
Non dimenticheremo facilmente il momento in cui si sono rotti gli argini. Il momento in cui Alessia Orro è andata in battuta infliggendo un parziale senza fine agli Stati Uniti. L'Italia ha cominciato a mettere tutte le palle a terra in attacco, e a non far cadere niente in difesa. Durante quei punti l'Italia del volley ha percorso ad ali spiegate gli ultimi punti che l'hanno separata dal primo oro olimpico della propria storia, e c'era una strana leggerezza nell'aria. Non solo di una squadra forte e consapevole e in cui le atlete si sono fuse ormai in un posto unico. C'era qualcosa di supplementare, la sensazione che questo corpo si fosse liberato di qualcosa, della paura di fallire, da tutti i fantasmi che hanno infestato questa squadra negli ultimi sei anni.
Durante questo tempo si è creato attorno alla Nazionale femminile di pallavolo un carico di pressione opprimente. Tutto è iniziato con l’argento mondiale del 2018, che ha messo in luce il talento straripante di Paola Egonu, all'epoca non ancora ventenne. Accanto a lei una generazione di potenziali campionesse: Miriam Sylla, 23 anni, e Anna Danesi, 22 anni, su tutte. Un contesto che ha creato attorno a questa Nazionale la sensazione più spiacevole: la condanna a vincere. A dover reggere il fardello, in panchina, Davide Mazzanti.
In quel momento, però, il volley era una cosa diversa. In ogni angolo del globo c'era una Nazionale in grado di esprimere una pallavolo di alto livello. Farsi largo era complicato: la Cina in Asia, il solito Brasile in Sudamerica, sempre sul podio tra mondiali e olimpiadi negli ultimi 3 anni, gli Usa campioni olimpici uscenti per il Nordamerica, in Europa invece la Serbia due volte campione del mondo e pure la Turchia, che ha piantato la propria bandierina nell’atlante della pallavolo internazionale dopo aver conquistato Nations League ed Europei del 2023.
In questo contesto le aspettative attorno all'Italia, generate spesso da un pubblico poco consapevole di queste dinamiche, hanno creato un clima schizofrenico. Dopo un'Olimpiade di Tokyo deludente, l'Italia si è riscattata vincendo gli Europei poche settimane più tardi. Il terzo posto ai Mondiali del 2022 viene però accolto come un flop, malgrado si tratti di una formazione con pregi e difetti ben riconoscibili, sempre costretta a rincorrere un equilibrio precario, soprattutto in posto 4, che è naufragato nella semifinale persa contro il Brasile.
L’equilibrio è saltato completamente nell’ultima estate, quando si è aperto uno strappo tra il gruppo e Mazzanti, che per gli europei non ha convocato, tra le altre, De Gennaro e Bosetti – due elementi imprescindibili per la tenuta della seconda linea – e ha messo all’angolo Paola Egonu, entrata giusto per qualche doppio cambio con la diagonale palleggiatrice-opposta titolare, o nei momenti di estrema necessità, come la semifinale (poi persa) con la Turchia. Mazzanti si giustificherà dicendo che «era l’unico percorso che potevo fare. Dovevo riavere una squadra in mano, e dopo i mondiali non ce l’avevo» e dopo aver fallito la qualificazione a Parigi tramite il torneo preolimpico di Lodz, risolverà consensualmente il rapporto con la Nazionale.
La nomina (e il lavoro) di Velasco
Al suo posto la federazione ha ingaggiato in novembre il 72enne Julio Velasco. Il tecnico argentino è stata una delle figure di riferimento della pallavolo italiana e internazionale, sia con le vittorie della “generazione di fenomeni” ma soprattutto con un approccio innovativo alla metodologia dell’allenamento. Negli anni ’80 tra l’altro ha brevettato un modello di scout che rappresenta tuttora la base su cui analizzare le partite. Velasco però, che pure aveva già allenato la Nazionale femminile tra il 1997 e ’98 – con risultati inferiori alle attese – veniva da 4 anni di inattività e aveva appena iniziato la stagione con l’UYBA, un club di A1 femminile di secondo piano. C’era il rischio effettivamente che si trattasse di una scelta di retroguardia da parte della Fipav, rivolta più al passato che al futuro.
Tra l’altro nello staff di Velasco sono stati inseriti altri due primi allenatori come Massimo Barbolini e Lorenzo Bernardi, che in questa stagione hanno allenato a Scandicci e Novara, due dei principali club di A1.
Un’anomalia che Velasco ha spiegato così: «Per me il secondo allenatore della Nazionale dev’essere un allenatore di Serie A1. Nel 1989 proprio per questo non portai con me Barbolini, che era il mio vice nel club, ma scelsi Frigoni. E sempre per questo oggi ho scelto Massimo e Lorenzo Bernardi, al quale chiederò soprattutto di occuparsi delle giocatrici che non saranno con noi in VNL, pensando al dopo Parigi (...) avere Massimo così come Lorenzo al mio fianco in panchina è un lusso assoluto, così come Juan Manuel Cichello. Nel corso delle nostre riunioni escono sempre idee nuove e questo è un qualcosa di veramente positivo».
Il neo commissario tecnico, che ha avuto a disposizione le ragazze un po’ alla spicciolata tra aprile e maggio, ha lavorato innanzitutto per centrare la qualificazione olimpica attraverso la Nations League. E l’ha fatto cercando di ricompattare il gruppo e nello specifico di aumentare la solidità della seconda linea, grazie al ritorno di "Moki" De Gennaro, anche a 37 anni il miglior libero al mondo, e Caterina Bosetti, nonostante i problemi al ginocchio che si è trascinata quest’estate. Nei time out delle prime partite di VNL lo abbiamo sentito spesso invitare la palleggiatrice (Orro più di Cambi) a non sovraccaricare Paola Egonu nei momenti di difficoltà, o le schiacciatrici a non rifugiarsi nelle pallette più scontate, specie in contrattacco.
Un momento di comicità involontaria offerto da Velasco.
L’Italia ha vinto un po’ a sorpresa una Nations League in cui Velasco ha utilizzato il sestetto titolare anche nelle fasi finali, dove ha trovato spazio in posto 4 il braccio potente di Alice Degradi, una schiacciatrice di 28 anni con una carriera minore rispetto alle sue compagne, ai margini delle squadre di vertice. Degradi però ha attaccato con un sorprendente 51,3% di efficacia su 109 palloni, proponendosi come l’uscita forte in banda che l’Italia aveva perso dopo l’operazione alla spalla di Elena Pietrini, la stella di Euro ’21. Purtroppo però in un’amichevole in luglio anche Degradi si è infortunata (frattura al legamento crociato della gamba sinistra), costringendo Velasco a ritrovare una nuova fisionomia al reparto schiacciatrici. Volente o nolente, l’allenatore è ripartito da Bosetti e Sylla.
La prima una grande specialista in seconda linea e in possesso di una grande manualità, ma limitata da alcuni gravi infortuni, tra cui quello al crociato nel 2018 e quello all’alluce del piede destro che le ha fatto saltare l’europeo di 3 anni fa. La seconda una giocatrice più atipica, che negli ultimi anni ha perso un po’ di continuità nei vari fondamentali, ma in grado di salire di livello quando inizia a recuperare palloni in difesa.
Insomma un grande torneo dell’Italia non poteva non passare dalla tenuta delle sue schiacciatrici, perché poi una buona ricezione avrebbe facilitato il lavoro di Orro, che altrimenti con palla staccata avrebbe finito per alzare quasi esclusivamente all’opposta, nonché da un grande muro difesa, storicamente uno dei pezzi forti di questa Nazionale. Nonostante queste incognite – ma anche diverse certezze, come le due centrali Danesi e Fahr, quest’ultima reduce da una stagione esaltante a Conegliano, la prolificità di Egonu e l’inscalfibilità di De Gennaro – l’Italia veniva considerata per alcuni bookmaker come la favorita principale per l’oro. «La femminile non ha mai vinto una medaglia, com’è che adesso è favorita per l’oro? In base a cosa? Perché abbiamo vinto la VNL? Dobbiamo combattere quest’ansia» era stato il commento perplesso di Velasco.
A posteriori possiamo dire che le azzurre hanno usato la prima partita del girone contro la Repubblica Dominicana come un rodaggio. Sulla carta l’impegno più abbordabile dei Giochi, eppure la gara più sofferta, l’unica in cui la Nazionale ha concesso dei set all’avversario, il secondo, e dove Velasco ha sostituito entrambe le schiacciatrici. Dalla seconda gara con l’Olanda è iniziato un percorso netto, fatto di 3-0 perentori, da parte di una squadra che sembrava quasi si andasse a prendere delle vittorie che le spettavano di diritto. È stato il caso del doppio successo contro la Turchia nel girone e in semifinale, intervallati da un altro risultato rotondo contro la Serbia, che aveva eliminato le azzurre alle ultime olimpiadi proprio nei quarti.
11 muri a 0
L’Italia ha sovrastato l’avversaria di turno con una brutalità – e una facilità – che quasi si è dubitato del loro valore. In finale la Nazionale – che nella sua storia olimpica mai aveva superato i quarti - ha affrontato gli Stati Uniti di Karch Kiraly, un’altra leggenda di questo sport. Le americane, reduci da un percorso ben più probante, hanno terminato al secondo posto un girone con altre due big come Cina e Serbia, prima di superare nel tie break della semifinale un’altra contendente per l’oro, il Brasile, nella riedizione della finale del 2021. Ma contro una selezione che ti logora come gli Stati Uniti grazie al suo lavoro ai fianchi, fatto di scambi estenuanti, anche sporchi, una serie infinita di tocchi a muro e altrettante rigiocate, l’Italia ha trasmesso fin dai primi punti l’idea di essere in gestione, depotenziando subito la pericolosità di un sestetto in teoria più omogeneo in attacco e con più soluzioni in panchina. La resilienza delle americane è stata piegata da una prestazione dominante: gli 11 muri a 0 per le azzurre rappresentano una statistica assurda, una di quelle che da sola indirizza l’intero andamento di un match, in cui le campionesse uscenti hanno raccolto al massimo 20 punti in un singolo set, il secondo.
L’Italia ha messo a terra i classici "muroni" perentori, quelli su free ball avversaria in cui la palla torna indietro ancora più forte dell’attacco - ad esempio quelli di Danesi sulle pipe di Thompson e Skinner rispettivamente nel secondo e terzo set - che hanno alimentato il break e sgretolato le sicurezze delle attaccanti americane. Non appena il cambio palla azzurro rallentava, ecco puntuale l’ancora di salvataggio a forma di Anna Danesi e Sara Fahr. Ecco una "stampatona" di Fahr su Ogbugu.
Se la neo capitana della nazionale si è confermata l’interprete più forte nel fondamentale (per quanto in attacco abbia stentato), Fahr ha impiegato la fase a gironi per migliorare nelle scelte e trovare le giuste spaziature in assistenza. Poi dai quarti è diventata una sentenza pure in attacco, con un eccellente 70,3% su 27 palloni che ha fornito a Orro un’uscita preziosa per variare la sua distribuzione, specialmente quando Egonu è stata più marcata.
Il muro difesa è stato qualcosa di commovente a partire dalla seconda partita e si è mantenuto su standard altissimi: al di là della velocità nelle traslocazioni da parte delle centrali, anche le laterali hanno saputo offrire un ottimo punto palla a muro. La stessa Alessia Orro, sulla carta il punto debole in prima linea – è alta appena un metro e 78 – si è rivelata molto fastidiosa, anche se la differenza l’ha fatta nelle rotazioni in seconda linea, dove ha difeso la diagonale stretta come un libero aggiunto (48 difese complessive e ottavo posto in una classifica dominata dai liberi). L’organizzazione tra prima e seconda linea ha saputo anestetizzare due tra le migliori opposte al mondo quali la serba Boskovic (18 punti su 43 attacchi ma 10 errori) e la turca Vargas (13 su 28 in semifinale e 6 errori), col contributo speciale di Caterina Bosetti. Anche lei sulla carta doveva essere un target sensibile a muro, invece ha saputo tenere una posizione ordinata e invadente. In finale, se possibile, l’Italia ha alzato ulteriormente il livello della fase break, mettendo grande attenzione nelle coperture (in primis alle proprie attaccanti) e costringendo gli Stati Uniti, nel migliore dei casi a uno o due attacchi supplementari. In questo modo la squadra ha potuto gestire con maggior serenità anche qualche passaggio a vuoto in cambio palla.
Con De Gennaro e Sylla, la seconda linea si è trasformata in un territorio impenetrabile, come all’europeo di tre anni fa. Le stesse centrali hanno fatto la loro parte nel giro dietro, andando a terra se necessario per difendere una diagonale stretta. Persino una squadra paziente e abituata a soffrire come quella americana è parsa spaesata e a corto di soluzioni, nonostante i ripetuti cambi di Kiraly. Nel primo set gli USA sono andati subito sotto 1-6 sul turno al servizio di Danesi e hanno accumulato addirittura 9 errori punto, di cui 6 di Plummer su 13 attacchi e 2 di Drews su 12. Il tecnico americano in queste olimpiadi ha puntato in posto 4 sulla coppia Plummer-Skinner (entrambe in A1 nell’ultima stagione) più votata all’attacco che alla ricezione, sacrificando Larson e soprattutto Robinson Cook, una delle giocatrici più complete della storia recente del campionato italiano. Alla fine la ricezione ha retto (46,1% di perfetta per le due nel primo parziale), il problema semmai è stato il rendimento in attacco, che ha portato il quattro volte campione olimpico a inserire Larson per Plummer e l’opposta Thompson per Drews.
L’Italia, che nei quarti e in semifinale si è presa un mezzo parziale per registrare la ricezione, è partita subito molto precisa, al netto di un ace subito da Bosetti. Gli Usa hanno battuto anche su De Gennaro (9 ricezioni perfette su 13) e per due set e ricaveranno relativamente poco dai 9 metri, considerato che Sylla ha tenuto bene quando è stata cercata in prima linea o con dei servizi nella zona di servizio tra lei e Bosetti, quest’ultima più sollecitata nel corso del torneo con delle palle corte dirette verso 6-3. Le due bande hanno chiuso rispettivamente con il 48,65% e il 62,63% di rice perfetta, delle percentuali monstre che hanno messo Orro spesso e volentieri nelle migliori condizioni di gestire il side out.
Il team USA nel secondo set si è spremuto ad ogni cambio palla, mirando le righe (4/6 in attacco per una buona Larson), pur di rimanere aggrappata alla formazione di Velasco. Ma una “sette” molto improbabile (e non riuscita) tra la palleggiatrice Poulter e la centrale Ogbogu rende l’idea di quanto la formazione di Kiraly si sia sentita obbligata a spingere il cambio palla per provare a uscire dal muro avversario (9-12). Orro invece come di consueto ha inaugurato la finale servendo subito la propria attaccante principale, Paola Egonu, a prescindere dalla ricezione, salvo poi costruirsi delle alternative nel corso della gara.
Egonu ha disputato un'Olimpiade inevitabilmente più matura rispetto a quella del 2021, che sublima la sua crescita. Meno esuberante forse nei suoi attacchi, ma decisamente più efficiente nella scelta dei colpi. Un’Egonu che sta selezionando meglio le direzioni d’attacco anche in base a cosa succede dall’altra parte della rete (non di rado abbiamo visto scavalcare il posto 5 con una palletta lunga simile a un line shot nel beach volley), limitando gli errori diretti. Lo stesso Velasco dopo la VNL ha ammesso la sua crescita in difesa, il suo fondamentale peggiore, e a muro. L’attaccante di Cittadella da ormai diversi anni ci ha abituato a degli standard inavvicinabili per la maggior parte delle atlete e delle volte rischiamo di dare per scontata la sua eccezionalità, visto che garantisce alle sue squadre una base di almeno 15 punti (18 abbondante la media a Parigi). In Francia ha confermato di essere la giocatrice più decisiva al mondo e di mettere giù non solo tanti attacchi, ma anche pesanti. Tipo la parallela interna con cui ha archiviato il primo parziale.
Velasco, in concomitanza col suo secondo giro in battuta, in ogni parziale l’ha sostituita con Cambi, facendo entrare anche Antropova al posto di Orro. In questo modo l’Italia è riuscita a mantenere un muro forte, oltre che a dare un po’ di respiro a Egonu (prima del doppio cambio nel secondo set aveva fatto registrare un parziale di 0/5 in attacco).
Antropova è una riserva di lusso, un’opposta di 21 anni affilata in ogni fondamentale, che nelle 4 rotazioni in cui rimane in campo è in grado spesso di inclinare i set dalla propria parte. Contro l’Olanda ha giocato da titolare a causa dei problemi di bassa pressione che hanno afflitto Egonu (mettendo assieme qualcosa come 33 punti in 3 set), ieri in tre scampoli ne ha firmati 6, compreso il muro e l’ace nel terzo parziale (14-20) che hanno reso gli ultimi scambi quasi una formalità. Con questa staffetta il CT ha trasformato un potenziale dualismo, quello tra Egonu e Antropova, in un valore aggiunto, ripescando pure un’alzatrice di talento come Cambi, preziosa in regia e in difesa.
La diagonale stretta di Antropova nei 3 metri, una gemma.
Un altro elemento determinante è stata il servizio floattante ma estremamente teso nei turni delle centrali, Bosetti e Orro, con dei target ben precisi, spesso la schiacciatrice di prima linea o comunque una palla distante dal libero (Wong Orantes tra secondo e terzo parziale ha ricevuto solo 2 palloni). Proprio la sequenza di 5 battute e 3 ace da posto 1 verso posto 5, a pizzicare una Plummer in cattiva giornata, ha scavato un solco di 6 punti (6-12) nel terzo parziale, cementato dal rendimento delle due schiacciatrici.
Miriam e Caterina hanno dato concretezza alle ambizioni dell’Italia, disputando un’Olimpiade forse anche al di sopra delle aspettative. Le due bande, spalleggiate dall’eterna De Gennaro – che sulle rigiocate si è occupata come di consueto anche del secondo tocco - e dal jolly Giovannini hanno trasformato la seconda linea da incognita a punto di forza: Sylla ha spazzolato il campo, tenendo vivo ogni pallone diretto in posto 6 e difendendo pure gli attacchi lunghi verso 5. Bosetti è meno appariscente nei recuperi difensivi, ma non per questo meno efficace. Inoltre è diventata un fattore in attacco, specie nella finale. Con 9 punti complessivi e il 70% di positività da posto 4, la futura banda del Vakifbank Istanbul ha fatto saltare il banco negli ultimi due set. A Rai 2 ha spiegato di aver insistito molto sulla diagonale stretta o in mezzo al campo, considerato che dopo il primo set lo staff tecnico le aveva detto che il muro americano era spostato sulla parallela, forse perché preoccupato dai block out della numero 9. Anche Sylla ha giocato la sua pallavolo migliore, con un 43,2% di efficacia offensiva (da segnalare gli 11 attacchi punto su 24 tentativi della semifinale e il 7/17 di ieri) che racconta di una giocatrice che, se prende il necessario slancio nella rincorsa, diventa un fattore quando l’Italia riesce a spingere il suo gioco in banda.
Sylla che risolve problemi anche con la mano mancina.
Tutte prestazioni che hanno consentito ad Alessia Orro di variare il gioco nei frangenti in cui Egonu è stata difesa, come il terzo set della semifinale o gli ultimi due contro gli USA, quando ha alzato per una volta un numero simili di palloni a Paola (13 e 12) e ai martelli (10 e 9).
Incredibilmente la finale si è rivelata la partita meno sofferta della fase a eliminazione diretta e in meno di un’ora e mezza le azzurre si sono imposte con un’autorevolezza in linea con le altre partite di un torneo, tutte ai limiti della perfezione.
Questa medaglia d’oro può rappresentare una sorpresa – anche perché era più lecito attendersi un’impresa del genere dalla nazionale maschile, che invece ha chiuso i Giochi al quarto posto – ma corona il ciclo di un gruppo costantemente ai vertici della pallavolo mondiale da 6 anni (nella finale iridata del 2018 fa c’erano già 5 delle titolari a Parigi). Un oro che riporta gli sport di squadra sul gradino più alto del podio 20 anni d’oro la vittoria del Setterosa ad Atene, che finalmente rompe una maledizione, quella della pallavolo italiana, che un’edizione dopo l’altra ha nutrito un rapporto sempre più isterico con quel trionfo che non ne voleva sapere di arrivare.
Una maledizione che si è aperta nella finale di Atlanta del 1996. persa contro l’Olanda. C’erano Bernardi in campo e Velasco in panchina: per loro questa olimpiade ha il sapore del riscatto, anche sbalorditivo se consideriamo la scarsa esperienza di entrambi nel femminile. “Ma io non ho mai avuto l’ossessione per questa medaglia – ha spiegato l’allenatore nel dopo gara – il mio obiettivo era ricostruire una squadra in difficoltà e riportarla ai primi posti”. Anche le ragazze hanno insistito sulla ritrovata coesione del gruppo dopo l’ultima gestione sanguinosa di Mazzanti. Sylla ha celebrato su Instagram la vittoria della VNL postando la definizione da dizionario del verbo “ricomporre”, Egonu senza mezzi termini ha dichiarato che «Velasco è stato bravo a unirci tutte e a costruire quella squadra che mancava da un po’».
Il commissario tecnico in appena 4 mesi ha ricompattato il gruppo («che non è imprescindibile, ma aiuta»), rendendo la squadra equilibrata e solida in ogni fondamentale del gioco. E l’ha fatto con una grande organizzazione collettiva, che ha trasformato una Nazionale sbilanciata sui suoi punti di forza (De Gennaro ed Egonu) in una creatura sempre più omogenea e imprevedibile. È l’ennesima impresa della carriera, sicuramente quella più insperata, di uno dei più grande profeti della cultura sportiva italiana. Da oggi ha un'aura un pochino più mistica.