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Ivo Karlovic, una specie di tributo
26 feb 2024
26 feb 2024
Si ritira il mostro finale del servizio.
(articolo)
11 min
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IMAGO / ExSpo
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Cosa deve aver pensato Lleyton Hewitt, quando nel 2003 si è visto comparire davanti Ivo Karlovic. Questo Gesù cristo croato di 2 metri e 11 che si muoveva come un essere animato a malapena. Numero 209 del mondo, una presenza vitrea e assente, metteva un piede davanti all’altro con l’impaccio di uno che si è svegliato nel corpo di un altro. Indossava un maglione a V con sotto una polo bianca che spuntava vezzosa - pareva vestito dalla mamma per fare una buona impressione sul campo centrale di Wimbledon. Giocava contro il campione uscente e numero uno del mondo. Gli inglesi erano abituati a un croato focoso come Ivanisevic: lui ne era la versione spogliata dell’anima.

Hewitt, rasato e biondo come un marine, non lo aveva mai visto giocare, non sapeva niente di lui. Cosa deve aver pensato, quando ha dovuto rispondere al suo primo servizio? 135 miglia orarie.

Karlovic perde il primo set 1-6 in 19 minuti e tutto il suo gioco sembra un grande scherzo. Pian piano, però, prende le misure. Hewitt smette di riuscire a rispondere al suo servizio, perde il secondo set al tiebreak, e poi non riesce più a togliere il servizio al suo avversario. L’anno prima la sua vittoria a Wimbledon era stata rivoluzionaria: una vittoria di un giocatore con uno stile aggressivo, ma da fondo campo, più bravo nella risposta che nel servizio, praticamente allergico alla rete. Quel giorno però soccombe a un grande servitore: come se lo spirito dei bombardieri degli anni ’90 avesse generato un golem grottesco.

La partita ha qualcosa di violento e brutale. Non era insolito, in quegli anni, vedere giocatori radere al suolo il prato di Wimbledon con l’artiglieria del servizio. Il gioco di Karlovic, però, è estremo. Anche attraverso la normale inquadratura schiacciata della televisione, sembra in tutto e per tutto un gigante, un golem, un servo d’argilla di qualche entità superiore mandato sul campo da tennis per scopi arcani. Il campo pare troppo piccolo, la rete troppo bassa; Hewitt sembra un piccolo essere umano in balia di un fenomeno paranormale, il capitano Achab che cerca di ramponare l’enorme capodoglio Moby Dick. Quando va a stringere la mano a quel terrificante avversario gli arriva appena al mento.

Con quella vittoria si presenta al mondo, che fino a quel momento non sapeva nulla di lui. Era numero 209 del ranking e aveva giocato appena 11 partite nel Tour. Bazzicava circuiti satellite e challenger, e girava la voce di questa belva mitologica alta due metri, qualcuno diceva due metri e mezzo, qualcuno diceva tre. Nessuno riponeva mezza speranza sul suo talento, perché semplicemente pareva non esserci. In quell’edizione di Wimbledon Ivo Karlovic perderà da un giocatore letteralmente soprannominato “La Bestia”, Max Mirnyi, mentre il torneo verrà vinto da Roger Federer, al suo primo trionfo Slam. Federer come ideale di bellezza classica, di armonia e misura, mentre Karlovic è abnormità, sproporzione, mancanza di misura. Non c’erano manici della racchetta adatti alle sue mani, e così ne hanno dovuto costruire uno apposito («Diciamo che se i giocatori normali utilizzano un manico misura 3 o 4 possiamo dire che il mio è 8 o 9»).

Qualche giorno fa Ivo Karlovic ha annunciato ufficialmente il ritiro con un post sui social. Non si avevano sue notizie da tempo e ogni tanto a qualcuno gli tornava in mente e provava a chiedere di lui; Karlovic forse aveva provato a far perdere le sue tracce, a lasciar spegnere il suo nome nel misterioso nulla da cui era venuto. Da quell’esordio a Wimbledon contro Hewitt a oggi: 8 titoli vinti, tutti 250, un quarto di finale Slam sull’erba londinese, nel 2009.

Le sue ultime partite le aveva giocate nel 2021. Era diventato il giocatore più anziano a vincere una partita ATP di singolare, a oltre 40 anni. Aveva annunciato il ritiro dopo gli US Open, dove si era presentato per le qualificazioni. Aveva vinto i suoi tre match ed era diventato il più anziano a entrare in un tabellone dello Slam. Dopo aver perso con Rublev al primo turno, la sua carriera pareva finita. Per qualche ragione, però, si era ripresentato in campo a Indian Wells, demone indistruttibile, con la barba ingrigita, il volto scavato, un completino bianco che coprirebbe una tavolata da dieci persone. Annulla 4 match point al povero Schnur e lo batte. Si può trovare un video su internet di quella partita, caricato da uno spettatore. Circondato dal panorama marziano di Indian Wells, Karlovic gioca un tie-break sontuoso. Con la prospettiva schiacciata del pubblico si può intuire la sensazione ad avere di fronte un essere vivente così imponente, che sembra ingrandito con un raggio laser.

Perde al secondo turno contro Emilio Gomez la sua ultima partita di una carriera straordinariamente longeva. Karlovic è due anni più anziano di Federer. Il segreto di questa longevità non è nemmeno così segreto: con quel servizio ha dovuto correre meno di tutti gli altri; ed essere emerso solo a 24 anni gli ha risparmiato l’usura precoce (ma se volete un approfondimento sul tema, c’è il grande Jeff Sackman). Nel post in cui annuncia il ritiro Karlovic usa l’aggettivo “unorthodox” per descrivere la sua carriera, "non convenzionale". Ed è anche questa non convenzionalità ad averlo reso una presenza amata nel circuito. Un giocatore unico, bizzarro da veder giocare. C’era qualcosa di infernale e maligno nel gioco di Karlovic, una negazione plateale della bellezza, dell’armonia, della tecnica, della gestualità, per i più nello sport più affezionato a tutte queste cose. E infatti il suo soprannome, Dottor Ivo, suonava simile a Dottor Evil.

Un’incarnazione quasi parodistica del tennista freddo e implacabile dell’Est Europa (Lendl, Kafelnikov, Korda), con qualcosa di meccanico e vuoto alla Ivan Drago. Non solo Karlovic somigliava una macchina, a un corpo forgiato in laboratorio seguendo scopi malevoli da uno scienziato pazzo, ma giocava pure come una macchina. Un gioco brutale, ripetitivo, un complotto contro tutto ciò che piaceva nel tennis. Dopo il 2000 le superfici hanno cominciato a rallentare e a uniformarsi per rendere gli scambi più lunghi, mentre Karlovic voleva scambi fulminei, ritmi spezzati, un tennis in cui il tempo morto dilaga e si prende tutto lo spazio del match. Un gioco in cui il servizio è il principio e la fine di ogni cosa.

E allora cos’era, quel piccolo moto di nostalgia e dispiacere quando abbiamo letto la notizia del suo ritiro?

Il fatto è che quando si guardava meglio Karlovic in campo, si prestava davvero attenzione e si familiarizzava col suo gioco, si capiva che dietro questa brutalità c’era qualcosa di aggraziato, persino di bello. Il suo gioco a rete sensibile, i suoi approcci da doppista soprattutto; le sue belle risposte, un’intelligenza tennistica sopra alla media. Una volta che si usciva dal servizio, aveva un approccio dolce al gioco. Dice che per migliorare guardava i video di Edberg su YouTube. Doveva guardare per forza Edberg perché nessun suo contemporaneo giocava davvero bene a rete. Per anni Karlovic è stato uno dei pochi con uno stile di gioco autenticamente serve&volley.

Poi si ascoltavano le sue interviste, e si intuiva quanto a quella superficiale manifestazione del male faceva da contraltare una personalità estremamente educata, elegante, mite; con un’ironia obliqua insolita nel tennis. E così ci si affezionava a lui come a quei mostri delle fiabe vittime della loro stessa bestialità.

Ivo Karlovic al torneo di Pune, dove è diventato il più anziano finalista ATP. Il pubblico indiano grida “Ivo! Ivo! Ivo!”, gli vuole bene, lui sorride un po’ incredulo.

Karlovic è stato il primo della stirpe dei cosiddetti serve-bot, un termine cattivello con cui si indicano quei giocatori che trasformano le partite in una sterminata sequenza di servizi vincenti, risposte a rete e un ritmo balbettante. Dopo di Karlovic sono arrivati Isner, Anderson, Querrey e Opelka, l’unico alto quanto lui. La definizione di serve-bot non è semplice, perché non si intende soltanto un giocatore dominante al servizio. «Kyrgios non è un serve-bot? Se guardiamo le statistiche è uno dei giocatori che tiene di più il servizio», ha fatto notare Opelka. Si intende un giocatore che non potrebbe giocare a quei livelli se il suo servizio non fosse così imperante, e che quindi vive una sproporzione assurda tra i vari colpi del proprio repertorio. In più per il serve-bot l’egemonia deriva soprattutto dall’altezza. Il serve-bot, insomma, userebbe una specie di trucco dato dal suo fisico per battere avversari che teoricamente non dovrebbe battere.

La faccenda però si può vedere anche da un’altra prospettiva: e ciò che il fisico dà a questi giocatori, toglie in misura ancora superiore. Karlovic era semplicemente troppo alto per poter competere a certi livelli di tennis, e doveva quindi provare a cancellare tutta una dimensione della partita, sottrarsi dallo scambio per lasciare che un match fosse soltanto fatto di servizi e risposte. Un tennis blitz. Il corpo di questi giocatori, lungo e sproporzionato, diventa davvero l’inizio e la fine del proprio tennis: devono provare a sfruttarne i vantaggi, ma a nasconderne i limiti. Quando si entrava nello scambio, e non riusciva a chiudere il campo in avanti, Karlovic faceva quasi pena, per come cadeva in balia dei suoi avversari. Un grosso predatore marino che si dibatte sulla barca che lo ha pescato - anche se nei suoi anni migliori riusciva a difendersi bene. In un Q&A su Twitter un utente maligno gli chiese se avesse mai giocato il rovescio in topspin in vita sua.

Non poteva certo ambire a chissà quali risultati, Karlovic, e nei grandi tornei si limitava a essere un imprevisto fiabesco sul cammino degli eroi. Nessun giocatore poteva stare davvero al sicuro con Karlovic in giro: aveva un solo colpo formidabile, che però poteva diventare l’intera partita. E allora Karlovic poteva battere anche i migliori. Era una specie di sfinge, di mostro enigmatico dei videogiochi: una sfida che non poneva gli stessi problemi di una normale partita di tennis. Bisognava venire a capo di una partita senza ritmo, ricca di tempi morti, in cui non si ha quasi mai l’occasione del break, che può finire facilmente al tiebreak, e che quindi richiede il massimo della concentrazione per momenti molto condensati della partita. Una partita difficile da perdere, ma in cui lo spazio per vincere è risicatissimo. Se il tennis si gioca sempre su pochi punti, le partite con Karlovic si giocavano su pochissimi punti. È stato calcolato che Karlovic portava al tiebreak praticamente un set su due delle sue partite - con una percentuale nettamente superiore ad altri serve-bot come Isner o Opelka.

I grandi giocatori erano spesso frustrati contro di lui. Nei primi turni erano costretti a giocare alla pari, o comunque a rodarsi su un livello molto alto di concentrazione, contro un avversario molto più in basso in classifica. A metà tra sdegno aristocratico e impazienza Federer aveva commentato: «Quello di Karlovic non è proprio tennis». Lui, sempre amorevole, disse: «Senza tiebreak posso battere Federer solo in una rissa». Ci fu un contrappasso ad Halle nel 2015, quando una donna chiese a Federer un autografo pensando fosse Karlovic. Federer perse solo una volta da lui su 14 incontri, ma dopo quell’incontro Federer era parso disorientato: «È brutto perdere la partita senza perdere il servizio. Voglio dire, non so cosa trarre da questa partita. Non c’è niente in questo tipo di partite. Cosa potevo fare? Ho solo cercato di servire bene». Djokovic ha addirittura un record negativo contro Karlovic.

Quando si parla di Karlovic, però, si trascura spesso il lato tecnico del suo servizio. Nella grande scuola del servizio croata, è stato un’eccellenza assoluta per pulizia del gesto. Dopo aver lanciato in lato la pallina, il corpo di Karlovic si decontrae fino a prendere uno stato quasi liquido, una medusa che aspira l’acqua appena prima del suo moto ondulatorio, e poi si abbatte sulla pallina portando il suo corpo alla massima estensione. Karlovic arriva a colpire una pallina da un’altezza di oltre tre metri. Un servizio a più di duecento chilometri orari che piove dal balcone dal primo piano alto di una palazzina. Un fatto che manda in tilt la normale fisica del tennis. Da quell’altezza la prospettiva sul quadrato del servizio è più ampia: Karlovic poteva trovare angoli per gli altri impossibili, e i rimbalzi della pallina erano imprevedibili. Durante una partita a Wimbledon un suo servizio ha rimbalzato fin sopra ai teloni di protezione.

Tutti i video di Karlovic al servizio sono magnetici per qualche motivo.

Ci sono altri dati estremi sul servizio di Karlovic, ovviamente. È il secondo giocatore della storia con più ace in carriera, più di tredicimila, dietro John Isner, ed è il giocatore con più ace registrati in un singolo match, 45 ad Halle 2015. Vi invito a non guardare il video ma ad ascoltarlo, per entrare dentro il suo loop meditativo.

Nel 2011 ha tirato fuori il servizio più veloce della storia, in un doppio insieme a Dodig di Coppa Davis. La bassa risoluzione del video rende irrintracciabile la pallina.

Il suo record è stato poi battuto da Sam Groth e questo allora è il secondo servizio più veloce della storia.

Non solo era affascinante vedere Karlovic al servizio, ma lo era soprattutto osservare come riusciva a intrappolare le partite in una trama tremendamente serrata di punteggio, ponendo ai suoi avversari più talentuosi problemi di difficile soluzione.

La bellezza del tennis, lo sappiamo, sta nella diversità del suo ecosistema. Nel fatto che si possa perseguire lo stesso scopo seguendo approcci profondamente differenti. L’eredità di Karlovic verrà raccolta da altri esseri umani giganti pronti a bucherellare il quadrato di servizio, ma quanti di loro avranno la sua grazia?

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