno, al meeting di Parigi, migliora di oltre quattro secondi un record mondiale sulle due miglia che resisteva dal 1997. Anche la sua condizione sui 1,500 metri è vicina ai massimi storici: alla Diamond League di Oslo corre il record europeo in 3’27”95. A far montare l’attesa per il Mondiale di fine estate contribuiscono le sue ormai immancabili dichiarazioni.

Dopo il record di Oslo gli viene fatto notare che quel giorno per provare a batterlo otto atleti sono scesi sotto il muro dei 3’30”. Come lo fa sentire il fatto di star portando lo sport a un nuovo livello? «Non direi che stessero provando a battermi, piuttosto hanno cercato di starmi dietro per quanto tempo hanno potuto… Per loro è stato ovviamente un grande beneficio. Anche a me piacerebbe avere qualcuno davanti da rincorrere, purtroppo non c’è nessuno».

LA STORIA SI RIPETE SEMPRE DUE VOLTE
Lo spettacolo che Ingebrigtsen ha in mente per i Mondiali di Budapest - dove è in lizza sia per i 1,500 metri che per difendere il suo titolo sui 5,000 metri - è improntato non solo al dominio fisico, ma anche a quello mentale. Deve dimostrare che lo scivolone di Eugene sui 1,500 metri è stato un caso, una congiunzione malevola di eventi che si sono messi di traverso. D’altra parte lui probabilmente la pensa così: il destino della prova è in mano a lui, e lui soltanto.

Si può vedere questo approccio soprattutto in semifinale. A differenza di quanto non accada nelle finali, dove ama prendere in mano il comando da subito, durante i turni di qualificazioni Ingebrigtsen adotta spesso un sistema opposto: si acquatta in fondo al gruppo, e lì rimane quasi fino alla fine. È un’idea ragionevole: non c’è motivo di mettersi in mezzo al gruppo, rischiando una caduta, né di bruciare inutili energie correndo davanti a tutti (magari rischiando un’infilata finale). È sufficiente controllare l’azione, e poi, a duecento metri dal traguardo, cominciare la risalita alle prime posizioni sfruttando il calo di avversari partiti troppo forte. È anche un approccio scenografico, che dimostra un certo carattere: Ingebrigtsen non ha paura di rischiare durante la gara, sa che in ogni momento può agevolmente risalire le posizioni necessarie e qualificarsi con facilità.

Il mind game di Ingebrigtsen nella semifinale di Budapest, però, non si ferma a una comoda conquista della finale - alla fine gli basterebbe posizionarsi tra i primi sei. Vuole arrivare in finale da primo classificato, dopo aver corso tutta la prova in ultima posizione: è l’unico che può fare qualcosa del genere, e al pubblico ungherese chiede riconoscenza per lo spettacolo che sta offrendo.

All’uscita dall’ultima curva si volta verso le tribune e, mentre tutti i suoi avversari sono al massimo dello sforzo, lui, superandoli uno per uno, trova il tempo di aizzare gli spettatori con la mano destra: «di più, non sento». All’arrivo sventola l’indice destro con una violenza quasi stizzita. Subito dietro di lui, in seconda posizione, Josh Kerr. Il ragazzino sbruffone, odiato da tutti i suoi avversari a livello giovanile, è pronto per diventare il campione olimpico che sta per giocarsi la sua seconda finale mondiale.

Prima della finale è lo stesso Kerr a sgonfiare la polemica: «Sta bene e si diverte. L’anno scorso ho fatto la stessa cosa e a nessuno è importato nulla. Si è divertito, io mi sono divertito, il pubblico si è divertito». È l’ultimo segno di distensione dell’uno nei confronti dell’altro.

Tre giorni dopo, in finale, vedere Josh Kerr vincere, superando Ingebrigtsen nello stesso tratto di pista in cui qualche giorno prima aveva incitato la folla a sfregio degli altri atleti, sarà parso ai più un segnale di instant karma, e una bella storia di sport. Vedere il favoritissimo Ingebrigtsen farsi bruciare per la seconda volta in due anni da un atleta britannico in una finale mondiale in circostanze del tutto analoghe, invece, avrà ricordato a tanti il famoso adagio secondo cui la storia, dopo essere stata tragedia, si ripete come una farsa: specie se lo sconfitto si giustifica adducendo il solito stato fisico compromesso - questa volta un mal di gola - come causa del fallimento.

Ci penserà lo stesso Ingebrigtsen a contraddirsi, anche con una certa eleganza: dopo neanche tre giorni difende il titolo mondiale sui 5,000 metri in una delle vittorie più belle e rocambolesche della propria carriera, con una rimonta finale festeggiata con una doppia scrollata di spalle a favore di camera: «Non c’è problema».

UN’AMICIZIA IMPOSSIBILE
Josh Kerr finalmente può parlare senza il rischio di apparire come un invidioso. Anzi, ha addirittura la possibilità di posizionarsi agli occhi del pubblico come il personaggio comprensivo, colui che ha zittito il ragazzo un po’ presuntuoso. In una lunga intervista a Citius Mag torna sull’esultanza di Ingebrigtsen in semifinale a Budapest, descrivendola come un atteggiamento che «deriva da uno spazio di insicurezza». Poi si espone addirittura sulle scarse capacità tattiche del suo rivale accusandolo di aver fatto front running in finale senza essere nella condizione di poterlo fare, se è vero che non stava bene.

Inizia un ping-pong di dichiarazioni e contro-dichiarazioni. Ingebrigtsen dice che Kerr è «solo uno dei tanti»; l’altro rilancia: «Uno dei tanti, sì, ma con l’oro mondiale al collo». Attacco dopo attacco, la rivalità sfocia nel mainstream: il mezzofondo è per la prima volta al centro di un’attenzione mediatica inedita. Nei dodici mesi che vanno dai mondiali di Budapest 2023 alle Olimpiadi di Parigi 2024 i due montano uno show, più sui giornali che in pista - visto che un infortunio tiene Ingebrigtsen lontano dalle corse nei mesi invernali.

Internet è pieno di antologie video e ricostruzioni di questa rivalità. Il pubblico, addirittura, si polarizza intorno a due estremi che hanno a che vedere con il modo in cui i due vivono il proprio rapporto con l’atletica. Kerr è quello che vive per la gara, che si esalta quando la corsa scende nel fango della tattica, e che per questo tende a trasformare il suo sport in qualcosa di vicino a una rissa da bar (a volte in senso quasi letterale visto che durante la finale di Budapest ha smanacciato impercettibilmente Ingebrigtsen mentre quello lo sorpassava).

Ingebrigtsen è o vorrebbe essere in lotta solo con se stesso, è l’atleta che corre contro il tempo e vive per il record, e che non a caso rimprovera a Kerr di non averne ancora battuto uno («Lo prenderò seriamente il giorno in cui contribuirà allo sport correndo qualche record mondiale»).

Il primo insomma vuole vincere attraversando il lato umano delle corse; il secondo l’umano vuole trascenderlo inseguendo con devozione scientifica un obiettivo ai limiti del divino: «Ho il dovere di provare a dimostrare quello che la razza umana può fare», ha dichiarato in una recente intervista.

Non c’è nessuna esagerazione, nessuna sparata retorica in queste parole. I record (solo di mondiali ne detiene cinque) sono la missione di Ingebrigtsen, e questo ce lo dicono anche i dettagli delle sue corse. Guardate il suo volto mentre un avversario lo supera all’ultima curva di una finale mondiale, soffiandogli il titolo da sotto al naso: nulla del suo sguardo lascia trapelare emozioni, non si vedono fatica, sgomento, delusione. Guardatelo, invece, mentre si invola verso un record mondiale: è tutta un’altra cosa.

Il suo primato mondiale sui 3,000 metri, alla tappa polacca della Diamond League 2024, è forse il caso più significativo. Il 7’17”55 finale è il tipo di risultato che davvero sposta l’asticella della percezione del potenziale umano - il primato era fermo da 28 anni al già incredibile 7’20”67 di Daniel Komen. Mentre lo insegue, il volto di Ingebrigtsen si increspa per la fatica. Un dettaglio alieno per la sua gelida fisiognomica. Anche l’esultanza è un mix di gesti inediti: si mette le mani nei capelli a bocca spalancata, poi agita le mani. Ecco quello che significa per Jakob Ingebrigtsen un record: d’altra parte, c’è sempre un’altra Olimpiade, o un altro Mondiale per riparare ai danni di una medaglia mancata, giusto?

PARIGI 2024
Se siete arrivati fin qui già lo sapete: dopo un anno così, passato a costruire mediaticamente la sfida, la finale olimpica dei 1,500 metri a Parigi 2024 alla fine non è stata vinta né da Kerr (secondo), né tantomeno da Ingebrigtsen (addirittura fuori dal podio, quarto), ma dallo statunitense Cole Hocker nel più classico degli upset possibili. Un finale aperto affascinante per la lunga storia di questa rivalità ma anche il segno della rinascita che hanno provocato i due nel mezzofondo, con una serie di atleti fortissimi, ispirati e motivati dalla forza dei due attori principali.

Ingebrigtsen riscatta la sua Olimpiade con una nervosa (nelle batterie per poco non inciampa in un cameraman che attraversa la pista, rimproverato aspramente nel corso dell’azione), ma autoritaria medaglia d’oro nei 5,000 metri. Per la terza volta in tre anni la vittoria sui 5,000 sboccia dalle ceneri di una delusione bruciante sui 1,500 metri, e più scotta la delusione più è potente la vittoria (a Parigi conquista il suo secondo oro olimpico con due secondi di vantaggio sulla medaglia d’argento).

La sera del quarto posto, però, Ingebrigtsen pubblica un accorato post social. Si congratula con il podio (Kerr compreso), e ammette che la sera del 6 agosto 2024 almeno tre persone sono state più intelligenti di lui. È forse un’ammissione? Il front running che ha fatto la sua fortuna a Tokyo 2021 e in Diamond League questa volta è stato una condanna tattica?

Il vero nucleo del suo post è, però, una retrospettiva familiare, intima: “Non troppo tempo fa, mi allenavo con ragazzini e podisti amatoriali nello stadio di Sandnes. Oggi, ho corso insieme a un mio connazionale [Narve Nordås, ndr] in una finale olimpica. Dieci anni fa, nessuno in Norvegia lo avrebbe creduto possibile. Fino al momento in cui Henrik e Filip hanno dimostrato a tutti che in realtà lo è".

Nel buio della sconfitta più dolorosa della propria carriera, Jakob si stringe attorno ai fratelli maggiori Henrik e Filip, le uniche costanti della sua vita privata, le uniche due persone al mondo che possono capire cosa voglia dire diventare e poi essere un atleta professionista in una casa come quella degli Ingebrigtsen.

È una questione che ci porta a una storia familiare complicata, che ha a che fare con il rapporto dei tre con il padre-allenatore Gjert. Quando negli ultimi mesi del 2024 la notizia della possibile implicazione di Gjert Ingebrigtsen in ripetuti episodi di violenza domestica buca la bolla del contesto norvegese, del mondo dell’atletica e infine dell’informazione mondiale, nessuno si stupisce nel ritrovare i tre fratelli Ingebrigtsen compatti, come nella vittoria e nella sconfitta, al banco degli accusatori.

PADRE-FIGLIO
I fratelli Ingebrigtsen aspettano fino a ottobre 2023 per rendere pubblica la decisione unanime di denunciare il padre alle autorità. I vaghi “motivi di salute” che avevano giustificato l’allontanamento del padre come allenatore nascondevano in realtà ragioni più profonde, raccontate in una lettera aperta pubblicata su Verdens Gang, il giornale online più letto in Norvegia. “Siamo cresciuti con un padre aggressivo e ossessivo, che ha usato violenza fisica e minacce durante la nostra crescita… Abbiamo convissuto con paura e disagio sin dall’infanzia. Abbiamo finito per accettarlo”. Poi, la goccia che ha fatto traboccare il vaso: “Due anni fa, lo stesso comportamento violento e le punizioni fisiche sono tornate”. Il riferimento è a un episodio di inizio 2022, quando la sorella minore Ingrid (più volte percossa e insultata nel corso degli anni) viene prima colpita con un asciugamano bagnato al volto per aver manifestato la volontà di uscire con gli amici, e poi intrappolata in casa per ripicca rispetto alla scelta di non voler più dedicarsi all’atletica.

Gjert Ingebrigtsen nel respingere le accuse arriva ad addossare sui figli la radice della durezza del suo comportamento: sarebbe stata la loro volontà di raggiungere il successo sportivo a tirarne fuori i lati più infiammabili del carattere. Nella serie TV The Ingebrigtsen si percepiscono solo leggermente i contorni di quello che sarebbe diventato uno dei processi più seguiti e attesi dai norvegesi e dal movimento mondiale dell’atletica. Il verdetto finale, che arriva il 16 giugno 2025, ha portato alla condanna di Gjert, ma solo per l’episodio di violenza fisica nei confronti della figlia Ingrid. Secondo la corte tutte le prove portate a sostegno dell’accusa di sottomissione e violenza nei confronti di Jakob sono credibili ma non sufficienti per giungere ad un verdetto di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.

Ovviamente è un caso che da una parte rivela la personalità di Jakob Ingebrigtsen ma dall’altra anche la nasconde, porgendoci risposte semplici a una questione complessa. È tutta qui la ragione di porsi di Ingebrigtsen in giovane età? Della sua anti-socialità e mancanza di empatia, dell’aura di arroganza che si è sempre portato dietro, delle risposte piccate ai giornalisti e delle frecciatine agli avversari? Durante il 2024, mentre vige il silenzio stampa sul processo, qualcosa già inizia a cambiare. Sembra che un enorme blocco di tensione emotiva si stia dissolvendo, come un fastidioso singhiozzo che si fa sempre meno intenso, fino a cessare. Lo si vede nel modo con cui Jakob affronta le gare, gestisce le interviste, affronta il rapporto con gli avversari, festeggia le vittorie; interagisce in maniera mai vista prima con colleghi e giornalisti. È un Jakob Ingebrigtsen divertito e divertente. Comincia ad aprirsi, si mostra genuino: si umanizza. Attraverso i social mostra sempre più spesso il suo nordico sorriso perfetto.

Nei giorni dell’assoluzione del padre, Ingebrigtsen pubblica un post dedicato alla figlia, che sembra una risposta a tutta la faccenda.

Vedere Ingebrigtsen non in tuta è una rarità. Jeans chiari, camicia bianca, sorride a favore di camera. Il cappellino bianco a forma di cono con un minuscolo pompon giallo sulla punta è per il primo compleanno della figlia, che tiene in braccio assieme alla moglie Elisabeth. Filippa, biondissima e paffutella, è nata tra un Europeo e una Olimpiade.

La nascita di Filippa sembra proprio uno dei momenti di svolta nel modo di vivere di Ingebrigtsen. In occasione del primo compleanno di Filippa, pubblica su Instagram un video insieme alla moglie, per raccontare come essere un genitore abbia cambiato le vite di entrambi: «Anche se ho un lavoro grazie a cui posso focalizzarmi su me stesso, ora sono in una posizione dove non voglio più focalizzarmi solo su me stesso». Lui che è cresciuto con un rapporto paterno complicato sembra voler essere l'opposto per sua figlia.

Il padre gli ha cucito addosso talento e disciplina come una camicia di forza. Quando se n’è liberato, Ingebrigtsen ha iniziato a dare spazio a vizi e normalità, addirittura mostrandoceli su un suo canale YouTube. Lo si può vedere, per esempio, mentre posa fiero vicino alla portiera della sua Lamborghini Murcielago gialla, il regalino che si è fatto dopo la vittoria delle Olimpiadi di Tokyo. Per colpa dei motori si autodefinisce «il peggior incubo di un consulente finanziario»; parla di cavalli, pistoni e aerodinamica con naturalezza, a bocca piena, mentre si mangia un kebab.

Da questa finestra che si apre su di lui ne esce un personaggio inedito. Non un vero appassionato dello sport che pratica, dato che non lo segue, ma una persona che condivide i propri momenti di difficoltà. La narrazione dell’atleta inscalfibile, che rasenta la perfezione, crolla grazie a video che mostrano Jakob sudare sull'ellittica, sbuffare, correre in acqua, e parlare di dolore con lo sguardo sconfortato. Una persona, a volte, anche sarcastica e autoironica.

Il processo di normalizzazione che ha seguito la paternità prima e l’allontanamento pubblico dal padre poi hanno cambiato almeno in parte il suo atteggiamento in pista e sicuramente come questo viene percepito da pubblico e avversari.

Me lo conferma Federico Riva, primatista italiano del miglio, che agli Europei di Roma 2024 sta vincendo tranquillamente la propria batteria di qualificazione quando, controllando verso l’interno della pista, si trova affiancato da Jakob Ingebrigtsen: quello lo fissa, ma non è uno sguardo di sfida o di superiorità, non è un’occhiataccia: è un sorriso, niente più. «È stato strano, ma speciale. Un momento magico», ricorda Federico. Non si aspettava un gesto simile da «uno dei più grandi di sempre», che comunque è un «tipo solitario e riservato», con cui non è mai andato oltre il saluto.

Qualche parola con Ingebrigtsen l’ha scambiata invece Pietro Arese, primatista italiano dei 1,500 metri, che ha avuto più occasioni di incontrarlo negli ultimi anni. Anche lui ha dei ricordi degli Europei di Roma, che mostrano plasticamente la recente evoluzione di Ingebrigtsen. Terzo a quei campionati sui 1,500 metri - dove il norvegese arriva primo per distacco - un attimo prima di salire sul podio il norvegese gli ha chiesto se secondo lui fosse possibile comprare una di quelle statue del campo di riscaldamento, ovvero lo Stadio dei Marmi di Roma. Lo stesso Arese ricorda bene l’Europeo Under 20 del 2017, a Grosseto, quando la caduta di Ingebrigtsen nella finale dei 1,500 metri non fu accolta proprio con dispiacere perché si era creata l’idea di «un galletto, uno sbruffoncello. Si era inimicato il pubblico».

Secondo Federico Riva è un po' merito di Ingebrigtsen se la loro specialità è arrivata a livelli altissimi, «anche solo per essere uno stimolo ad avvicinarsi a certe barriere». E Pietro Arese è d'accordo, vede Ingebrigtsen come «un ariete», che ha aperto porte che prima erano chiuse. Nel 2023 con 3’33”11 Pietro Arese era 35° al mondo: quest’anno sarebbe 68°. Paradossalmente Jakob Ingebrigtsen ha alzato l'asticella della specialità e allo stesso tempo l'ha avvicinata, rendendo più plausibili prestazioni che sembravano riservate quasi esclusivamente ad atleti africani. La grossa differenza tra lui e il passato - compresi i fratelli maggiori - è «la costanza ad alto livello durante tutte le stagioni».

Grazie al suo approccio offensivo e alla sua volontà di migliorarsi tanti atleti si sono scrollati di dosso la paura di correre a ritmi importanti durante le gare cruciali, avvicinandosi a lui. E lo stesso Ingebrigtsen lo ha realizzato sulla propria pelle. Sempre secondo Arese, se «le batoste iniziali [Eugene e Budapest, ndr] le ha vissute come una casualità, Parigi gli ha fatto capire che gli avversari sono lì e deve imparare ad adattarsi, cambiando la gestione di gara».

IL PIÙ GRANDE MEZZOFONDISTA DI TUTTI I TEMPI?
Solo qualche anno fa, la sconfitta sui 1,500 metri delle Olimpiadi di Parigi sarebbe stata accolta come una lezione al ragazzo che se la tira un po’ troppo: invece siamo entrati nelle sue pupille che seguivano uno dopo l’altro i tre atleti mentre lo scalzavano dal podio negli ultimi cento metri, e abbiamo empatizzato con l’uomo che fino a qualche mese prima era troppo forte e troppo antipatico da tifare. Insomma, oltre a tutto ciò che gli è successo intorno, la sconfitta ci ha aiutato ad umanizzarlo, ad empatizzare con lui. Non a caso c’è stato un giubilo generale nel vederlo alzare l’indice destro sulla linea d’arrivo dei 5,000 metri pochi giorni dopo. Da dominatore avrebbe avuto il tempo di cercare la folla nell'ultimo rettilineo, non lo ha fatto.

Questo non vuol dire che sia un’altra persona ovviamente. Per dire, questo inverno Ingebrigtsen è stato l’unico medagliato olimpico a presentarsi ai Mondiali ed Europei indoor, onorando entrambe le competizioni con un doppio oro.

Il fatto stesso di decidere di presentarsi ai Mondiali di Tokyo 2025 nonostante la pressoché totale inattività agonistica estiva, da questo punto di vista, è esemplare: anche solo una minima possibilità di arricchire la propria bacheca di medaglie va sfruttata, non importa se non si è pronti al 100%. Pietro Arese, durante i festeggiamenti per il bronzo di Roma, aveva confessato a Ingebrigtsen che è proprio questa la caratteristica che più apprezza di lui: «Le vittorie vere sono di chi gareggia sul campo, non di chi si nasconde tutto l’anno». Il riferimento ovviamente è a Josh Kerr, che centellina le uscite stagionali con il contagocce.

Cosa aspettarsi adesso da questa storia? Ingebrigtsen sembra voler spezzare la propria carriera in due parti: esaurire la propria ossessione per i 1,500; poi concentrarsi su distanze più lunghe. La prima, per le sue caratteristiche e metodo di allenamento, è la più ambiziosa, il suo demone. Fare il record del mondo dei 1,500 metri (3’26”00 di Hicham El Guerrouj, del 1998) non sarà facile ma il personale di 3’26”73 lo rende comunque uno scenario plausibile, soprattutto dopo aver infranto il record del mondo dei 3,000 metri, considerato tra i più difficili dell’atletica.

Consolidata l’egemonia sul mezzofondo breve, il secondo tempo di Ingebrigtsen verso la maratona è iniziato quasi per gioco nel settembre 2024 a Copenhagen, dove ha corso la sua prima mezza maratona - definendola tra le righe un’esperienza infernale. Per ora non ha fretta: ha acquisito la saggezza per capire che ogni cosa arriva a suo tempo. La sua volontà è abbastanza chiara: durante un’intervista di qualche anno fa ha detto che se il calendario delle competizioni lo permettesse lui correrebbe volentieri «800, 1,500, 3,000 siepi, 5,000, 10,000 metri e maratona» all’interno di uno stesso campionato.

Detta così sembra già scritta e invece il mondo ci si è messo subito a mettere un ostacolo sulla sua strada con l’eliminazione al primo turno di qualificazione di questi Mondiali nei 1,500 metri.

Ingebrigtsen ha provato ad impostare la sua tattica di gara solitaria dalle retrovie ma per la prima volta in carriera le gambe si sono rifiutate di collaborare per la rimonta finale e alla fine è arrivato ottavo (passavano i primi sei). Non è stata una sconfitta particolarmente spettacolare, con infilate all’ultima curva o sforzi disumani degli atleti che lo hanno battuto: semplicemente la qualificazione è scivolata via e lui, senza mai tradire la sua corsa composta e perfetta, non ha avuto mezzi fisici per aggrapparsi. Non si era mai visto un Ingebrigtsen così spento, lontano da atleti a cui è abituato rifilare tre secondi ai meeting. Lo ha definito lui stesso un «reality check». Anche questa ammissione schietta e onesta è una novità: non è sfuggita agli occhi di chi ha ascoltato le sue parole deluse ma lucide dopo la gara.

Forse il redemption arc di Jakob Ingebrigtsen non poteva che chiudersi in questo modo: il punto più basso della sua carriera coincide con il massimo di affetto ricevuto - tanto, tantissimo - sui social e non solo. Al vecchio Ingebrigtsen forse non sarebbe piaciuto, magari l’avrebbe considerato una consolazione o peggio: un alibi. All’Ingebrigtsen di oggi, invece, non lo sappiamo. Ma il dubbio che abbia pensato che questa sconfitta potrebbe tornargli utile, in tutti i sensi, c'è.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura