
Venerdì sera, oltre a rivedere i fantasmi di una mancata qualificazione a un Mondiale, per parecchi italiani è stata l’occasione di scoprire Antonio Nusa. L’ala del RB Lipsia è da anni uno dei giovani più promettenti d’Europa, ma di certo non era lui l’uomo copertina della Norvegia. Chiunque non fosse appassionato di calcio estero magari pensava di doversi preoccupare semplicemente di Haaland e Ødegaard, tutt’al più di Sørloth, e invece si è trovato a fare i conti con questo esterno imprendibile e veloce come il vento. Il che avrà portato in molti a fare una constatazione amara: com’è possibile che persino la Norvegia – non il Brasile o la Spagna e nemmeno il Belgio o la Croazia – riesca a produrre un dribblatore, e noi non ne abbiamo uno probabilmente dai tempi di Del Piero prima dell’infortunio?
Nella formazione titolare schierata ad Oslo da Spalletti, il giocatore che secondo Hudl StatsBomb completava più dribbling in Serie A tra quelli con almeno 1200' era Barella, sessantaseiesimo nell'apposita graduatoria con 0,85 dribbling riusciti per 90'.
Nusa, invece, solo nella partita contro l'Italia di dribbling ne ha completati 4 su 6, ed è sembrato una variabile alla quale non eravamo pronti. Eppure, chiunque avesse seguito gli Europei Under 21 un paio d’anni fa, doveva saperlo: anche senza scomodare Haaland e Ødegaard, la Norvegia ha più talento offensivo di noi. Inserite entrambe nel gruppo D di quell’edizione, Italia e Norvegia si erano affrontate all’ultima giornata del girone. Il centrocampo degli "azzurrini", praticamente, era quello dell’Italia attuale, con Rovella, Tonali e Ricci. Per il resto, Nicolato aveva schierato gli azzurri con il 3-5-2 proprio come Spalletti, anche se in una versione più semplificata. Nusa era entrato nel secondo tempo insieme all’altro grande talento di quella Norvegia, Oscar Bobb. I due, con i loro dribbling, avevano cambiato la partita e avevano condotto la loro Nazionale alla vittoria: sconfitta per 1-0 con gol di Botheim propiziato da una discesa sulla destra di Nusa, l’Italia era stata eliminata. Costretti nella rigidità del "nostro" 3-5-2 (per cui forse dovremmo emettere un attestato di qualità DOCG come si fa per i vini) e nella preferenza verso determinati tipi di giocatori, avevamo destato la stessa impressione della Nazionale maggiore la scorsa settimana.
La crisi del calcio italiano è grave e diffusa, magari fosse solo uno il problema da risolvere. L’assenza di dribblatori – di quelli abili nello stretto e abbastanza dotati da resistere ai massimi livelli – però, è forse ciò che più esemplifica ciò che manca al nostro calcio. Ne avevo scritto io stesso qualche anno fa proprio qui su Ultimo Uomo. Quali sono, allora, le cause che fanno si che la Norvegia possa avere un Nusa, mentre l'Italia no?
La premessa da fare, in una questione del genere, è che si tratta di discorsi complessi, che coinvolgono una grande quantità di variabili, solo una parte delle quali ha a che fare con il campo. Ma proprio per questo ci sarebbe bisogno di soluzioni di sistema, e nonostante in Italia si sia lavorato molto sulle Nazionali giovanili soprattutto attraverso la direzione di Maurizio Viscidi, sembra che manchi un approccio più radicale come quello adottato da altri Paesi che hanno vissuto gravi momenti di crisi calcistica, come Germania, Inghilterra o Belgio. Posto che riforme del genere in Italia sembrano una chimera, si può comunque ragionare sul perché lo stato dell’arte sia questo, su cosa impedisca al sistema attuale di produrre giocatori con dribbling e spunto offensivo.
CHE GIOCATORI SI SCELGONO IN ITALIA
Il dato più evidente da cui partire è che nel calcio italiano, non solo in Nazionale, alcuni profili godono di maggior considerazione rispetto ad altri. Cosa ci dice la selezione dei giocatori nel nostro Paese? Come ha influito su di essa il modo in cui si gioca in Italia?
Perché si gioca in un certo modo? E perché, per converso, si scelgono questi profili?
Ci sono alcune caratteristiche che, in linea generale, connotano il nostro calcio e lo rendono riconoscibile. L’Italia è il Paese, insieme alla Germania probabilmente, in cui si fa il maggior uso di difesa a tre e di esterni a tutta fascia. In nessun campionato, poi, si imposta la fase di non possesso sull’uomo contro uomo come in Serie A, sia che si decida di pressare in alto, sia che si decida di aspettare più bassi. Con la palla, invece, abbiamo sviluppato grande competenza soprattutto in primo possesso: sia che si decida di stanare gli avversari palla a terra, sia che si decida di lanciare per cercare le seconde palle, le squadre italiane costruiscono sempre con un’intenzione ed è già da lì che vogliono trovare i vantaggi da poter sfruttare per arrivare in porta. Sono state queste le nostre risposte alle sfide del calcio contemporaneo.
Se da una parte queste soluzioni ci hanno permesso di ovviare a tante debolezze strutturali, a partire dalle scarse risorse economiche, dimostrando una volta di più l’eccellente livello di preparazione dei nostri allenatori, dall’altro lato hanno contribuito a rendere il calcio italiano estremamente peculiare, forse anche troppo. La specializzazione in determinati aspetti, infatti, è diventata così profonda da allontanarci dalle abitudini del resto d’Europa. Basti pensare a quanto fosse diversa l’Inter dalle altre semifinaliste dell’ultima edizione della Champions League.
Così, la tendenza generale a seguire questi principi, porta ad avere soprattutto italiani con determinate caratteristiche: centrali abituati a uscire sull’uomo e, preferibilmente, abili in conduzione; esterni da binario, incaricati soprattutto di dare profondità senza palla, in cui l’atletismo sovrasta la qualità tecnica; centrocampisti possenti, di gamba, disposti a coprire tanto campo e a muoversi in verticale per attaccare l’area. Del resto, se le parole in una certa misura plasmano il pensiero, e quindi le abitudini, siamo stati noi a inventare termini come “braccetto”, “quinto” o “invasore”.
Il fatto che il 3-5-2 sia così diffuso ad ogni livello è un po’ un riflesso di tutto ciò: è vero che il modulo, di per sé, non dice niente del modo di giocare (almeno in parte), ma i 3-5-2 in Italia tendono ad assomigliarsi e privilegiano le caratteristiche elencate sopra. È proprio per questa sorta di egemonia che Spalletti aveva deciso di costruire la sua Italia su questo sistema. Perciò tendeva a escludere due ali da 4-3-3 come Zaccagni e Orsolini.
In molti avranno invocato i loro nomi mentre la Norvegia passeggiava sulle nostre macerie, ma forse sarebbe cambiato poco. Della caratura di Zaccagni e Orsolini si potrebbe discutere per ore e i più disfattisti direbbero che una volta dovevamo scegliere tra Totti e Del Piero. Zaccagni e Orsolini, però, una vera opportunità non l’hanno mai avuta e questo è il segno di come le loro caratteristiche non fossero contemplate. Vista la qualità limitata, inutile cercare soluzioni di carattere più individuale. È un pensiero con il quale è dovuto scendere a patti Spalletti, che pure nella sua carriera di talenti ne ha esaltati, e con il quale convivono tanti allenatori in Italia.
Se infatti abbiamo iniziato a premiare determinate caratteristiche invece di altre, e magari a condizionare in questo modo anche che tipo di giocatore promuovere dal calcio giovanile alla prima squadra, è anche perché le squadre italiane devono far fronte ai propri problemi di risorse. Gli allenatori italiani, nella maggior parte dei casi, devono fare di necessità virtù. È una costante delle loro carriere, anche trasferendosi da una squadra all’altra. In questo modo, la scelta del 3-5-2 all’italiana o di sistemi codificati in generale, da conseguenza della povertà di talento offensivo ne diventa quasi la causa, in un ciclo che si autoalimenta.
L’impressione è che gli allenatori italiani debbano possedere una solida preparazione che li renda pronti a gestire rose in cui difficilmente troveranno ciò che desiderano. L’unico modo per affrontare situazioni di ristrettezza del genere, allora, è avere tutto sotto controllo.
L’ossessione italiana per il controllo è il primo ostacolo per i dribblatori. Controllo inteso in senso difensivo, certo, ma anche e soprattutto offensivo. Gli allenatori italiani, come detto, trasmettono una sorta di ansia di dover essere preparati ad adottare strategie con cui ovviare alla scarsità di talento.
E quindi, poiché in teoria sarà più facile incontrare in rosa un centrocampista di gamba o un esterno dai mille polmoni invece di un dribblatore, meglio prepararsi a impostare una fase offensiva piena di inserimenti e giocate codificate: gli emuli di Conte e Gasperini hanno sublimato questo concetto.
Un giocatore di grande atletismo, ma senza troppa possibilità di variazioni con la palla, sarà facile da plasmare nella direzione che si desidera, non ha i mezzi per "ribellarsi". Così come sarà più facile far giocare la palla ai difensori, un’altra costante che, se da un lato è quasi un tratto d’avanguardia del nostro campionato, dall’altro toglie sempre più possibilità di esprimersi ai talenti che giocano in zone più avanzate. I difensori, in Serie A soprattutto, visto che il pressing alto è meno diffuso che altrove (pensiamo per esempio alla Bundesliga o ormai la Premier League), hanno più tempo per agire con la palla; e poi, partire da dietro con una conduzione è un buon modo per sparigliare le marcature a uomo.
Che il volume di gioco dei difensori sia più alto di quello dei giocatori più avanzati, di per sé, è abbastanza normale. Da qualche anno, però, i difensori si incaricano anche di eseguire giocate più difficili, come conduzioni e sovrapposizioni interne, con ali e trequartisti che magari aspettano in posizione avanzata proprio per aprirgli dei varchi. I difensori, allora, arrivano a sovrastare i giocatori offensivi non solo per semplice volume di gioco con la palla, ma anche per protagonismo all’interno della manovra. Era evidente anche agli scorsi Europei, con Chiesa o Zaccagni (nelle rarissime volte in cui è stato usato) a fare i guardalinee per consentire a Calafiori e Bastoni di avanzare. Se già ali e trequartisti, di per sé, di contatti con la palla ne hanno di meno, in questo modo si riducono ancora di più i loro interventi e li si costringe a rispettare determinati spazi e determinate funzioni, proprio per favorire i compagni più arretrati. Va da sé che questo è lo scenario peggiore per produrre e valorizzare dribblatori.
Questo, insomma, è quello che lasciano trasparire la Serie A e il professionismo italiano in generale. Ci sono poi, ovviamente, grandi problemi a livello di formazione, su cui è più difficile farsi delle idee dall’esterno.
GLI SPECIALISTI DELLA TECNICA
La prova più grande di quanto i problemi di formazione siano gravi è la fine che fanno quei giocatori che, almeno a livello giovanile, sembrano dotati di spunto in dribbling e tecnica nello stretto. Due anni fa l’Under 20 di Nunziata incantava al Mondiale di categoria per il suo gioco fresco e offensivo, imperniato sugli sguscianti Baldanzi e Pafundi: qual è la loro dimensione oggi? Baldanzi trequartista di scorta nella Roma, dove spesso si segnala più per l’abnegazione che per l’effettivo contributo offensivo. Di Pafundi, invece, si sono perse le tracce, di proprietà di un’Udinese che sì privilegia l’atletismo, ma che a numeri dieci come Thauvin o Deulofeu non ha mai rinunciato: poca fiducia in Pafundi? Pafundi non ha la loro stessa qualità tecnica? Oppure la tecnica di Pafundi non è sorretta da altro? È quest’ultimo l’aspetto che sembra essere decisivo, e che taglia le gambe a tanti talenti tecnici che magari sembrano promettere nel calcio giovanile.
L’Italia non è che in assoluto non produca dribblatori o giocatori tecnici. Il problema è che quegli esemplari non sembrano dotati di tutte quelle qualità di contorno che possono renderli protagonisti ad alti livelli. Delle qualità, insomma, che ne facciano dei giocatori a tutto tondo, la cui tecnica riesca ad assorbire i salti di livello: per mezzepunte come Baldanzi, o come Caprari per citare un giocatore che ha anche fatto la differenza nella bassa Serie A, si tratta delle qualità fisiche. Per uno come Maldini o per Oristanio (miglior italiano per dribbling completati ogni 90’ in campionato), si tratta invece di letture e scelte: giocatori del genere, una volta ricevuto il pallone, non sanno bene cosa farsene; un loro dribbling o una loro giocata raramente finisce per creare qualcosa, né tantomeno migliora lo sviluppo dell’attacco. La qualità dei loro piedi, in definitiva, non è sufficiente a giustificarne la presenza agli occhi degli allenatori italiani. E così, gli esemplari più tecnici o dotati di spunto, finiscono per lo più per rimanere in un limbo: se trovano un contesto adatto, come Zaccagni e Orsolini (e comunque parliamo del 17° e del 24° dribblatore della Serie A), finiscono per imporsi a un livello medio-alto, non certo in squadre da scudetto; nel peggiore dei casi, invece, retrocedono di categoria, e finiscono per allietare i week-end di chi segue Serie B e Serie C (giocando pure poco, vista l’ultima stagione di Volpato, che avrebbe il potenziale per essere un dribblatore forte e produttivo).
Il fatto è che il salto dal calcio giovanile al professionismo è davvero, davvero troppo grande al momento in Italia. Liberali, che ha vinto un Europeo Under 17 giocando in maniera spettacolare, riuscirà ad adeguarsi e trovare un posto tra i grandi, oppure sarà un altro Pafundi/Baldanzi/Hasa? Un altro trequartista di un metro e settanta che non viene ritenuto all’altezza, magari anche solo per questioni fisiche? Solo il futuro potrà dircelo.
Intorno alle questioni di campo poi ci sono quelle sociali, ancora più difficili da affrontare. In Italia (ma non solo) c'è un grosso pregiudizio razziale a riguardo, soprattutto quando si pensa "Nazionali multietniche" come Francia, Germania o Belgio, e cioè che queste squadre siano avvantaggiate dal fatto che le persone nere siano "biologicamente" più potenti e veloci (un pregiudizio rinforzato dallo stesso Spalletti che in una delle sue ultime interviste ha parlato del bisogno di «muscoli africani»). Una convinzione che scientificamente non ha fondamento e che influenza il dibattito sulle cosiddette “seconde generazioni”, che pure sarebbe interessante per le sue implicazioni sociali. Intanto va detto che calciatori che vengono da famiglie migranti o da loro discendenti in Italia non mancano, basti pensare al fatto che l'ultimo Europeo Under 19 la Nazionale l'ha vinto con un gol di Kayode (nato in provincia di Novara da genitori di origine nigeriana).
La connessione tra questi due temi, però, non è del tutto da escludere. Il calcio è infatti per sua natura uno sport popolare, e negli ultimi decenni è chiaro che gli strati più "popolari" delle società francesi, tedesche e belga siano ormai appannaggio delle famiglie migranti o dei loro discendenti (in Paesi come Francia, Belgio e Gran Bretagna, alla luce del loro passato coloniale, si dovrebbe parlare di terza, quarta, quinta o sesta generazione...).
C'è poi la questione della privatizzazione delle scuole calcio e dei campi, e della restrizione del suolo pubblico su cui giocare (entrambe questioni spinose che abbiamo affrontato qui su Ultimo Uomo per esempio qui e qui), che ha escluso economicamente una grossa fetta della popolazione. Problemi che direttamente e indirettamente sono legati al tema delle "seconde generazioni" (termine odioso, con il quale spero di non offendere nessuno) come si è visto nella significativa storia personale di Gnonto.
In ogni caso il punto è che lo sviluppo o meno di determinate qualità come il dribbling dipende dalla cultura calcistica in cui si cresce, non solo dal Paese di provenienza dei propri genitori: quali sono i giocatori di “seconda generazione” che hanno aggiunto la quota di dribbling che manca alle nostre Nazionali? Gnonto, per dirne uno, soffre degli stessi problemi di scarsa completezza denotati dai vari Pafundi, Baldanzi, ecc.
Come sempre, quando vi è una situazione di crisi tanto grave, e che perdura da almeno 15 anni, la motivazione non è mai solo una. Le tendenze della Serie A non hanno fatto altro che atrofizzare un problema che però andrebbe affrontato alla radice, a partire dalla formazione. Certo, in questi ultimi tempi, per le vicende che hanno colpito il nostro calcio, è forte l’impressione che pesino questioni poco chiare sul reclutamento dei giovani e sul modo in cui vengono mossi i cartellini, da dirigenze chiamate a fare i salti mortali per mantenere i conti in ordine. Come sempre, quindi, il fattore economico finisce per incidere. La crisi, però, si fa sentire per qualsiasi sistema calcio.
La differenza, allora, la fa chi riesce a trovare delle soluzioni di sistema, perché pensare che basti unicamente assumere un CT che doti di automatismi la Nazionale per essere competitivi è pura utopia. Negli stessi giorni in cui Spalletti viene sbeffeggiato più o meno da chiunque, non c’è appassionato che non canti le lodi di Luis Enrique, l’architetto dietro il PSG, la miglior squadra del mondo. Solo tre anni fa, il tecnico asturiano falliva la sua missione di trasformare la Spagna in un club, venendo eliminato in un ottavo di finale dei Mondiali agonico, dove i suoi uomini non avevano abbastanza talento per attaccare il blocco chiuso del Marocco. Al suo posto la federazione spagnola scelse di puntare su Luis De La Fuente, il quale di certo non è un allenatore più "sistemico" di Luis Enrique. Poi, però, sono esplosi Nico Williams e Lamine Yamal.