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Ado Alili
Italia-Macedonia: una storia personale
16 nov 2023
16 nov 2023
I sentimenti di un figlio della diaspora macedone in Italia nei confronti di una partita carica di significato.
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Ado Alili
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credits: IMAGO / AFLOSPORT
(foto) credits: IMAGO / AFLOSPORT
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Tra le centinaia di migliaia di persone fuggite negli anni Novanta da quella che era la Federazione Socialista Jugoslava ci sono anche i miei genitori. Era il 1991 e i miei erano sposati da meno di un anno. Lui musicista famoso e popolare, lei studentessa incinta di pochi mesi. Scelsero Foligno, in Umbria, per evitare la chiamata alle armi e per crescere il loro primo figlio in un Paese che avesse un futuro. Oggi quella macedone è una delle comunità straniere più antiche e radicate in Italia. In quegli anni, però, niente era semplice. Tanti giovani jugoslavi, spaventati da quello che stava succedendo intorno a loro, avevano deciso di investire i loro soldi (spesso tutti quelli che avevano) solo per scappare dal loro amato ed irriconoscibile Paese, ormai sulla via dell’autodistruzione a causa di una guerra stupida e fratricida. In Italia dovettero affrontare un altro tipo di incertezza - quella di cercare un lavoro, di imparare una lingua diversa, di trovare il proprio posto in questo nuovo mondo - ma per lo meno era un'incertezza che poteva non essere associata a parole come morte, guerra e sangue. Emigrare in un nuovo Paese aveva però anche dei vantaggi. Ai miei ha permesso di appianare differenze molto più profonde rispetto a quelle etniche e religiose. Il tifo, per esempio. Mia madre, tifosa sfegatata dell’Hajduk di Spalato, mio padre, ultras del Partizan di Belgrado: come sarebbero mai potuti andare d’accordo da questo punto di vista? Alla mia nascita si decise quindi per una terza via, neutra e indolore, che si era aperta con il trasferimento in Italia. Per il bene di tutti a casa si sarebbe tifato Milan. Il perché è presto detto. Nella squadra di Berlusconi ci giocavano “il Genio”, Dejan Savicevic, e Zvonimir Boban. «Due nostri paesani», diceva papà. Erano giovani, forti e slavi, tanto bastava. Ai loro gol si esultava in modo differente, più rumorosamente, perché per i miei genitori Savicevic e Boban erano la cosa più simile a degli amici di famiglia, una sorta di “parenti acquisiti” per cui e di cui essere orgogliosi. Vedere le partite del Milan era un modo per sentirsi più vicini a casa, per sentire meno nostalgia. Ma c’era anche altro. Nelle gesta di Savicevic c’era il riscatto di chi era stato strappato alla propria vita, catapultato all’improvviso in un Paese nuovo, con mille difficoltà e barriere. Fu lui a dire: «Noi non siamo solo quelli che scappano dalla guerra e vengono a fare lavori umili nel vostro Paese, ma anche quelli che fanno sollevare la Coppa dei Campioni alle vostre squadre miliardarie». “Il Genio”, con il suo talento e la sua indolenza, era anche il mio preferito, nel cuore del me bambino era praticamente un supereroe, alla pari di Spiderman, degli Street Sharks e dei Bikers Mice. D’altra parte è così che mi era stato raccontato da piccolo. I miei erano completamente incapaci di raccontare le favole e non potendo permettersi le cassette della Disney, dovettero inventarsi qualcosa di diverso per addormentarmi e sedare la mia curiosità vorace da bambino. Venne loro in mente di raccontarmi le partite di basket e di calcio come se fossero delle favole. I protagonisti erano sempre gli stessi: Safet Susic, il Cibona, l’Hajduk, Drazen Petrovic, le Nazionali jugoslave e il Milan. Il mio racconto preferito in assoluto era quello in cui “il Genio scavalca Zubizarreta”, un gesto di pochi secondi che mia madre era in grado di trasformare in una battaglia epica lunghissima, in cui prima Nadal, e poi il portiere basco, venivano trafitti dai super poteri del numero 10 rossonero.

Nel frattempo era finita la guerra, o almeno una sua parte. Era il 1995 e l’Accordo di Dayton aveva permesso a tante persone di tornare dopo anni nella loro terra natale, dando la possibilità ai bambini nati all'estero di visitare il Paese della propria famiglia per la prima volta. Tra quei bambini c’ero anche io. Ogni agosto andavamo in Macedonia e nel corso degli anni quella vacanza è diventata una felice abitudine. Quei periodi mi hanno permesso di conoscere un Paese meraviglioso, pieno di etnie diverse fra di loro, ognuna con la sua lingua e il suo alfabeto, in cui il rintocco delle campane si alterna al canto dei muezzin. La cosa più importante, però, è che hanno gradualmente svegliato in me la volontà - anzi direi la necessità - di far parte della sua storia. Forse la cosa più ironica, di cui mi sono accorto già dal primo viaggio lì, è che tutti erano ossessionati dalla cultura italiana e da ciò che essa rappresentava. La radio trasmetteva musica italiana 24 ore su 24, soprattutto Laura Pausini e Eros Ramazzotti, la neonata televisione di stato macedone era inondata di serie TV italiane e i vari Festival di Sanremo venivano mandati in onda di continuo. Dappertutto, poi, c’erano tifosi della Ferrari e si poteva trovare cibo italiano in ogni negozio. Soprattutto: non c’era una singola persona che non fosse in fissa totale con la Serie A. Erano gli anni Novanta, il nostro campionato era pieno zeppo di campioni, e soprattutto ogni squadra italiana aveva almeno un giocatore jugoslavo in rosa (persino una “piccola” come il Perugia poteva contare su un nazionale croato come Milan Rapaic). Nonostante fossero nati sei nuovi Paesi, quei calciatori rimanevano dei connazionali nell’immaginario di tanti immigrati, ironico se si pensa alle faglie etniche che hanno spaccato l’ex Jugoslavia. Le immagini dei calciatori della Serie A erano dappertutto, sulle pubblicità, sui prodotti, in televisione, sui quaderni di scuola. Le bancarelle del mercato di Tetovo (terza città del Paese per grandezza) erano piene di magliette tarocche, c’era letteralmente tutta la Serie A. Io passavo ore intere a spulciarle una ad una. È stato lì che la mia collezione personale ha cominciato ad ampliarsi e tutto ciò mi rendeva felicissimo, forse anche perché mi aiutava ad accorciare la distanza con i bambini macedoni. Finalmente c’era un punto di contatto, un linguaggio comune. Sembrava che la nostra vita dovesse proseguire così e invece nel 2001 in Macedonia è scoppiata una seconda guerra civile, questa volta fra l’esercito nazionale e i militanti dell’UCK. La situazione era molto complicata, perché i media italiani non dicevano nulla su questo conflitto e le comunicazioni telefoniche verso la Macedonia erano quasi sempre inutilizzabili. A casa mia abbiamo comprato una tv satellitare solo per vedere il telegiornale tedesco, di cui non capivamo una singola parola. Lì, però, di questo conflitto si parlava e il solo vedere qualche immagine ci bastava. Il telegiornale cominciava alle sette di sera e io avevo il compito di rimanere davanti alla TV fino a quando non fosse partito il servizio che ci interessava. A quel punto andavo ad avvertire mia madre, che solitamente a quell'ora stava già preparando la cena. Un giorno, avvicinandosi alla TV, il suo sguardo è cambiato. Solo dopo, origliando una conversazione dei miei genitori, ho scoperto che aveva visto un carrarmato parcheggiato davanti a casa nostra. Da quel momento non ci siamo collegati più con i canali tedeschi. Siamo tornati in vacanza in Macedonia solo a partire del 2002: quella guerra non aveva lasciato solo macerie, ma anche un senso di precarietà in me, l’urgenza di conoscere volti e posti nuovi, di scoprire storie ed aneddoti sulla vita delle persone a me care, che sentivo di non conoscere fino in fondo. È stato in quegli anni che ho capito come un immigrato abbia un mondo del passato a cui appartiene e un mondo del presente che, più o meno, gli sarà sempre estraneo. I figli di immigrati vivono invece una condizione diversa. Stanno in questi due mondi, e molte volte in nessuno, come se fossero di casa e stranieri al tempo stesso. Personalmente credo che non si possa conoscere un posto se non così: vivendolo da dentro ma allo stesso tempo guardandolo con la distanza di chi sa di non appartenergli del tutto. Detta così può sembrare un discorso ormai pacificato. Eppure, per quanto possa apparire stupido, tutto la mia elaborazione sulla questione della doppia identità è andata in crisi quando si è infilata nell’imbuto del tifo per le Nazionali. Chi tifare quando scendono sullo stesso campo di calcio, una contro l’altra, Italia e Macedonia? Non è una domanda facile a cui rispondere, e per l’occasione ho chiesto a un paio di amici di origine macedone se anche loro la vivessero così. Menser mi ha detto che, quando si mette davanti a una partita tra Italia e Macedonia, viene avvolto da «un mix di gioia e tensione». Meldin che, nonostante tutto, prova un certo «orgoglio» a vedere la Macedonia «giocarsela con colossi mondiali come l’Italia». Praticamente il problema non si è posto per 25 anni poi, improvvisamente, cinque partite dal 2016 ad oggi. Due volte nel girone di qualificazione per Russia 2018, l’infausto spareggio di Palermo e altre due partite valide per la qualificazione al prossimo Europeo. In due di queste partite ero presente allo stadio, in entrambi i casi a Skopje. La prima volta dal vivo è stato nell’ottobre del 2016. Da un lato l’Italia di Ventura, dall’altra parte i padroni di casa capitanati da Goran Pandev. Avevo pensato spesso a questa partita e, prima che arrivasse, mi sembrava impossibile capire per chi tifare. Iniziata la partita, però, la risposta è emersa dal fondo in maniera naturale: Italia! Certo, è stata una partita orribile. La Macedonia è andata in vantaggio per ben due volte, per farsi poi raggiungere e superare solo alla fine dai gol di Immobile e Belotti. La cosa più bella è stata lo stadio di Skopje: una vera polveriera, d’altra parte siamo nei Balcani.

Finita la partita ho tirato un sospiro di sollievo: divertente, non banale, ma meno complicata del previsto. Il vero trauma si è consumato l’anno scorso, a Palermo. Spareggio, gara secca, chi perde va a casa. La situazione era molto sbilanciata: tutta la mia famiglia schierata per la Macedonia, io da solo a tifare l’Italia. Unica consolazione: conoscere due lingue con cui interpretare al meglio la catartica arte della bestemmia, unica ancora di salvezza in questi momenti di tensione. A fine partita sono stato sommerso da macedoni che mi prendevano per il culo e da italiani che mi dicevano di essere contenti per me. Capite la fregatura? Che poi la Macedonia è stata eliminata solo una settimana dopo dal Portogallo, quindi non si poteva nemmeno essere felici fino in fondo, perché nessuna delle mie squadre del cuore sarebbe andata ai Mondiali. Sono tornato a vedere la Macedonia dal vivo poco più di due mesi fa, il 9 settembre. È stata la partita in cui Luciano Spalletti ha debuttato sulla panchina degli “Azzurri”. Mentre preparavo la borsa mi è capitato di rovistare nel “cassetto delle scemenze”, quello che ogni madre pietosamente non svuota in omaggio ad un’adolescenza infinita – so che avete capito a cosa mi riferisco. Ecco, dentro, per caso, ho ritrovato la mia bandiera dell’Italia, quella che mi ha accompagnato nella notte del 9 luglio del 2006, e che avevo già ripreso in mano quando Donnarumma ci ha regalato il titolo di campioni d’Europa. Insomma, è una bandiera da grandi occasioni e da parte mia le avevo promesso che non avrebbe mai vissuto una serata come quella di Palermo. Quando l’ho vista però non ho resistito: l’ho messa in borsa e l’ho portata a Skopje con me.

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