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Ivan Zamorano saltava più in alto di tutti
21 mar 2018
21 mar 2018
Il talento dell'attaccante cileno si palesava soprattutto nel colpo di testa.
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A pensarci bene, ogni ricordo che abbiamo di Iván Zamorano cela in nuce una sfumatura, un particolare che ci parla in qualche modo del volo. A partire dalle istantanee delle sue esultanze: colto nel momento di massimo entusiasmo del gioco, quello successivo a un gol, Iván sembra sempre sul punto di decollare. Tiene le braccia spalancate nel più istintivo e didascalico dei gesti possibili, regale e imperioso come un condor che sorvola la cordigliera andina.

Foto di Clive Bruneskill / Getty Images

Di tutte le sue caratteristiche in campo, quelle più sensazionali avevano a che fare con il distaccamento da terra. Nel suo gioco aereo si concentrava il tentativo più estremo che gli ambiziosi, i coraggiosi e gli eletti compiono nello sforzo di avvicinarsi un po’ di più al divino.

Zamorano è impresso nel nostro immaginario così, sospeso a qualche decina di centimetri dal suolo. Come scrive Errico Buonanno nel suo “Vite straordinarie di uomini volanti”: «Volare è un’azione sconveniente: rende diversi e indipendenti, scompiglia. Cambia lo sguardo e la prospettiva sul mondo, mostra evidenti le sue pecche, e dunque ci sa trasformare in filosofi. Forse è per questo che è una cosa da pazzi, adatta soltanto a chi ha smanie poetiche».

In volo Iván ha forgiato la sua visione del mondo, sfidato i limiti del coraggio. I suoi stacchi avevano la poeticità impavida dei lanci del vuoto di Patrick de Gayardon. Eppure dall’alto, per quanto nella posizione perfetta per esercitare dominio, non è mai riuscito a dare, al suo gioco, una sfumatura trascendente. I voli di Zamorano non erano pindarici, ma estremamente secolari.

Alicanto

Nelle cosmogonia mapuche, Alicanto è l’entità mitologica incarnata in un uccello dall’enorme apertura alare, che ha nella velocità, nella rapidità rapace, la sua caratteristica principale. Fende le costiere a strapiombo sul mare e, secondo il mito, regolarmente depone due uova, uno d’oro e uno d’argento. I mapuche credono che seguendone il volo si possano trovare nuovi filoni auriferi.

Non era particolarmente alto, Zamorano, almeno nella media di un centravanti dal fisico strutturato come il suo. Eppure aveva una potenza di stacco, nelle gambe, che gli permetteva di innalzarsi e fluttuare nell’aria quel microsecondo in più dell’avversario, la frazione di tempo che ti fa sembrare l’uomo cristallizzato in aria qualcosa di etereo, o soprannaturale.

Quel talento è stato il suo filone aurifero.

Quando arrivò al Siviglia sbalordì tutti nelle prove fisiche di inizio stagione. Non solo si dimostrò in possesso di una tenuta atletica invidiabile (3km nel Test di Cooper, e una reattività nello scatto che gli permetteva di registrare i 7.46 secondi sulla distanza dei 60 metri). Ovviamente era anche e soprattutto il giocatore con la maggiore potenza di stacco: con i piedi uniti riusciva a sollevarsi da terra per 61 centimetri. Ma non era soltanto l’esplosività dello stacco a renderlo imbattibile nei duelli aerei, quanto l’elasticità e la flessibilità. Zamorano riusciva a divaricare le gambe praticamente della misura della sua altezza: e nella flessibilità del tronco era secondo soltanto ai due portieri.

La maniera in cui impattava il pallone non era quella epifanica di Cristiano Ronaldo o Sergio Ramos: non c’era la staticità soprannaturale di una materializzazione nel tempo e nello spazio che si fa fatica a capire se sia figlia di un’ascensione o una discesa dal cielo.

Nel modo in cui Iván Zamorano colpiva di testa si potevano nettamente intuire tutti i singoli frame della progressione del decollo. Appariva nelle inquadrature televisive come se fosse stato lanciato da un cannone, proiettato in aria da una catapulta, funambolo circense che si appresta al gran finale di un numero acrobatico.

Più in alto

Con il suo talento aereo fissava le traiettorie dei palloni, che disegnavano arcobaleni prima di sbattergli sulla testa: prima di essere gol di testa di Zamorano, quei cross erano la delicatezza del tocco di Djorkaeff o di Recoba. Ghermiva le spalle dei difensori avversari annichilendone la prestanza fisica: guardate se nel gol al Parma, al minuto 0.33 del video qua sopra, Thuram non sembri alto la metà. Osservare l’elevazione imperiosa di Iván è impressionante: quando i piedi si staccano da terra, come nei gol contro il Cagliari o il Manchester United del video, sembrano poggiarsi su un’ideale scala che s’inerpica sulle nuvole.

Figlio ed eminente prodotto della working class, alla maniera in cui i grandi tiratori si sono formati calciando bombe contro le serrande dei garages, Iván Zamorano ha coltivato il suo talento particolare, il colpo di testa, con dedizione e disciplina. Racconta che suo padre, fin da piccolo, gli ha insegnato a lavorare sui suoi punti di forza, per affinarli, anziché smussare le debolezze.

«A casa mia c’era questo lampadario appeso in salotto: tutti i giorni, quando tornavo a casa, cercavo di sfiorarlo con la testa, fino al giorno in cui ci sono riuscito. Ero tutto felice. Il giorno successivo sono tornato da scuola e non riuscivo più ad arrivarci: mia madre l’aveva tirato qualche centimetro più in su, così che mi potessi sforzare per tornare a colpirlo».

Lo avevano soprannominato Bam Bam, come il personaggio de "Gli Antenati". Perché era minuscolo e temibile allo stesso tempo, perché nascondeva una forza e una volontà insospettabile. In quel nomignolo c’era tutta la primitività dei gesti più infantili: colpire più forte degli altri. E poi saltare, come espediente per elevarsi, superare gli avversari, arrivare per primo al traguardo.

Con il Cobresal, la squadra dei minatori di rame di El Salvador - che gioca in uno stadio da ventimila posti in una città di appena diecimila abitanti - vinse la prima Copa de Chile della loro storia, nel 1987. Prima di consacrarsi, qualche mese in prestito al Transandino, nella serie cadetta.

In una partita di Copa, contro la corazzata U de Chile, a diciassette anni, si avventa su un pallone respinto in area dal portiere della U: salta almeno mezzo metro più in alto del difensore centrale avversario, segnando. In quel momento, il rivale - ricorda oggi - realizzò di essere giunto al capolinea della sua carriera. Si chiamava Manuel Pellegrini. Appese gli scarpini al chiodo e si iscrisse a ingegneria. Il resto della storia lo conosciamo. «Ma se avessi saputo chi era quel ragazzino e dove sarebbe arrivato, forse avrei aspettato altri due anni per ritirarmi».

Alicanto non ripone mai le proprie ali per dormire. E per dargli la caccia bisogna aspettare che sia del tutto addormentato. Il che succede raramente.

La forza di Zamorano

Il suo patrimonio tecnico, la sua forza, erano tutte concentrate nell’emisfero nord del corpo. Qualcosa di inusuale, per un calciatore, che eppure è stato il grimaldello con il quale ha forzato le dinamiche della sua carriera. Dal rifiuto del Bologna al San Gallo in Svizzera. E di lì al Siviglia, ma soprattutto in un Real pieno di giocatori ipertecnici, dalla sensibilità di tocco del pallone sopraffina, da Laudrup a Martin Vásquez, del quale divenne il prisma attraverso il quale la grazia si trasformava in concretezza.

Alejandro Koch è stato uno dei preparatori fisici della Selección cilena durante la permanenza nella "Roja" di Zamorano. «Abbiamo misurato più volte la sua capacità di salto. Una media di 75-76 centimetri. Una volta, in allenamento, superò gli 80». Koch sarebbe diventato il suo chinesiologo personale, ne avrebbe curato la fisica del colpo di testa: «Ciò che lo rendeva incredibile era la capacità di catapultarsi sul pallone con slancio. È per questo che riusciva ad anticipare difensori molto più alti di lui».

Nella parentesi all’Inter si è reinventato. Ha smesso di cercare la porta con l’insistenza testarda che aveva in Spagna, dedicandosi a un’instancabile operazione di rammendo tra i reparti. Con i suoi strappi tenaci creava lembi di campo in cui poteva riversarsi la fantasia di Recoba, di Baggio, la luminosità di Ronaldo. Ma quando il pallone, dalle fasce, fendeva l’aria a mezz’altezza, Zamorano si materializzava come l'incarnazione naturale di una divinità pagana, capace con un solo gesto di far abbattere grandine e tempeste sui campi degli uomini.

Foto di Claudio Villa / Stringer

Nella stagione ‘94-’95, la penultima con le "merengues" prima di trasferirsi a Milano, forse il picco massimo della sua carriera, fu devastante in una maniera che non avrebbe mai più saputo replicare: Pichichi con 27 gol, una tripletta in un umiliante 5-0 inflitto al Barcellona in cui non segnò neppure un gol di testa. Nella partita decisiva per il titolo dimostrò come le proprietà aerobiche del suo corpo, in volo, non si potessero arginare: sul lancio di Amavisca, per stoppare il pallone con il petto, prende almeno venti centimetri al difensore che sta retrocedendo per non lasciarselo scappare. E, addomesticato il pallone, con un diagonale preciso e implacabile, batte il portiere del Deportivo. È un gol che vale uno scudetto.

Anche se abbiamo seppellito le reminiscenze del Zamorano coi piedi incollati a terra sotto una coltre polverosa, Bam Bam è stato molto più che un eccellente colpitore di testa. Sapeva difendere il pallone con il corpo, insinuarsi negli spazi, farsi trovare al posto giusto al momento giusto. Aveva il dono che definiremmo della rapacità, se non sembrasse un completamento posticcio alla metafora del condor.

«Io, per esempio, penso di essermi migliorato come calciatore osservando Zamorano. Guardavo il suo posizionamento, come riusciva a crearsi gli spazi per tirare. Una delle sue grandi virtù è stata la mia preferita: la facilità nel segnare gol di prima, che fosse dentro o fuori dall’area. E poi il suo colpo di testa. Avercelo avuto io, il colpo di testa di Zamorano», ha confessato Ronaldo poco prima della partita d’addio di Iván, più con semplicità che con facile piaggeria nostalgica. «Era qualcosa di impressionante».

Nella mitologia Mapuche, quando Alicanto si alza in volo sprigiona una luce incandescente. Ovviamente ogni uomo, in cuor suo, vorrebbe si spegnesse presto, perché troppo nitore finisce per mettere a nudo tutte le debolezze, le imperfezioni dell’umanità. La sua caducità.

Ma la luminescenza di Alicanto non si può fermare, perché si rischia di rimanerne accecati. Ci si deve accontentare di guardarla da lontano, tornando a sbalordirsi del fenomeno inspiegabile che si ripete. Ogni volta uguale a se stesso, come quando Zamorano saltava più in alto di tutti, per fare gol.

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