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Quando eravamo re
09 ago 2019
09 ago 2019
Storia della più grande squadra di pallavolo mai esistita.
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L'atmosfera è collosa viscosa appiccicosa. Certo non è il Maracanazinho con le sue finestre senza vetri per non arrivare alla temperatura di un forno a legna, ma sull'Omni Coliseum di Atlanta oscilla l'atmosfera pesante dell'appuntamento – peggio, del duello finale con la Storia. Siamo al coperto ma dal soffitto pendono ideali nuvoloni gravidi di afa e umidità. Tre mesi dopo ci suoneranno gli Smashing Pumpkins e ora a questo punto noi potremmo immaginarci gli sguardi in slowmotion di Giani Papi Bernardi Gardini sul 14-14 del quinto set della finale olimpica Italia-Olanda, mentre aspettano la battuta di Paolo Tofoli e in sottofondo scorre Tonight tonight con quelle parole così cariche di destino e ineluttabilità: our lives are forever changed, we will never be the same... Ma nel brodo di una finale olimpica di pallavolo le cose scorrono molto più velocemente e nelle orecchie ci rimbomba piuttosto l'ossessivo tappeto di sottofondo di Born Slippy degli Underworld, perché in fondo di un'ossessione stiamo parlando, mentre Tofoli batte in sicurezza, gli olandesi eseguono l'unico schema che gli rimane da fare, da Blangè a van der Goor, ma il muro regge!, contrattacco, Gardini va da Giani, palla a terra, 15-14. Un punto solo, un punto ancora.

Che Julio Velasco sia stato un gigante dello sport, e lo sia tuttora, è un'immensa banalità. Nessuno in Italia ne ha eguagliato le imprese da commissario tecnico: prendere una Nazionale di rilevanza periferica, seppur dall'ottimo potenziale, e in meno di dieci anni farla diventare la più grande squadra della storia di quello sport. Ma a quale costo, per se stesso e per le persone che ha allenato? L'Italia del volley anni Novanta è stata una squadra strana, clamorosamente atipica, sempre compatta come un pugno nonostante le tremende sollecitazioni dall'esterno, i soldi, la gloria, le copertine, la pubblicità, senza un debordante fuoriclasse alla Despaigne a trascinare gli altri, ma tutti insieme a scambiarsi le parti, in un vorticoso e virtuoso balletto di alternanze e di responsabilità, come fosse il valzer dei cambi di un quinto set. E poi una squadra colta, tendente all'intellettuale («ma come parlano bene i pallavolisti!»), persino vanitosa nel suo porsi come validissima alternativa al Dio Calcio, senza tensioni, senza ultrà, senza violenza, senza “ignoranza”. Una squadra senza divinità o elementi soprannaturali, insomma una squadra di uomini, e come tali fallibili. Che storia è stata.

«La riprende Bernardi, e poi c'è Tofoli, arriva Zorzi... e siamo campioni d'Europa! Non era mai successo! È meraviglioso!»

1989. Non tutti sanno che Gianni Mura, prima di diventare un formidabile commentatore di calcio e ciclismo, ha avuto intense passioni giovanili come l'atletica e la pallavolo. La pallavolo sfigata diremmo oggi, quella quando «si andava in Bulgaria, vent'anni fa, e si poteva perdere anche col Belgio, si finiva a Yambol (posto terrificante) a giocare con la Mongolia e il Venezuela per conquistare un quindicesimo posto che non importava nulla a nessuno. Allora, perdere 3-0 con le squadre dell'est era normale, già bravi a tenerli in campo più di un'ora».

Negli anni Ottanta l'Italia si è arrampicata fino a un bronzo olimpico arrivato grazie al boicottaggio dell'Est Europa, ma a Seul 1988 siamo tornati alla rassicurante mediocrità di un nono posto. È un mondo di alibi, di auto-commiserazione e di responsabilità scaricate sulle spalle dei campioni stranieri, più pagati ed evidentemente più forti. Ma è anche un mondo di giovani talentuosi, che hanno già iniziato ad assaggiare il pane duro delle costanti umiliazioni internazionali: a Seul c'erano già Bernardi, Bracci, Cantagalli, De Giorgi, Gardini, Giani, Lucchetta, Zorzi, mortificati 3-0 da Brasile e Bulgaria e 3-1 dalla solita URSS. «Partivo per la Nazionale e tutti mi dicevano: 'Cosa ci vai a fare? Tanto perdete sempre», ricorderà Lucchetta.

Questa generazione ha già battuto un colpo nel 1985 quando, guidata dal polacco Alexander Skiba, al Palalido di Milano è arrivata seconda ai Mondiali Under-21, battuta solo dagli immancabili sovietici. Skiba è un ex campione olimpico (1976) e mondiale (1974) che nasconde sotto il barbone vagamente minaccioso grandi capacità gestionali e organizzative e coordina il progetto federale che un bel giorno di primavera del 1989, dopo la cocente delusione sudcoreana, in concerto con il presidente federale Manlio Fidenzio decide di affidare la Nazionale al giovane tecnico argentino che a Modena ha vinto tre scudetti di fila e a maggio vincerà anche il quarto contro gli arcinemici di Parma, più una finale di Coppa Campioni persa contro il CSKA Mosca. Per abbandonare la mentalità che affida ogni pallone e ogni speranza ai campioni stranieri, cosa c'è di meglio di un ct straniero?

La sindrome della linea gialla

«L’attaccante schiaccia fuori perché non gli hanno alzato bene la palla, ma la palla non è stata alzata bene perché chi ha ricevuto non l'ha fatto nel migliore dei modi. Quest’ultimo, poverino, non può a sua volta scaricare la colpa sull’avversario, dicendo: batti più facile! E allora dà la colpa alla luce. Quindi, se schiaccio fuori, è colpa dell’elettricista!».

Julio Velasco è stato informato del nuovo incarico da un giovane giornalista modenese, Lorenzo Dallari, che a sua volta ha ricevuto la notizia da Carlone Gobbi, prima firma pallavolistica della Gazzetta dello Sport. Lo schema del telefono senza fili rende abbastanza l'idea della lieve approssimazione che vige in cima alla Federvolley. Ma Velasco è sintonizzato sulle stesse frequenze di tutti i critici del settore e lo dimostra con il suo primo discorso alla squadra – un discorso che, come tutte le prime volte storiche, confina con la leggenda. «Voi italiani siete i migliori del mondo per ciò che riguarda mangiare, bere e vivere bene. O almeno credete di esserlo. Ma tra queste righe gialle qui, quelle che racchiudono i 18 metri del campo, le beccate sempre dai sovietici, dai bulgari, dai polacchi, dalla Germania Est. Il vostro primo nemico siete voi. Da adesso si gioca per vincere».

Velasco ha compiuto 37 anni da poche settimane ma ha già il carisma e la parlantina dell'uomo che ne ha viste tante. Ha fatto mille lavori, compreso l'agente immobiliare: «Vendevo case, io che odio vendere cose». È un incrocio vivente di razze, stili e convinzioni, la prova vivente del famoso detto: «Gli argentini sono italiani che parlano spagnolo, pensano in francese e vorrebbero essere inglesi». Sua madre Edith è di mamma italiana e papà inglese; suo padre Raul, metà spagnolo e metà indio peruviano, è morto quando lui aveva otto anni per una pancreatite curata male.

Il curriculum dice che ha già vinto in due continenti diversi, affermandosi di soppiatto ai Mondiali di Argentina 1982 come assistente e portavoce del ct coreano Young Wan Sohn: pare che, al momento di riportarne le indicazioni alla squadra, il giovane Julio si prendesse molte libertà. È arrivato un bronzo clamoroso che ha dato giustizia alla scelta radicale del Velasco diciottenne, mollare La Plata per andare a giocarsi tutto a Buenos Aires in piena dittatura militare, quando a uno studente di filosofia con idee maoiste come lui non era consigliabile farsi scattare una foto o abitare troppo a lungo allo stesso indirizzo. Per un mese anche suo fratello Raul ha ingrossato le fila dei desaparecidos, prima della sospirata liberazione: «Lo presero a casa mia madre e ancora oggi ho il dubbio che cercassero me».

In un Paese futbol-centrico che ha occhi solo per Kempes e Maradona, Velasco divora tutta la pallavolo di cui è capace, nella pratica e nella teoria, e dopo l'exploit del 1982 riceve una chiamata dall'Italia. All'altro capo del telefono c'è Beppe Cormio, direttore sportivo del Latte Tre Valli Jesi, squadra di seconda divisione con in rosa un paio di nazionali argentini, Wagenpfeil e Kantor, che potrebbero convincerlo ad accettare. Velasco si stabilisce a 9 chilometri da Jesi nel buen retiro di Pianello Vallesina, dove passa due anni totalmente immerso nella cultura e nelle abitudini della profonda provincia italiana. E nell'estate 1984, nell'incerto tv-color a sua disposizione, guarda e sogna le Olimpiadi di Los Angeles, dove l'Italia di Silvano Prandi si tinge di bronzo e i suoi argentini sono solo sesti.

A Modena scopre la pressione di dover lottare sempre per la cima e la cosa non gli dispiace affatto. Plasma il gruppo giovane ed entusiasta dei Vullo, Cantagalli, Lucchetta, opposti alla Maxicono Parma di Gardini, Zorzi e Andrea Giani. In una camminata sul lungolago di Arona, nel ritiro estivo, convince il diciottenne Lorenzo Bernardi ad abbandonare le velleità da palleggiatore e trasformarsi in schiacciatore. Vince sempre e cavalca l'onda del volley che si sta facendo fenomeno di costume, e quando lo ritroviamo in Nazionale entra subito in scivolata con una decisione che fa discutere, ai danni proprio di un modenese: se l'addio di “mano di pietra” Franco Bertoli era stato già annunciato, fa scalpore non ritrovare Fabio Vullo nei convocati per gli Europei 1989. I due palleggiatori sono Ferdinando De Giorgi, che gioca a Montichiari, e il giovane Paolo Tofoli, alzatore senza pedigree del Petrarca Padova finito sesto in campionato.

«Quella del 1989 fu un'estate durissima» - ricorderanno molti giocatori nel 2007 alla Gazzetta dello Sport - «ci portò in posti assurdi, ai confini del mondo, trasferte incredibili: si mangiava male, ma non ci si doveva lamentare. Voleva un gruppo di persone che sapessero combattere e anche per questo aveva deciso di non portare i migliori dodici: voleva quelli disposti a sacrificarsi». La pallavolo italiana è malata di pessimismo cronico e all'inizio scrolla le spalle anche davanti all'elettroshock filosofico e metodologico di Velasco che ama il dibattito, il conflitto, la lite se vogliamo, lava i panni sporchi in pubblico, obbliga i suoi ragazzi a uno stress emotivo che per forza, prima o poi, li farà crescere.

Come si traduce questa filosofia in schemi, muri, schiacciate, punti, vittorie? Con una rivoluzione sacchiana esaltata dalla tecnologia, una novità assoluta nello sport italiano dell'epoca. Introduce lunghe sessioni al videoregistratore dove mostra allo sfinimento difetti e movimenti sbagliati, pretende schede e resoconti su ogni suo giocatore, si affida al computer anche durante la partita per decidere cambi e rotazioni. Il suo vice Angiolino Frigoni, seduto accanto a lui, è collegato via auricolare con altri due tecnici che si occupano dei rilevamenti statistici, Paolini e Giardinieri. «Basta con le squadre che si allenano con l'idea di lenti e progressivi miglioramenti: noi giochiamo per vincere».

Nessuno crede che l'Italia possa andare molto lontano agli Europei di settembre, in Svezia. Carlo Lisi, l'addetto stampa della Nazionale, è partito con in tasca un biglietto di ritorno per il 29 settembre, il giorno dopo l'ultima partita di girone. Invece sfatiamo subito il tabù orientale, battendo 3-1 la Bulgaria all'esordio, usciamo dal bozzolo, perdiamo solo un match irrilevante contro la Francia, nella seconda fase spieghiamo le ali e dominiamo l'Olanda (3-0) in semifinale. Dall'altra parte del tabellone la Svezia ha clamorosamente eliminato al tie-break i sovietici, levandoci l'angoscia della bestia nera.

La finale è una marcia trionfale: di noi si è accorta anche la RAI, che la segue in diretta con il commento di un ragazzo fiorentino di 32 anni la cui voce allegra ed entusiasta sembra tagliata apposta per cantare le gesta di questi ragazzi. Batte Masciarelli, difende Bernardi, alza Tofoli, schiaccia Zorzi, e Jacopo Volpi può finalmente urlare a pieno diritto che siamo campioni d'Europa. La stampa ospita per la prima volta considerazioni tattiche sulla pallavolo, spesso scritte con prudenza da palombaro da giornalisti di calcio. Il 30 dicembre, su Repubblica, Gianni Mura elegge Velasco sportivo dell'anno e gli dà un bel 9: «Non ricordo un così radicale salto in avanti di una squadra nazionale».

«Lucchetta... Paolo... Bernardi... Bernardiiiii! Campioni del mondo! Sul tetto del mondooooo!»

1990. «Io come ct della Nazionale convocherò solo i titolari, perché i talenti che stanno in panchina non m'interessano. Sono contro il paradosso di giocatori che per soldi preferiscono fare la riserva a Milano invece che il titolare altrove».

Nell'estate del 1989 la pallavolo italiana è stata travolta da improvviso benessere, in coincidenza con lo sbarco di nomi pesantissimi: la Sisley Treviso della famiglia Benetton, la Messaggero Ravenna del gruppo Ferruzzi-Gardini che compra l'americano Karch Kiraly, il giocatore più forte del mondo; la Mediolanum Milano di Silvio Berlusconi. Gli ingaggi quadruplicano, i migliori sfondano il tetto del miliardo di lire. Velasco reagisce come un ct della Nazionale deve reagire. Il gruppo ormai è formato e diventa sempre più solido ogni giorno che passa, il problema semmai è l'improvvisa sovraesposizione mediatica, le ragazzine che li trattano come i Duran Duran, le prime sponsorizzazioni. La Squadra risponde con il profilo basso di chi crede davvero di non aver fatto niente.

Nell'estate in cui tutta l'Italia odia gli argentini e in particolare uno, tempestato di fischi al momento dell'inno nazionale della finale dei Mondiali, Velasco progetta la sua scalata al Brasile e al mondo. Il modello è proprio il grande Kiraly, trascinatore degli USA che hanno dominato a Seul, per Velasco «la più grande squadra della storia del volley». Gli americani hanno portato la specializzazione, sfruttano le capacità dei giocatori invece che cambiargli il ruolo. E poi che mentalità: «Kiraly sembra che ti mangi, ha le vene gonfie, non molla mai, ti urla in faccia, ti fa sentire che lui è il più forte».

Ci prepariamo al Mondiale brasiliano vincendo la prima edizione della World League, appena inventata dal presidente della Federazione Internazionale Ruben Acosta, e poi anche i Goodwill Games, una competizione simil-Olimpiadi promossa dal magnate televisivo Ted Turner per stemperare i veleni della Guerra Fredda: gli azzurri mettono tutti d'accordo battendo in semifinale gli USA e in finale l'URSS, così Bush e Gorbaciov sono sistemati. Partiamo per il Brasile con la scomoda etichetta di testa di serie numero 1, abbiamo risolto il complesso dell'Est Europa ma ne è subito spuntato uno nuovo, una Nazionale dall'esuberanza fisica debordante che rende il volley qualcosa di pericolosamente simile a uno sport individuale. Facile quando hai in squadra Joel Despaigne, “el diablo”, l'anima di Cuba.

Come da pronostico i cubani ci rullano 3-0 nell'ultima partita del girone di Brasilia in una partita tesa e piena di insulti, con cinque cartellini gialli, costringendoci a un ottavo di finale supplementare contro la Cecoslovacchia, ma ci toglie un po' di pressione. Il giorno dopo, sull'aereo che ci sta portando a Rio de Janeiro, dove giocheremo la seconda fase, Velasco prende da parte Jacopo Volpi e gli confida: «Ieri ci hanno massacrato, ma hanno dato il massimo. Non vinceranno più». Il Maracanazinho è un palestrone a poche centinaia di metri dal Maracanà del calcio: il caldo tropicale e l'inferno scatenato dai 27mila tifosi rende la situazione simile alla scena di Apocalypse Now in cui Martin Sheen arriva stremato nel villaggio del capitano Kurtz, facendo la conoscenza con migliaia di suoi sostenitori invasati. Eliminiamo di slancio Cecoslovacchia e poi anche l'Argentina e in semifinale ci tocca il Brasile. È una squadra giovane, che trae dal suo pubblico l'entusiasmo per saltare oltre l'ostacolo.

La partita è un romanzo. Nei primi 14 minuti non facciamo un punto e il Brasile scappa 8-0, esaltando la torcida. Il primo set è andato e lo cediamo 15-6, poi scende in campo l'Italia da combattimento - «quell'Italia così rara nello sport» come dice Velasco, che ama provocare e provocarci. Ci riesce: in difesa comanda Gardini, in attacco comanda Zorzi e il muro brasiliano inizia poco alla volta a sgretolarsi, il volume del Maracanazinho si abbassa e ci portiamo avanti 2 set a 1. Con grande freddezza nel quarto set Velasco fa rifiatare gran parte del sestetto titolare (Gardini, Tofoli, Bernardi, Cantagalli, Zorzi, Lucchetta), accettando di perderlo per avere tutti freschi al tie-break. È una scommessa che paga, alla fine di un quinto set memorabile in cui il pallone numero 15 lo mette a terra capitan Lucchetta con uno splendido primo tempo su suggerimento di Tofoli illeggibile per la difesa verdeoro.

Cuba, dunque. C'è molto dello sport italiano che cambia in quelle ventiquattr'ore in cui un'altra squadra potrebbe allentare la presa e cullarsi sull'alibi della battaglia appena consumata. Non questa. La sbruffoneria di Despaigne («Gli italiani li batteremmo dieci volte su dieci») e i ventimila spettatori tutti filo-cubani fungono da detonatore per una delle più straordinarie prove di resistenza mai sostenute da una nazionale italiana.

Despaigne tiene fede al suo soprannome e gioca un primo set da indiavolato, chiamando a sé tutti i palloni. Cantagalli, bersagliato dalla battuta cubana, va in tilt e Velasco lo sostituisce cinicamente con Bracci. Ancora una volta perdiamo il primo set, ancora una volta la ribaltiamo con una forza mentale spaventosa per una squadra che non ha mai vinto niente. Gardini fa scorpacciate di cambipalla (alla fine sul suo tabellino ci sarà scritto 3+28), Zorzi come Achille finalmente accetta il duello con Despaigne, lascia l'accampamento e inizia a crivellare la metà campo cubana. L'onda magica dura fino a metà quarto set, quando conduciamo 10-5 prima di provare, eccola finalmente, la paura di vincere.

Velasco se l'aspettava, ma non li ha voluti avvisare. Cuba rimonta un punto dopo l'altro, il cavallo di Troia si chiama Ricardo Vantes, un mancino che abbiamo sempre sofferto nelle amichevoli precedenti. Con lui in campo Cuba piazza una striscia di 6-0 e va a condurre, portando il quarto set verso uno stillicidio di cambipalla che dura fino al 14-14, firmato da un rinfrancato Cantagalli con un muro in faccia a Despaigne. La nostra Iliade finisce in bellezza: Lucchetta schiaccia il 15-14 e al nono match-point difende meravigliosamente ancora su Despaigne, dando il via all'azione chiusa dalla schiacciata in diagonale di Bernardi, muro, fuori.

L'istinto porta Gardini a dare la scalata al seggiolone dell'arbitro come un alpinista pazzo di gioia, come fanno gli americani. È una delle immagini-simbolo di quella squadra che finalmente può assaporare il sapore dolce del trionfo, che si concretizza in litri di caipirinha ingollati senza pensieri nella lunga notte di Rio de Janeiro, una notte che ancora oggi non ha bisogno di troppe spiegazioni («Nel 1990 improvvisamente siamo diventati imbattibili, e non abbiamo mai capito perché», Andrea Zorzi lo sostiene ancora oggi). Una notte dove solo un uomo ha la lucidità ma anche la debolezza di guardare già oltre, due anni avanti, verso la sua unica ossessione da sportivo. Quell'uomo è Julio Velasco.

«Selinger... van der Meulen... è fuori ma c'è stato il tocco... l'arbitro dice che c'è stato il tocco a muro di Cantagalli...»

1991-1992. Spontaneamente associamo la parola “ossessione” a qualcosa di malsano e negativo, che spesso fa soffrire. Fa impressione ritrovarla anche nel contesto più sano e salutare che ci sia, lo sport – o esistono forse ossessioni più sane di altre? Velasco è un uomo di sport nel senso più alto del termine ed è ossessionato dalle Olimpiadi. Quelle del 1984, come abbiamo visto, se l'è guardate in tv. Quelle del 1988 le ha viste dal vivo ma in tribuna, in qualità di tecnico campione d'Italia. Nel 1992 vuole completare la scalata al suo Olimpo personale. Un minuto dopo la fine di Italia-Cuba decide che ogni pensiero pallavolistico del biennio successivo sarà dedicato a Barcellona; ma siccome è un uomo razionale, che si esalta nel ragionamento e nella dialettica, coinvolge nel piano anche i ragazzi che grazie a lui sono appena diventati i più forti del mondo.

Punto primo: allargare la rosa. L'Olimpiade ti costringe a otto partite in due settimane con una tensione quadrupla rispetto a un Mondiale: impensabile farcela solo in sei o sette. Velasco mette da parte le vecchie ruggini e riapre le porte a Vullo, senza chiarire chi sia il titolare tra lui e Tofoli. Negli altri ruoli, agli intoccabili Cantagalli, Bernardi, Zorzi, Lucchetta e Gardini progetta di alternare giocatori di primissimo livello del nostro campionato, a cominciare da un Andrea Giani sempre più uomo-immagine del nostro volley (è del 1991 lo spot televisivo del Maxicono con “More than a feeling” dei Boston in sottofondo), Masciarelli, Bracci, Pasinato e Galli. La testa corre al Milan di Capello, uno squadrone con venti titolari metà dei quali costretti ogni volta alla panchina o alla tribuna. Nascono “Italia 1” e “Italia 2”, alternate per tutto il 1991 con l'idea di arrivare alla sintesi hegeliana nell'estate di Barcellona.

Punto secondo: diventare di ferro per resistere alle pressioni del pronostico a favore, dell'attenzione mediatica, dell'atmosfera del villaggio olimpico. Demandando gli aspetti tattici al suo preparatissimo staff, Velasco si concentra sull'aspetto psicologico e sviluppa suo malgrado un'aura da guru, esaltato dagli occhialini da strizzacervelli dei film di Woody Allen, che teorizza la supremazia degli “occhi della tigre” sugli “occhi della mucca”. Uno psicanalista di quelli che dicono che ogni tanto ci vuole anche qualche schiaffone ben assestato, per esempio la finale dell'Europeo 1991 che perdiamo brutalmente contro l'URSS di Fomin e Krasilnikov, dopo sei vittorie su sei: è l'ultimo rantolo del gigante sovietico prossimo alla dissoluzione (a Barcellona si chiamerà CSI e farà semplice atto di presenza, finendo addirittura settimo). Ma in compenso abbiamo ribattuto Cuba a Milano, nella finale di World League, 3-0, in un epilogo non privo di spigoli anche per i “bravi ragazzi”: a un certo punto Zorzi, esasperato dalle provocazioni sotto rete di Beltran, ha fatto invasione per andargli incontro a brutto muso, prima della repentina marcia indietro al cospetto degli altri bestioni cubani (riceverà una lettera privata di rimprovero dal presidente Acosta).

Corriamo verso Barcellona in equilibrio su una lama sottile. Tutto il mondo ci tira per la giacchetta e noi per primi ci paragoniamo al Dream Team, quello vero, quello del basket americano che alle Olimpiadi si presenterà con le stelle NBA. Velasco tenta di abbassare il volume: «Semmai siamo il Dreaming Team, la squadra che sogna». Immalinconitosi a Milano, Zorzi non è più l'uomo copertina: la nuova stella è Andrea Giani, che ha trascinato Parma alla doppietta campionato-coppa Italia e non avrebbe sfigurato nemmeno in un'Olimpiade antica: «Tra il tendine inserito nell'ulna e la rotula ha una cavità che assomiglia a una coppa di champagne», declama lirico Corrado Sannucci su Repubblica, «nessun altro atleta ce l'ha». Arriva in nostro soccorso Sports Illustrated che ci proclama “solo” di bronzo dietro Cuba e CSI.

L'Olanda quella no, non se la fila nessuno. Eppure a Barcellona un Dream Team c'è già, ed è quello di Johan Cruiff che ha appena vinto la prima Coppa dei Campioni battendo in finale la Sampdoria, un'altra squadra italiana bella e simpatica, di bravi ragazzi e tecnico straniero. Cattivo presagio? L'Olimpiade fila liscia per tutta la prima fase, dominata nonostante qualche calo di tensione in fase difensiva, giustificabile con l'immensa superiorità. Una sconfitta contro gli USA, irrilevante perché siamo già primi, fa ribollire Velasco: «Dobbiamo essere come l'acqua sul fuoco, che si scalda ma diventa vapore solo a 100 gradi». E ai quarti ci tocca l'Olanda, che agli Europei dell'anno prima abbiamo battuto 3-0, lasciandole meno della metà dei nostri punti (45 a 22).

Si gioca alle 10,30 del mattino. Gli olandesi sono allenati da Arie Selinger, un israeliano arrogantello proprio come Cruijff che cammina con le scarpe rialzate di cinque centimetri per sembrare più alto e ha convocato in nazionale anche suo figlio (proprio come Cruijff, diranno i detrattori). Sono una squadra di giganti, dalla statura media di 2,04 persino superiore a quella dell'Original Dream Team. Pochi fenomeni, ma buoni: il palleggiatore Blangè (2 metri e 05!) e il martello Zwerver, futuro schiacciatore della Sisley, il van Basten del volley.

Siamo “farraginosi” e non lo diciamo noi, bensì capitan Lucchetta, occhio clinico e lessico forbito. Non ci capiamo niente per un set e mezzo, poi la svolta: Blangè si torce la caviglia sinistra ed è costretto a uscire per Selinger junior, molto meno talentuoso. I pianeti si riallineano e i palloni tornano a bussare per terra con martellante regolarità, l'Olanda si sfilaccia e in men che non si dica siamo sopra 2 set a 1. Ma ecco che la sicurezza ridiventa sicumera e l'arte oratoria di Velasco non può nulla contro i piccoli crolli di ogni certezza individuale. Perdiamo il quarto set in maniera indecorosa, attendendo invano che i pescioloni olandesi abbocchino all'amo, con un 15-2 che non subivamo da un'amichevole del 1989 (poi vinta) proprio contro l'Olanda.

Il quinto set di Barcellona farà visita ai nostri eroi per tutta la vita, a volte anche con funzione didattica, più spesso semplicemente come un incubo. Un luogo comune dello sport di ogni latitudine è che la vittoria e la sconfitta sono questione di centimetri, ma quei dieci minuti di tie-break lo affermano in modo brutale. Velasco fa cambi coraggiosi, toglie Tofoli e mette Vullo, toglie Giani e mette Cantagalli. Regaliamo punti facili, sbagliamo battute ma ci diamo un gran daffare per ricucire gli strappi fino al 12-12 quando Zorzi, progressivamente in tilt, viene sostituito da Pasinato. Cantagalli annulla tre match point, imitato dall'altra parte da van der Meulen.

Così si approda a un obbrobrio normativo che non ha precedenti e non ne avrà più: il regolamento prevede che al tie-break non si vada oltre il 17° punto, quindi sul 16 pari è match point per entrambe le squadre. Sono le 13 passate, la tensione è indicibile. L'Italia ha l'onere della battuta. Vullo serve in sicurezza, Zwerver riceve bene, Selinger alza così così, la schiacciata di van der Meulen è una carezzina che risente della pressione del momento. Due centimetri più in basso e sarebbe nastro, e in semifinale ci andremmo noi. Ma la palla passa, poi trova le dita di Cantagalli («Quell'ultima palla la ricorderò finché campo»), e poi tocca terra fuori. È finita. È una delle sconfitte più brucianti della storia dello sport italiano.

(L'abominio del 17-16 al tie-break verrà abolito proprio dopo le Olimpiadi di Barcellona, quando sarà deciso che tutti i set devono chiudersi sempre con un doppio vantaggio).

Nel “Divo” di Paolo Sorrentino, ambientato proprio nel 1992, l'onorevole Sbardella elogiava l'aplomb di Giulio Andreotti nel momento della mancata elezione a Presidente della Repubblica: «Guarda e impara come si sta al mondo». Allo stesso modo i ragazzi di Velasco sfoderano un autocontrollo e una lucidità ammirevoli nel piccolo mondo isterico dello sport italiano, prendendosi forse più colpe di quanto dovrebbero. È uno dei segreti della loro differenza, e del loro successo. «Abbiamo fallito insieme, ci sono salti di qualità che non si possono prevedere prima. Due anni fa eravamo gli squali che attaccavano la preda quando sentivano il sangue, oggi alla vista del sangue siamo andati a prendere lo straccio per pulire in terra». Velasco non perde il gusto della metafora e saluta la conferenza con un'altra massima che diventerà proverbiale: «Chi vince festeggia, chi perde spiega».

1993

Il bagno di folla ricevuto a settembre a Genova, dove abbiamo incamerato l'ennesima World League, lascia Velasco dubbioso ancora per qualche mese. Il contratto scade a maggio, il ciclo sembra finito e non sembrano esserci margini per ripartire, chiede programmazione, serietà, vedute larghissime, maggiori certezze economiche da una Federazione che non ha ancora versato ai giocatori i premi delle tre World League vinte. Riceve un'offerta miliardaria per allenare il Giappone e proposte mediatiche varie e variopinte, da ct dell'Italbasket in disgrazia a Ministro dello Sport di un'Italia caduta nel fango di Tangentopoli. Respinge tutto e alla fine rinnova per altri quattro anni a 600 milioni all'anno, con la consapevolezza, adesso, di dover vincere tutto.

L'ossessione è sempre lì, solo spostata più avanti. Atlanta 1996 è lontanissima ma Velasco inizia incredibilmente a lavorarci da subito e il quadriennio vive una partenza choc: a metà febbraio il ct annuncia i convocati per World League ed Europei e depenna ufficialmente dalla Nazionale Vullo e soprattutto capitan Lucchetta, dieci anni, 320 presenze: un'esclusione non tecnica ma di stampo aziendale, da manager che ripudia la linea dei “dodici titolari” che ha fallito a Barcellona per tornare a una divisione più netta tra titolari e riserve. Al suo posto Pasquale Gravina, 23 anni, uno dei tanti giovani di talento che stanno crescendo all'ombra dei campionissimi.

Nei decenni successivi Lucchetta scriverà pagine bellissime sulla vertigine della vittoria e sul senso di vuoto che ti prende subito dopo aver raggiunto la vetta, parlerà del titolo mondiale di Rio come un paradossale momento di grande depressione («È come se fossi morto»); ma nel 1993 sta disputando una delle migliori stagioni in carriera a Milano, dove gioca in un Palatrussardi da 9mila posti sempre pieno. Quando apprende la notizia reagisce da par suo. In quei mesi conduce una trasmissione su Radio 105, “Go Lucky Go” e quel giorno commenta brevemente la decisione di Velasco: «Cos'ha fatto Gravina più di me per essere convocato? Magari tra quattro anni fa il pescatore... basta pensare ad Atlanta, c'è un titolo mondiale da difendere!». Poi lancia un disco: dalle prime note si capisce che è “Vaffanculo” di Marco Masini. Al rientro in diretta commenta: «Se avevo ancora una sola possibilità, me la sono giocata».

Insomma, anche i bravi ragazzi hanno il sangue che scorre nelle vene. Privi anche di Bernardi, che si è preso un anno sabbatico dalla Nazionale, gli azzurri per una volta non vincono la World League arrendendosi in versione ultra-rimaneggiata al Brasile campione olimpico. Ma agli Europei in Finlandia torniamo a indossare la faccia feroce e banalmente non ce n'è per nessuno: sette vittorie su sette, due delle quali contro l'Olanda, la seconda al tie-break nella finale di Turku. L'atteggiamento verso gli avversari è al limite del bullismo: in semifinale battiamo la Germania con i primi cinque punti che sono cinque muri di cinque giocatori diversi. Ma Velasco ci ha azzeccato ancora quando ha detto che la finale è “la partita dell'inconscio”, quella in cui bisogna combattere i fantasmi di Barcellona.

Il copione è da batticuore: i primi due set sono uno show, ma poi l'Olanda torna sotto e il nuovo ct olandese Joop Alberda pesca dalla panchina il jolly Rodenburg, sconosciuto 26enne in pratica all'esordio in Nazionale dopo un gravissimo infortunio alla tibia. La partita gira, l'Olanda vince terzo e quarto set e rimanda il verdetto al quinto. Ritroviamo smalto e spirito, ci esaltiamo in difesa con i recuperi del giovane Pippi, muriamo con Tofoli e Gardini e schiacciamo con Bracci e Pasinato. 15-9, campioni d'Europa! E se non sentirete la voce di Jacopo Volpi, è perché i diritti li ha presi Italia 1...

«Cantagalli... e siamo campioni del mondo! Siamo ancora una volta campioni del mondo, siamo campioni del mondo, e questa è una generazione di fenomeni, una vera generazione di fenomeni, allenata da un grandissimo allenatore».

1994. La navigazione è serena, la turbolenza è alle spalle. L'Italia 1994 è semplicemente ingiocabile. Vince la quarta World League a Milano dando 3-0 in semifinale alla Bulgaria e 3-0 in finale a Cuba. La Squadra gioca nella granitica convinzione che la prima picconata a Barcellona bisogna darla adesso, rivincendo il Mondiale come solo una Nazionale è riuscita a fare nella storia dello sport italiano: l'Italia del calcio 1934 e 1938, allenata da Vittorio Pozzo. Velasco si tiene alla larga da tentazioni politiche e fa piuttosto i conti con il clima ostile della Federazione Internazionale, risentita con il nostro Paese anche per aver pasticciato con l'organizzazione del Mondiale femminile, prima assegnato all'Italia e poi dirottato in Brasile per inadempienze. Ma in Grecia giochiamo il Mondiale più bello, su livelli altissimi dal primo all'ultimo punto a eccezione di un'inopinata sconfitta nel girone contro il Giappone alla quale fa seguito una sfuriata omerica di Velasco.

Gli equilibri di squadra si rimescolano di continuo: Giani è a mezzo servizio per problemi a una spalla, ma Bernardi vive le due settimane più esaltanti della sua vita e brilla la giovane stella di Samuele Papi, schiacciatore “normale” (è alto solo un metro e 88...) che impressiona per reattività. Il Brasile saluta ai quarti, beffato da Cuba al tie-break, mentre in compenso noi filiamo come un espresso: 3-1 alla Russia ai quarti, 3-1 a Cuba in semifinale. In finale la solita Olanda: ma se nel 1992 Barcellona era filo-oranje, nel 1994 Atene è stata fatale agli olandesi del calcio (il Barcellona di Cruijff è stato umiliato dal Milan nella finale di Champions League). In tv c'è una strana situazione: su Rai3 c'è la finale, su Rai2 una sonnacchiosa e scontata Estonia-Italia di calcio, qualificazioni europee. È la sera dello storico sorpasso Auditel della pallavolo sul pallone, nobilitato da una partita giocata dai nostri a livelli stellari davanti a duemila italiani arrivati in aereo e in nave, qualcuno anche in macchina, che lottano contro l'ostilità e l'aggressività dei tifosi greci, che dal secondo anello li bersagliano lanciando monete e dadi metallici.

Momenti sublimi, come il parziale di 10-0 con cui chiudiamo il primo set rimontando da 5-10. Dopo una piccola sbandata che ci costa il secondo set inizia una sinfonia che si chiude in gloria, con la marcia trionfale del quarto set dominato 15-1. Se esiste un dio è giusto che il set point del terzo e il match point li metta a terra Luca Cantagalli, l'uomo del muro-fuori sul 17-16 di van der Meulen. Luca "Bazooka" spara un ace definitivo per il secondo trionfo iridato di fila, mentre Lollo Bernardi mai così fuori controllo scala il seggiolone e Jacopo Volpi entra nella storia con la citazione, chissà se preparata, della “generazione di fenomeni”, pezzo del 1991 degli Stadio che da quel momento in avanti diventa sinonimo della più bella pallavolo della nostra vita. «Potevamo distruggere tutto dopo Barcellona, vero? Invece siamo ancora qui. Abbiamo vinto questo Mondiale perché abbiamo perso a Barcellona, perché abbiamo saputo perdere, perché non ci siamo aggrappati allo scoglio delle recriminazioni».

«Palla attaccata per Pasinato... e siamo ancora campioni d'Europa! Abbiamo sofferto, tre ore di gioco precise, ma siamo ancora campioni d'Europa!» (Jacopo Volpi)

1995. Tutte le domeniche in seconda serata, su Rai3, va in onda “Il laureato”. Condotto da Piero Chiambretti e Paolo Rossi, è un programma itinerante nelle università italiane in cui personaggi dello spettacolo e della cultura tengono una propria “lezione” agli studenti. La sera del 22 gennaio, davanti alla platea di Bologna, compare Julio Velasco. Scherza col conduttore («È vero che lei ha rifiutato un assegno in bianco per allenare Ravenna? È l'unico italiano che non ha preso soldi da Sama...»), racconta brevemente la sua storia e poi da solo tiene in pugno un migliaio di ragazzi con un monologo sulla vittoria e la sconfitta in cui, naturalmente, non manca un riferimento alla sua ossessione: la sconfitta di Barcellona e l'occasione di Atlanta. «Il mondo non si divide tra vincenti e perdenti, ma tra brave e cattive persone: tra le brave persone ci sono anche dei perdenti, tra le cattive persone ci sono anche dei vincenti».

Il Velasco guru che buca il video non piace a tutti. Certamente non piace ai colleghi degli altri sport, a cominciare dall'"antipatico" Arrigo Sacchi, e forse non piace neanche a qualche suo giocatore. Lui d'altro canto ascolta tutti ma continua regolarmente a rispondere picche almeno fino all'estate del 1996. Gli arriveranno parecchie telefonate, da ambo gli schieramenti: per un Walter Veltroni che gli offrirà una poltrona nel Governo dopo la vittoria dell'Ulivo, ci sarà un Berlusconi che farà un sondaggio per averlo come dirigente, o perché no allenatore del Milan. Lui rimane fedele alla sua tabella di marcia che anche per il 1995 dice World League - ovviamente vinta, al Maracanazinho, battendo il Brasile in finale con una squadra giovanissima, con i Bovolenta, i Meoni, i Rosalba... - ed Europei, ancora in Grecia, nello stesso palazzetto dell'anno prima.

Saltiamo i preliminari e arriviamo direttamente alla finale che ovviamente è ancora Italia-Olanda. Il ct Alberda ha sviluppato un acutissimo complesso d'inferiorità verso di noi, tanto che qualcuno lo vede camminare per il corridoio dell'hotel sveglio e terrorizzato la notte prima della partita. Velasco, invece, dormirà benissimo. Ma la finale è per nulla banale. Entrambe le squadre sono in formazione tipo: Tofoli in regia, Giani opposto, Bernardi e Papi schiacciatori-ricevitori, Gardini e Gravina al centro. Di là le diagonali Blangè-van der Meulen, Gortzen-Zwerver, van der Goor-Held. Gli olandesi sono in versione deluxe, non hanno perso un set in tutto l'Europeo, vanno avanti prima 1-0 e poi 2-1, ma la Nazionale risponde colpo su colpo, con Velasco direttore d'orchestra che non sbaglia un cambio e conosce bene la filosofia del camaleonte. Cantagalli è l'uomo del secondo set, Giani del quarto, nel tie-break voliamo sopra 7-1 con un grande muro Giani-Bernardi-Gravina, prima di lasciar riavvicinare l'Olanda a 7-5 e ingaggiare una lotta punto a punto in cui un grande Bernardi, sottotono per tutto l'Europeo, tocca finalmente i livelli del 1994 e si occupa personalmente di mettere a terra i palloni numero 12, 13 e 14. Il punto esclamativo finale è di Miki Pasinato, l'uomo-simbolo di un'Italia ricchissima di seconde linee, di alternative, di soluzioni. Come faremo a non vincere ad Atlanta?

È la domanda, terribile, che aleggia in sala stampa già nei minuti successivi. È Velasco che ci ha portati tutti lì, a pensare solo alle Olimpiadi anche con la giacca ancora fresca di champagne, e ora sta a lui rispondere. Lo fa con un'altra frase celebre, vagamente premonitrice, tra le più ispirate della sua gestione: «Da noi in Argentina c’è un detto: nessuno ci toglierà i balli che abbiamo ballato. E anche se ad Atlanta perdessimo tutti i set 15-0 non cambierebbe un’oncia della stima che ho per questi ragazzi. Nessuno ci leverà quello che abbiamo vinto. Nessuno ci leverà quello che abbiamo ballato».

1996

L'ultimo miglio della carriera da ct azzurro di Velasco è tempestato di braccia tese, persone che vogliono toccarlo, stringergli la mano, abbeverarsi alla sua fonte. Il carro è affollatissimo. L'Italia va in Giappone a giocare la World Cup (e la vince) e Velasco fa il filosofo persino coi giapponesi: «Non siete capaci di improvvisare. Sapete come farei le convocazioni se fossi in voi? Lascerei i giocatori in giro nella confusione di Napoli: chi ne esce fuori è titolare». È un simbolo di pulizia, di onestà intellettuale, di intelligenza e di buona filosofia aziendale, citato persino dagli intellettuali alla Baricco. Inconsciamente sente il bisogno di fare dei bilanci, «ma mi fa impressione chi dice che in dieci anni non è cambiato. E che cosa sei, un mattone? Restare immutato non è un valore, è solo paura di perdere la propria identità. Io mi lascio cambiare. Non sono né Marx né Gandhi. Posso dire che si vince attaccando veloce e dopo una settimana attaccare alto. Rivendico la libertà di contraddirmi».

La World League del 1996 l'Italia non la vince. La perde in finale, contro l'Olanda, 22-20 al tie-break, ultimo punto di van der Meulen come a Barcellona, interrompendo una serie di otto vittorie consecutive azzurre. Meglio così, pensano un po' tutti, per scaramanzia e per convinzione: sappiamo già dove lavorare e dove migliorare. Poi a luglio la temperatura inizia a salire, i muscoli a vibrare, mani e piedi non stanno più fermi ed è arrivato il momento di isolarsi, di ignorare il caos dei Giochi di Atlanta e “mettere la testa nello scatolone” come dice Velasco. Ce la faremo? Nella prima fase ritroviamo gli amici olandesi, in compagnia di Jugoslavia, Russia, Corea del Sud e del materasso Tunisia. I nostri dodici sono annunciati da tempo: Gardini, Giani, Tofoli, Bernardi, Zorzi, Cantagalli, Bracci e i più giovani Meoni, Bovolenta, Papi, Gravina e la new entry Sartoretti con le sue poderose battute al salto. Il più malconcio è Zorzi, con un guaio al polpaccio destro, gli occhialini e la testa che ogni tanto vaga altrove, immersa in questo nuovo straordinario passatempo che viene dall'America – Internet, si chiama.

Andiamo in crescendo: vinciamo senza incantare contro Corea e Tunisia e rifiliamo un bel 3-0 all'Olanda, punteggio che non usciva da anni. Contro la Russia un altro 3-0 ma la macchia dell'infortunio al setto nasale a Bovolenta, vittima di un'involontaria gomitata sotto rete ricevuta da Bracci. Arriva il quinto 3-0 su cinque con la Jugoslavia e “il riscaldamento è finito”, per un'Italia che acquista emozioni positive vedendo la cascata di medaglie che piovono su tutte le discipline, la scherma, il ciclismo, il tiro al piattello in un'edizione quasi-record, da 35 medaglie in tutto. Velasco è tutto un predicare calma e indicarsi le tempie, forse esagera quando scomoda i Grandissimi per gettare acqua sul fuoco degli infortunati: «Le Olimpiadi sono ricordate per le storie umane che raccontano. Mi ricordo ancora quando Al Oerter si tolse la panciera per fare il lancio della medaglia d'oro, rischiava l'ernia, Jury Chechi ha vinto con uno strappo alla gamba. Zorzi e Bovolenta saranno così».

Ai quarti, c'è l'Argentina allenata da Daniel Castellani, ex giocatore di Velasco ai tempi di Jesi dieci anni prima, che ha clamorosamente fatto fuori gli americani ai gironi a casa loro. È il solito derby di ct “Giulio” che ringrazia gli organizzatori per non suonare gli inni a inizio partita, gli verrebbe un groppo in gola. A sorpresa perdiamo il primo set del torneo, c'è un po' di nervosismo, siamo senza Giani e con la lista degli acciaccati che ora comprende anche Cantagalli, ma ehi, calma: rimontiamo e vinciamo facile, grazie anche alle martellate in battuta di Sartor-Ace.

In semifinale un'altra grossa sorpresa: la Jugoslavia, che ha eliminato i campioni olimpici del Brasile. La spuntiamo dopo una battaglia tesa e nervosa di due ore e mezza, finita a notte fonda, tiratissima nei primi due set, con un Bernardi titanico che però, come Baggio a New York contro la Bulgaria, tiene tutti in apprensione per una distorsione alla caviglia. Occorreranno infiltrazioni. Siamo tutti stupiti dalla saldezza mentale con cui ci siamo tirati fuori dalle secche in semifinale, ma anche preoccupati per esserci finiti: di testa siamo fortissimi, ma non sarà che pensiamo troppo? L'avvicinarsi del traguardo mette ansia persino a Zorzi: «Guardavo Michael Johnson sul podio dopo il record del mondo nei 200 metri e rifiutavo di pensare che anch'io ero vicino a quella situazione». Velasco si rifugia nei voli più pindarici di sempre, guardandoci tutti da lassù: «Sono contro la cultura dei pomodori, per cui il primo è un eroe e il secondo è un cretino. Ma penso anche all'estrema bellezza del pensare che anche con il secondo posto si è perso tutto».

In finale, beh, l'Olanda. Un'Olanda a fine ciclo, coi senatori che stanno tirando gli ultimi colpi per arrivare all'Europeo in casa del 1997. «Siamo un piccolo paese», si scherniscono, «l'Italia ha due squadre, noi una sola». In effetti sui ricambi non c'è partita, ma dai quarti in poi ha giocato spensierata e ha dominato Bulgaria e Russia. «Ormai è impossibile sorprendervi», dicono in coro i vari Blangè, Zwerver, van der Meulen, van der Goor. «Eventualmente, l'unica cosa possibile è battervi».

Essere una squadra intelligente ha i suoi svantaggi: per esempio, difficilmente riusciremo a darci la leggerezza di cui ogni tanto potremmo avere bisogno. In fondo Garrincha non aveva nemmeno il QI sufficiente per guidare un autobus, ma questo non gli ha impedito di vincere due Mondiali. La finale di Atlanta ne è plastica dimostrazione: la tensione intossica i muscoli e le articolazioni e annebbia i pensieri del ct, che fa qualche mossa sbagliata, per esempio in regia parte con Meoni regolarmente letto da van der Goor e Held. Il primo set scivola via 12-15 come da tradizione, e come da tradizione arriva la furibonda reazione: il rientro di Tofoli rinfranca il muro, restituisce lucidità a Bernardi e vigore alle schiacciate di Giani e Papi. Ma col punteggio di nuovo in parità torniamo vittime dei centimetri e dei dettagli e il terzo set si rivela un mezzo disastro: sopra 11-7 torniamo improvvisamente balbettanti in ricezione, messi alla frusta dalle battute di Schuil, e dominati a muro e cediamo 16-14. Gli olandesi hanno quel che vogliono: vinto il terzo set possono rifiatare nel quarto e concentrarsi già sul quinto.

Eccolo allora il finale del film, scontato e inevitabile. L'equilibrio è estremo, fino al 13-13 non c'è nessuna squadra che riesce ad andare avanti di due punti. Cinque punti li mette a referto un Giani di nuovo tonico e brillante; poi mette giù anche il sesto, quello con cui abbiamo aperto, quello che vale il match point, il gold point, il biglietto per l'Olimpo. Nessuno immagina che sarà, di fatto, l'ultimo punto dell'irripetibile era Velasco.

Sul 15-14 Italia Alberda chiama il time-out e ne esce con un piano mai sperimentato prima: invece del solito prevedibile attacco in primo tempo, Blangè pescherà van der Goor in zona 1, posizione mai occupata in tutta la finale, e quello spilungone che ha imparato i segreti del volley proprio a Modena sorprenderà Gardini e Giani a muro. Il piano funziona e dà agli olandesi l'abbrivio per andare 16-15, secondo match point. La battuta di van der Goor non è ingestibile, ma Papi floppa clamorosamente la ricezione («Non ho mai commesso un errore così in ricezione, e non l'ho mai commesso neppure dopo») e lo scambio si mette in salita. Riusciamo a difendere sul contrattacco olandese, ma a Giani arriva una pallaccia esterna e sghemba in posizione impossibile che Giangio rimanda dall'altra parte colpendo l'asticella di banda. Fuori, «e l'Olimpiade è dell'Olanda, e l'Olimpiade è dell'Olanda...».

Il finale di Italia-Olanda, finale olimpica 1996.

È il dolore più forte mai provato da questa generazione di fenomeni senza gloria eterna, re senza corona e senza scorta, che hanno perso facendo più punti, 71 contro 66. Il sale sulle ferite è insopportabile nelle facce catatoniche di chi si lascia sprofondare nell'asciugamano, dei tifosi venuti da Modena o da Cosenza che urlano «Grazie lo stesso» ma hanno tutti espressioni variamente attonite, o di chi come Gardini si sfila immediatamente dal collo la medaglia d'argento porta con grande imbarazzo dal presidente del CONI Mario Pescante, che per sé stesso aveva scelto la premiazione della pallavolo maschile, pregustando ben altre sensazioni. «Se c'era qualcosa di più che potevamo fare, noi non lo sapevamo», sono le ultime parole di Velasco che per la prima volta parla al passato. È finita per Zorzi, per Tofoli, per Cantagalli, per Bernardi; oltre a tutti i giovani fortissimi i nuovi leader saranno Giani e Gardini, il capitano che non molla. È finita soprattutto per Julio Velasco, rimasto con la penna in mano ad aspettare invano l'ultima frase di un romanzo iniziato nel 1989 e mai finito, tradotto in mille lingue ed esportato in cinque continenti: dall'America di Atlanta all'Australia di Sydney, l'Europa di Atene e Londra, il Sudamerica di Rio, l'Asia di Pechino e ora Tokyo. Nel 2001 saranno nominati la più grande Squadra della storia della pallavolo in un galà organizzato dalla Federazione Internazionale a Buenos Aires. L'epilogo all'altezza di un romanzo che in fondo non ha neanche un vero finale, rimasto splendidamente inconcluso e inconcludente come certi racconti di Borges. Che soggetti, questi argentini.

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