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→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
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Giuseppe Pastore
Quando eravamo re
09 ago 2019
09 ago 2019
Storia della più grande squadra di pallavolo mai esistita.
(di)
Giuseppe Pastore
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L'atmosfera è collosa viscosa appiccicosa. Certo non è il Maracanazinho con le sue finestre senza vetri per non arrivare alla temperatura di un forno a legna, ma sull'Omni Coliseum di Atlanta oscilla l'atmosfera pesante dell'appuntamento – peggio, del duello finale con la Storia. Siamo al coperto ma dal soffitto pendono ideali nuvoloni gravidi di afa e umidità. Tre mesi dopo ci suoneranno gli Smashing Pumpkins e ora a questo punto noi potremmo immaginarci gli sguardi in slowmotion di Giani Papi Bernardi Gardini sul 14-14 del quinto set della finale olimpica Italia-Olanda, mentre aspettano la battuta di Paolo Tofoli e in sottofondo scorre

con quelle parole così cariche di destino e ineluttabilità:

Ma nel brodo di una finale olimpica di pallavolo le cose scorrono molto più velocemente e nelle orecchie ci rimbomba piuttosto l'ossessivo tappeto di sottofondo di

degli Underworld, perché in fondo di un'ossessione stiamo parlando, mentre Tofoli batte in sicurezza, gli olandesi eseguono l'unico schema che gli rimane da fare, da Blangè a van der Goor, ma il muro regge!, contrattacco, Gardini va da Giani, palla a terra, 15-14. Un punto solo, un punto ancora.

 

Che Julio Velasco sia stato un gigante dello sport, e lo sia tuttora, è un'immensa banalità. Nessuno in Italia ne ha eguagliato le imprese da commissario tecnico: prendere una Nazionale di rilevanza periferica, seppur dall'ottimo potenziale, e in meno di dieci anni farla diventare la più grande squadra della storia di quello sport. Ma a quale costo, per se stesso e per le persone che ha allenato? L'Italia del volley anni Novanta è stata una squadra strana, clamorosamente atipica, sempre compatta come un pugno nonostante le tremende sollecitazioni dall'esterno, i soldi, la gloria, le copertine, la pubblicità, senza un debordante fuoriclasse alla Despaigne a trascinare gli altri, ma tutti insieme a scambiarsi le parti, in un vorticoso e virtuoso balletto di alternanze e di responsabilità, come fosse il valzer dei cambi di un quinto set. E poi una squadra colta, tendente all'intellettuale («ma come parlano bene i pallavolisti!»), persino vanitosa nel suo porsi come validissima alternativa al Dio Calcio, senza tensioni, senza ultrà, senza violenza, senza “ignoranza”. Una squadra senza divinità o elementi soprannaturali, insomma una squadra di uomini, e come tali fallibili. Che storia è stata.

 



1989. Non tutti sanno che Gianni Mura, prima di diventare un formidabile commentatore di calcio e ciclismo, ha avuto intense passioni giovanili come l'atletica e la pallavolo. La pallavolo sfigata diremmo oggi, quella quando «

, vent'anni fa, e si poteva perdere anche col Belgio, si finiva a Yambol (posto terrificante) a giocare con la Mongolia e il Venezuela per conquistare un quindicesimo posto che non importava nulla a nessuno. Allora, perdere 3-0 con le squadre dell'est era normale, già bravi a tenerli in campo più di un'ora».

 

Negli anni Ottanta l'Italia si è arrampicata fino a un bronzo olimpico arrivato grazie al boicottaggio dell'Est Europa, ma a Seul 1988 siamo tornati alla rassicurante mediocrità di un nono posto. È un mondo di alibi, di auto-commiserazione e di responsabilità scaricate sulle spalle dei campioni stranieri, più pagati ed evidentemente più forti. Ma è anche un mondo di giovani talentuosi, che hanno già iniziato ad assaggiare il pane duro delle costanti umiliazioni internazionali: a Seul c'erano già Bernardi, Bracci, Cantagalli, De Giorgi, Gardini, Giani, Lucchetta, Zorzi, mortificati 3-0 da Brasile e Bulgaria e 3-1 dalla solita URSS. «Partivo per la Nazionale e tutti mi dicevano: 'Cosa ci vai a fare? Tanto perdete sempre»,

.

 

Questa generazione ha già battuto un colpo nel 1985 quando, guidata dal polacco Alexander Skiba, al Palalido di Milano è arrivata seconda ai Mondiali Under-21, battuta solo dagli immancabili sovietici. Skiba è un ex campione olimpico (1976) e mondiale (1974) che nasconde sotto il barbone vagamente minaccioso grandi capacità gestionali e organizzative e coordina il progetto federale che un bel giorno di primavera del 1989, dopo la cocente delusione sudcoreana, in concerto con il presidente federale Manlio Fidenzio decide di affidare la Nazionale al giovane tecnico argentino che a Modena ha vinto tre scudetti di fila e a maggio vincerà anche il quarto contro gli arcinemici di Parma, più una finale di Coppa Campioni persa contro il CSKA Mosca. Per abbandonare la mentalità che affida ogni pallone e ogni speranza ai campioni stranieri, cosa c'è di meglio di un ct straniero?

 



«

perché non gli hanno alzato bene la palla, ma la palla non è stata alzata bene perché chi ha ricevuto non l'ha fatto nel migliore dei modi. Quest’ultimo, poverino, non può a sua volta scaricare la colpa sull’avversario, dicendo: batti più facile! E allora dà la colpa alla luce. Quindi, se schiaccio fuori, è colpa dell’elettricista!».

 

Julio Velasco è stato informato del nuovo incarico da un giovane giornalista modenese, Lorenzo Dallari, che a sua volta ha ricevuto la notizia da Carlone Gobbi, prima firma pallavolistica della

. Lo schema del telefono senza fili rende abbastanza l'idea della lieve approssimazione che vige in cima alla Federvolley. Ma Velasco è sintonizzato sulle stesse frequenze di tutti i critici del settore e lo dimostra con il suo primo discorso alla squadra – un discorso che, come tutte le prime volte storiche, confina con la leggenda. «Voi italiani siete i migliori del mondo per ciò che riguarda mangiare, bere e vivere bene. O almeno credete di esserlo. Ma tra queste righe gialle qui, quelle che racchiudono i 18 metri del campo, le beccate sempre dai sovietici, dai bulgari, dai polacchi, dalla Germania Est. Il vostro primo nemico siete voi. Da adesso si gioca per vincere».

 

Velasco ha compiuto 37 anni da poche settimane ma ha già il carisma e la parlantina dell'uomo che ne ha viste tante.

, compreso l'agente immobiliare: «Vendevo case, io che odio vendere cose». È un incrocio vivente di razze, stili e convinzioni, la prova vivente del famoso detto: «Gli argentini sono italiani che parlano spagnolo, pensano in francese e vorrebbero essere inglesi». Sua madre Edith è di mamma italiana e papà inglese; suo padre Raul, metà spagnolo e metà indio peruviano, è morto quando lui aveva otto anni per una pancreatite curata male.

 

Il curriculum dice che ha già vinto in due continenti diversi, affermandosi di soppiatto ai Mondiali di Argentina 1982 come assistente e portavoce del ct coreano Young Wan Sohn: pare che, al momento di riportarne le indicazioni alla squadra, il giovane Julio si prendesse molte libertà. È arrivato un bronzo clamoroso che ha dato giustizia alla scelta radicale del Velasco diciottenne, mollare La Plata per andare a giocarsi tutto a Buenos Aires in piena dittatura militare, quando a uno studente di filosofia con idee maoiste come lui non era consigliabile farsi scattare una foto o abitare troppo a lungo allo stesso indirizzo. Per un mese anche suo fratello Raul ha ingrossato le fila dei desaparecidos, prima della sospirata liberazione: «Lo presero a casa mia madre e ancora oggi ho il dubbio che cercassero me».

 

In un Paese futbol-centrico che ha occhi solo per Kempes e Maradona, Velasco divora tutta la pallavolo di cui è capace, nella pratica e nella teoria, e dopo l'exploit del 1982 riceve una chiamata dall'Italia. All'altro capo del telefono c'è Beppe Cormio, direttore sportivo del Latte Tre Valli Jesi, squadra di seconda divisione con in rosa un paio di nazionali argentini, Wagenpfeil e Kantor, che potrebbero convincerlo ad accettare. Velasco si stabilisce a 9 chilometri da Jesi nel buen retiro di Pianello Vallesina, dove passa due anni totalmente immerso nella cultura e nelle abitudini della profonda provincia italiana. E nell'estate 1984, nell'incerto tv-color a sua disposizione, guarda e sogna le Olimpiadi di Los Angeles, dove l'Italia di Silvano Prandi si tinge di bronzo e i suoi argentini sono solo sesti.

 

A Modena scopre la pressione di dover lottare sempre per la cima e la cosa non gli dispiace affatto. Plasma il gruppo giovane ed entusiasta dei Vullo, Cantagalli, Lucchetta, opposti alla Maxicono Parma di Gardini, Zorzi e Andrea Giani. In una camminata sul lungolago di Arona, nel ritiro estivo, convince il diciottenne Lorenzo Bernardi ad abbandonare le velleità da palleggiatore e trasformarsi in schiacciatore. Vince sempre e cavalca l'onda del volley che si sta facendo fenomeno di costume, e quando lo ritroviamo in Nazionale entra subito in scivolata con una decisione che fa discutere, ai danni proprio di un modenese: se l'addio di “mano di pietra” Franco Bertoli era stato già annunciato, fa scalpore non ritrovare Fabio Vullo nei convocati per gli Europei 1989. I due palleggiatori sono Ferdinando De Giorgi, che gioca a Montichiari, e il giovane Paolo Tofoli, alzatore senza pedigree del Petrarca Padova finito sesto in campionato.

 

«Quella del 1989 fu un'estate durissima» - ricorderanno molti giocatori nel 2007 alla

- «ci portò in posti assurdi, ai confini del mondo, trasferte incredibili: si mangiava male, ma non ci si doveva lamentare. Voleva un gruppo di persone che sapessero combattere e anche per questo aveva deciso di non portare i migliori dodici: voleva quelli disposti a sacrificarsi». La pallavolo italiana è malata di pessimismo cronico e all'inizio scrolla le spalle anche davanti all'elettroshock filosofico e metodologico di Velasco che ama il dibattito, il conflitto, la lite se vogliamo, lava i panni sporchi in pubblico, obbliga i suoi ragazzi a uno stress emotivo che per forza, prima o poi, li farà crescere.

 

Come si traduce questa filosofia in schemi, muri, schiacciate, punti, vittorie? Con una rivoluzione sacchiana esaltata dalla tecnologia, una novità assoluta nello sport italiano dell'epoca. Introduce lunghe sessioni al videoregistratore dove mostra allo sfinimento difetti e movimenti sbagliati, pretende schede e resoconti su ogni suo giocatore, si affida al computer anche durante la partita per decidere cambi e rotazioni. Il suo vice Angiolino Frigoni, seduto accanto a lui, è collegato via auricolare con altri due tecnici che si occupano dei rilevamenti statistici, Paolini e Giardinieri. «Basta con le squadre che si allenano con l'idea di lenti e progressivi miglioramenti: noi giochiamo per vincere».

 

Nessuno crede che l'Italia possa andare molto lontano agli Europei di settembre, in Svezia. Carlo Lisi, l'addetto stampa della Nazionale, è partito con in tasca un biglietto di ritorno per il 29 settembre, il giorno dopo l'ultima partita di girone. Invece sfatiamo subito il tabù orientale, battendo 3-1 la Bulgaria all'esordio, usciamo dal bozzolo, perdiamo solo un match irrilevante contro la Francia, nella seconda fase spieghiamo le ali e dominiamo l'Olanda (3-0) in semifinale. Dall'altra parte del tabellone la Svezia ha clamorosamente eliminato al tie-break i sovietici, levandoci l'angoscia della bestia nera.

 

La finale è una marcia trionfale: di noi si è accorta anche la RAI, che la segue in diretta con il commento di un ragazzo fiorentino di 32 anni la cui voce allegra ed entusiasta sembra tagliata apposta per cantare le gesta di questi ragazzi. Batte Masciarelli, difende Bernardi, alza Tofoli, schiaccia Zorzi, e Jacopo Volpi può finalmente urlare a pieno diritto che siamo campioni d'Europa. La stampa ospita per la prima volta considerazioni tattiche sulla pallavolo, spesso scritte con prudenza da palombaro da giornalisti di calcio. Il 30 dicembre,

, Gianni Mura elegge Velasco sportivo dell'anno e gli dà un bel 9: «Non ricordo un così radicale salto in avanti di una squadra nazionale».

 

https://www.youtube.com/watch?v=yMRI8McpoCA

 



1990. «

convocherò solo i titolari, perché i talenti che stanno in panchina non m'interessano. Sono contro il paradosso di giocatori che per soldi preferiscono fare la riserva a Milano invece che il titolare altrove».

 

Nell'estate del 1989 la pallavolo italiana è stata travolta da improvviso benessere, in coincidenza con lo sbarco di nomi pesantissimi: la Sisley Treviso della famiglia Benetton, la Messaggero Ravenna del gruppo Ferruzzi-Gardini che compra l'americano Karch Kiraly, il giocatore più forte del mondo; la Mediolanum Milano di Silvio Berlusconi. Gli ingaggi quadruplicano, i migliori sfondano il tetto del miliardo di lire. Velasco reagisce come un ct della Nazionale deve reagire. Il gruppo ormai è formato e diventa sempre più solido ogni giorno che passa, il problema semmai è l'improvvisa sovraesposizione mediatica, le ragazzine che li trattano come i Duran Duran, le prime sponsorizzazioni. La Squadra risponde con il profilo basso di chi crede davvero di non aver fatto niente.

 

Nell'estate in cui tutta l'Italia odia gli argentini e in particolare uno, tempestato di fischi al momento dell'inno nazionale della finale dei Mondiali, Velasco progetta la sua scalata al Brasile e al mondo. Il modello è proprio il grande Kiraly, trascinatore degli USA che hanno dominato a Seul, per Velasco «la più grande squadra della storia del volley». Gli americani hanno portato la specializzazione, sfruttano le capacità dei giocatori invece che cambiargli il ruolo. E poi che mentalità: «Kiraly sembra che ti mangi, ha le vene gonfie, non molla mai, ti urla in faccia, ti fa sentire che lui è il più forte».

 

Ci prepariamo al Mondiale brasiliano vincendo la prima edizione della World League, appena inventata dal presidente della Federazione Internazionale Ruben Acosta, e poi anche i Goodwill Games, una competizione simil-Olimpiadi promossa dal magnate televisivo Ted Turner per stemperare i veleni della Guerra Fredda: gli azzurri mettono tutti d'accordo battendo in semifinale gli USA e in finale l'URSS, così Bush e Gorbaciov sono sistemati. Partiamo per il Brasile con la scomoda etichetta di testa di serie numero 1, abbiamo risolto il complesso dell'Est Europa ma ne è subito spuntato uno nuovo, una Nazionale dall'esuberanza fisica debordante che rende il volley qualcosa di pericolosamente simile a uno sport individuale. Facile quando hai in squadra Joel Despaigne, “el diablo”, l'anima di Cuba.

 

Come da pronostico i cubani ci rullano 3-0 nell'ultima partita del girone di Brasilia in una partita tesa e piena di insulti, con cinque cartellini gialli, costringendoci a un ottavo di finale supplementare contro la Cecoslovacchia, ma ci toglie un po' di pressione. Il giorno dopo, sull'aereo che ci sta portando a Rio de Janeiro, dove giocheremo la seconda fase, Velasco prende da parte Jacopo Volpi e gli confida: «Ieri ci hanno massacrato, ma hanno dato il massimo. Non vinceranno più». Il Maracanazinho è un palestrone a poche centinaia di metri dal Maracanà del calcio: il caldo tropicale e l'inferno scatenato dai 27mila tifosi rende la situazione simile alla scena di Apocalypse Now in cui Martin Sheen arriva stremato nel villaggio del capitano Kurtz, facendo la conoscenza con migliaia di suoi sostenitori invasati. Eliminiamo di slancio Cecoslovacchia e poi anche l'Argentina e in semifinale ci tocca il Brasile. È una squadra giovane, che trae dal suo pubblico l'entusiasmo per saltare oltre l'ostacolo.

 

La partita è un romanzo. Nei primi 14 minuti non facciamo un punto e il Brasile scappa 8-0, esaltando la torcida. Il primo set è andato e lo cediamo 15-6, poi scende in campo l'Italia da combattimento - «quell'Italia così rara nello sport» come dice Velasco, che ama provocare e provocarci. Ci riesce: in difesa comanda Gardini, in attacco comanda Zorzi e il muro brasiliano inizia poco alla volta a sgretolarsi, il volume del Maracanazinho si abbassa e ci portiamo avanti 2 set a 1. Con grande freddezza nel quarto set Velasco fa rifiatare gran parte del sestetto titolare (Gardini, Tofoli, Bernardi, Cantagalli, Zorzi, Lucchetta), accettando di perderlo per avere tutti freschi al tie-break. È una scommessa che paga, alla fine di un quinto set memorabile in cui il pallone numero 15 lo mette a terra capitan Lucchetta con uno splendido primo tempo su suggerimento di Tofoli illeggibile per la difesa verdeoro.

 

https://www.youtube.com/watch?v=pIMlGaqHbqg

 

Cuba, dunque. C'è molto dello sport italiano che cambia in quelle ventiquattr'ore in cui un'altra squadra potrebbe allentare la presa e cullarsi sull'alibi della battaglia appena consumata. Non questa. La sbruffoneria di Despaigne («Gli italiani li batteremmo dieci volte su dieci») e i ventimila spettatori tutti filo-cubani fungono da detonatore per una delle più straordinarie prove di resistenza mai sostenute da una nazionale italiana.

 

Despaigne tiene fede al suo soprannome e gioca un primo set da indiavolato, chiamando a sé tutti i palloni. Cantagalli, bersagliato dalla battuta cubana, va in tilt e Velasco lo sostituisce cinicamente con Bracci. Ancora una volta perdiamo il primo set, ancora una volta la ribaltiamo con una forza mentale spaventosa per una squadra che non ha mai vinto niente. Gardini fa scorpacciate di cambipalla (alla fine sul suo tabellino ci sarà scritto 3+28), Zorzi come Achille finalmente accetta il duello con Despaigne, lascia l'accampamento e inizia a crivellare la metà campo cubana. L'onda magica dura fino a metà quarto set, quando conduciamo 10-5 prima di provare, eccola finalmente, la paura di vincere.

 

Velasco se l'aspettava, ma non li ha voluti avvisare. Cuba rimonta un punto dopo l'altro, il cavallo di Troia si chiama Ricardo Vantes, un mancino che abbiamo sempre sofferto nelle amichevoli precedenti. Con lui in campo Cuba piazza una striscia di 6-0 e va a condurre, portando il quarto set verso uno stillicidio di cambipalla che dura fino al 14-14, firmato da un rinfrancato Cantagalli con un muro in faccia a Despaigne. La nostra Iliade finisce in bellezza: Lucchetta schiaccia il 15-14 e al nono match-point difende meravigliosamente ancora su Despaigne, dando il via all'azione chiusa dalla schiacciata in diagonale di Bernardi, muro, fuori.

 

https://www.youtube.com/watch?v=w_wT7s3W1As

 

L'istinto porta Gardini a dare la scalata al seggiolone dell'arbitro come un alpinista pazzo di gioia, come fanno gli americani. È una delle immagini-simbolo di quella squadra che finalmente può assaporare il sapore dolce del trionfo, che si concretizza in litri di caipirinha ingollati senza pensieri nella lunga notte di Rio de Janeiro, una notte che ancora oggi non ha bisogno di troppe spiegazioni («Nel 1990 improvvisamente siamo diventati imbattibili, e non abbiamo mai capito perché», Andrea Zorzi lo sostiene ancora oggi). Una notte dove solo un uomo ha la lucidità ma anche la debolezza di guardare già oltre, due anni avanti, verso la sua unica ossessione da sportivo. Quell'uomo è Julio Velasco.

 



1991-1992. Spontaneamente associamo la parola “ossessione” a qualcosa di malsano e negativo, che spesso fa soffrire. Fa impressione ritrovarla anche nel contesto più sano e salutare che ci sia, lo sport – o esistono forse ossessioni più sane di altre? Velasco è un uomo di sport nel senso più alto del termine ed è ossessionato dalle Olimpiadi. Quelle del 1984, come abbiamo visto, se l'è guardate in tv. Quelle del 1988 le ha viste dal vivo ma in tribuna, in qualità di tecnico campione d'Italia. Nel 1992 vuole completare la scalata al suo Olimpo personale. Un minuto dopo la fine di Italia-Cuba decide che ogni pensiero pallavolistico del biennio successivo sarà dedicato a Barcellona; ma siccome è un uomo razionale, che si esalta nel ragionamento e nella dialettica, coinvolge nel piano anche i ragazzi che grazie a lui sono appena diventati i più forti del mondo.

 

Punto primo: allargare la rosa. L'Olimpiade ti costringe a otto partite in due settimane con una tensione quadrupla rispetto a un Mondiale: impensabile farcela solo in sei o sette. Velasco mette da parte le vecchie ruggini e riapre le porte a Vullo, senza chiarire chi sia il titolare tra lui e Tofoli. Negli altri ruoli, agli intoccabili Cantagalli, Bernardi, Zorzi, Lucchetta e Gardini progetta di alternare giocatori di primissimo livello del nostro campionato, a cominciare da un Andrea Giani sempre più uomo-immagine del nostro volley (è del 1991

con “More than a feeling” dei Boston in sottofondo), Masciarelli, Bracci, Pasinato e Galli. La testa corre al Milan di Capello, uno squadrone con venti titolari metà dei quali costretti ogni volta alla panchina o alla tribuna. Nascono “Italia 1” e “Italia 2”, alternate per tutto il 1991 con l'idea di arrivare alla sintesi hegeliana nell'estate di Barcellona.

 

Punto secondo: diventare di ferro per resistere alle pressioni del pronostico a favore, dell'attenzione mediatica, dell'atmosfera del villaggio olimpico. Demandando gli aspetti tattici al suo preparatissimo staff, Velasco si concentra sull'aspetto psicologico e sviluppa suo malgrado un'aura da guru, esaltato dagli occhialini da strizzacervelli dei film di Woody Allen, che teorizza la supremazia degli “occhi della tigre” sugli “occhi della mucca”. Uno psicanalista di quelli che dicono che ogni tanto ci vuole anche qualche schiaffone ben assestato, per esempio la finale dell'Europeo 1991 che perdiamo brutalmente contro l'URSS di Fomin e Krasilnikov, dopo sei vittorie su sei: è l'ultimo rantolo del gigante sovietico prossimo alla dissoluzione (a Barcellona si chiamerà CSI e farà semplice atto di presenza, finendo addirittura settimo). Ma in compenso abbiamo ribattuto Cuba a Milano, nella

, 3-0, in un epilogo non privo di spigoli anche per i “bravi ragazzi”: a un certo punto Zorzi, esasperato dalle provocazioni sotto rete di Beltran, ha fatto invasione per andargli incontro a brutto muso, prima della repentina marcia indietro al cospetto degli altri bestioni cubani (riceverà una lettera privata di rimprovero dal presidente Acosta).

 

https://www.youtube.com/watch?v=beoPlNSmTCA

 

Corriamo verso Barcellona in equilibrio su una lama sottile. Tutto il mondo ci tira per la giacchetta e noi per primi ci paragoniamo al Dream Team, quello vero, quello del basket americano che alle Olimpiadi si presenterà con le stelle NBA. Velasco tenta di abbassare il volume: «Semmai siamo il Dreaming Team, la squadra che sogna». Immalinconitosi a Milano, Zorzi non è più l'uomo copertina: la nuova stella è Andrea Giani, che ha trascinato Parma alla doppietta campionato-coppa Italia e non avrebbe sfigurato nemmeno in un'Olimpiade antica: «Tra il tendine inserito nell'ulna e la rotula ha una cavità che assomiglia a una coppa di champagne», declama lirico Corrado Sannucci

, «nessun altro atleta ce l'ha». Arriva in nostro soccorso Sports Illustrated che ci proclama “solo” di bronzo dietro Cuba e CSI.

 

L'Olanda quella no, non se la fila nessuno. Eppure a Barcellona un Dream Team c'è già, ed è quello di Johan Cruiff che ha appena vinto la prima Coppa dei Campioni battendo in finale la Sampdoria, un'altra squadra italiana bella e simpatica, di bravi ragazzi e tecnico straniero. Cattivo presagio? L'Olimpiade fila liscia per tutta la prima fase, dominata nonostante qualche calo di tensione in fase difensiva, giustificabile con l'immensa superiorità. Una sconfitta contro gli USA, irrilevante perché siamo già primi, fa ribollire Velasco: «Dobbiamo essere come l'acqua sul fuoco, che si scalda ma diventa vapore solo a 100 gradi». E ai quarti ci tocca l'Olanda, che agli Europei dell'anno prima abbiamo battuto 3-0, lasciandole meno della metà dei nostri punti (45 a 22).

 

Si gioca alle 10,30 del mattino. Gli olandesi sono allenati da Arie Selinger, un israeliano arrogantello proprio come Cruijff che cammina con le scarpe rialzate di cinque centimetri per sembrare più alto e ha convocato in nazionale anche suo figlio (proprio come Cruijff, diranno i detrattori). Sono una squadra di giganti, dalla statura media di 2,04 persino superiore a quella dell'Original Dream Team. Pochi fenomeni, ma buoni: il palleggiatore Blangè (2 metri e 05!) e il martello Zwerver, futuro schiacciatore della Sisley, il van Basten del volley.

 

Siamo “farraginosi” e non lo diciamo noi, bensì capitan Lucchetta, occhio clinico e lessico forbito. Non ci capiamo niente per un set e mezzo, poi la svolta: Blangè si torce la caviglia sinistra ed è costretto a uscire per Selinger junior, molto meno talentuoso. I pianeti si riallineano e i palloni tornano a bussare per terra con martellante regolarità, l'Olanda si sfilaccia e in men che non si dica siamo sopra 2 set a 1. Ma ecco che la sicurezza ridiventa sicumera e l'arte oratoria di Velasco non può nulla contro i piccoli crolli di ogni certezza individuale. Perdiamo il quarto set in maniera indecorosa, attendendo invano che i pescioloni olandesi abbocchino all'amo, con un 15-2 che non subivamo da un'amichevole del 1989 (poi vinta) proprio contro l'Olanda.

 

Il quinto set di Barcellona farà visita ai nostri eroi per tutta la vita, a volte anche con funzione didattica, più spesso semplicemente come un incubo. Un luogo comune dello sport di ogni latitudine è che la vittoria e la sconfitta sono questione di centimetri, ma quei dieci minuti di tie-break lo affermano in modo brutale. Velasco fa cambi coraggiosi, toglie Tofoli e mette Vullo, toglie Giani e mette Cantagalli. Regaliamo punti facili, sbagliamo battute ma ci diamo un gran daffare per ricucire gli strappi fino al 12-12 quando Zorzi, progressivamente in tilt, viene sostituito da Pasinato. Cantagalli annulla tre match point, imitato dall'altra parte da van der Meulen.

 

Così si approda a un obbrobrio normativo che non ha precedenti e non ne avrà più: il regolamento prevede che al tie-break non si vada oltre il 17° punto, quindi sul 16 pari è match point per entrambe le squadre. Sono le 13 passate, la tensione è indicibile. L'Italia ha l'onere della battuta. Vullo serve in sicurezza, Zwerver riceve bene, Selinger alza così così, la schiacciata di van der Meulen è una carezzina che risente della pressione del momento. Due centimetri più in basso e sarebbe nastro, e in semifinale ci andremmo noi. Ma la palla passa, poi trova le dita di Cantagalli («Quell'ultima palla la ricorderò finché campo»), e poi tocca terra fuori. È finita. È una delle sconfitte più brucianti della storia dello sport italiano.

 

https://www.youtube.com/watch?v=dCasxRqJaVY

(L'abominio del 17-16 al tie-break verrà abolito proprio dopo le Olimpiadi di Barcellona, quando sarà deciso che tutti i set devono chiudersi sempre con un doppio vantaggio).


 

, ambientato proprio nel 1992, l'onorevole Sbardella elogiava l'aplomb di Giulio Andreotti nel momento della mancata elezione a Presidente della Repubblica: «Guarda e impara come si sta al mondo». Allo stesso modo i ragazzi di Velasco sfoderano un autocontrollo e una lucidità ammirevoli nel piccolo mondo isterico dello sport italiano, prendendosi forse più colpe di quanto dovrebbero. È uno dei segreti della loro differenza, e del loro successo. «Abbiamo fallito insieme, ci sono salti di qualità che non si possono prevedere prima. Due anni fa eravamo gli squali che attaccavano la preda quando sentivano il sangue, oggi alla vista del sangue siamo andati a prendere lo straccio per pulire in terra». Velasco non perde il gusto della metafora e saluta la conferenza con un'altra massima che diventerà proverbiale: «Chi vince festeggia, chi perde spiega».

 



Il bagno di folla ricevuto a settembre a Genova, dove abbiamo incamerato l'ennesima World League, lascia Velasco dubbioso ancora per qualche mese. Il contratto scade a maggio, il ciclo sembra finito e non sembrano esserci margini per ripartire, chiede programmazione, serietà, vedute larghissime, maggiori certezze economiche da una Federazione che non ha ancora versato ai giocatori i premi delle tre World League vinte. Riceve un'offerta miliardaria per allenare il Giappone e proposte mediatiche varie e variopinte, da ct dell'Italbasket in disgrazia a Ministro dello Sport di un'Italia caduta nel fango di Tangentopoli. Respinge tutto e alla fine rinnova per altri quattro anni a 600 milioni all'anno, con la consapevolezza, adesso, di dover vincere tutto.

 

L'ossessione è sempre lì, solo spostata più avanti. Atlanta 1996 è lontanissima ma Velasco inizia incredibilmente a lavorarci da subito e il quadriennio vive una partenza choc: a metà febbraio il ct annuncia i convocati per World League ed Europei e depenna ufficialmente dalla Nazionale Vullo e soprattutto capitan Lucchetta, dieci anni, 320 presenze: un'esclusione non tecnica ma di stampo aziendale, da manager che ripudia la linea dei “dodici titolari” che ha fallito a Barcellona per tornare a una divisione più netta tra titolari e riserve. Al suo posto Pasquale Gravina, 23 anni, uno dei tanti giovani di talento che stanno crescendo all'ombra dei campionissimi.

 

Nei decenni successivi Lucchetta scriverà pagine bellissime sulla vertigine della vittoria e sul senso di vuoto che ti prende subito dopo aver raggiunto la vetta, parlerà del titolo mondiale di Rio come un paradossale momento di grande depressione («È come se fossi morto»); ma nel 1993 sta disputando una delle migliori stagioni in carriera a Milano, dove gioca in un Palatrussardi da 9mila posti sempre pieno. Quando apprende la notizia reagisce da par suo. In quei mesi conduce una trasmissione su Radio 105, “Go Lucky Go” e quel giorno

la decisione di Velasco: «Cos'ha fatto Gravina più di me per essere convocato? Magari tra quattro anni fa il pescatore... basta pensare ad Atlanta, c'è un titolo mondiale da difendere!». Poi lancia un disco: dalle prime note si capisce che è “Vaffanculo” di Marco Masini. Al rientro in diretta commenta: «Se avevo ancora una sola possibilità, me la sono giocata».

 

Insomma, anche i bravi ragazzi hanno il sangue che scorre nelle vene. Privi anche di Bernardi, che si è preso un anno sabbatico dalla Nazionale, gli azzurri per una volta non vincono la World League arrendendosi in versione ultra-rimaneggiata al Brasile campione olimpico. Ma agli Europei in Finlandia torniamo a indossare la faccia feroce e banalmente non ce n'è per nessuno: sette vittorie su sette, due delle qua

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