
La sera del 13 novembre 2017 sono tornato a casa e mi sono fatto una pasta. Non c’era niente in frigo e mi sono limitato a far soffriggere olio e peperoncino in padella. Quando sono andato a scolarla, però, ho perso l’equilibrio e mi sono rovesciato mezza pentola d’acqua bollente su una mano che reggeva la pentola. Mi sono ustionato la mano che ho dovuto tenere fasciata e medicata per tre settimane.
Ripenso spesso a quel momento, che ha reso ancora più indimenticabile la sera in cui l’Italia non si è qualificata ai Mondiali. Sono sicuro che ciascuno di voi ricorderà quella sera: con chi era, come stava, come è venuto a patti con la nostra apocalisse sportiva.
Quel fallimento ha avuto echi esistenziali profondi per tutti noi: da quel momento vivevamo in un Paese che non poteva dare per scontato di qualificarsi ai Mondiali. La decadenza del nostro calcio, che ci raccontavamo senza crederci troppo, ora era chiara davanti ai nostri occhi. Era un fatto gigantesco, inaudito. Per fortuna, però, sapevamo con chi prendercela: Gian Piero Ventura. Come sempre in Italia paga il CT e Ventura aveva il physique du role perfetto per prendersi tutte le colpe.
Non c’entra solo la portata del fallimento - senza mezzi termini: un’apocalisse - ma anche il suo carattere difficile. Come altri uomini di successo, Ventura è permaloso e un po’ mitomane. Due caratteristiche difficili da far coesistere all’interno del CT della Nazionale, che deve innanzitutto fungere da sacco da boxe per le critiche - un parafulmini, un capro espiatorio. Come poteva gestire un fallimento tanto clamoroso un uomo del genere?
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