MAICON CHE NEMMENO HA GIOCATO
Maicon nemmeno si doveva chiamare così. Cioè: il nome completo è Maicon Douglas Sisenando, ma dicono che i genitori avrebbero voluto chiamarlo Michael Douglas Sisenando, perché ammiratori quasi devoti dell'attore (Michael Douglas, appunto), forse solo un po' meno del fallace dipendente dell'anagrafe, che infatti sbagliò a trascrivere. In Brasile il confine tra storie e narrazioni è sempre sottile, e pure la curiosità del nome di un terzino con il quale abbiamo una certa confidenza fa scena (anche se nemmeno lui ci crede molto). Maicon, il ragazzo reso terzino dal padre allenatore (prima era un centrocampista offensivo), un genitore così deciso a far diventare uno dei due figli una stella (l'altro, gemello, si chiama Marlon) da seppellire il cordone ombelicale a centrocampo come fosse un rito, prima di andare a registrare la nascita, gioca nel Brasile e nella Roma; lo conosciamo perché era nell'Inter del triplete e perché pensavamo di averlo perso, dopo nove partite quasi tutte incomplete con il City. Ma un giocatore che non è nemmeno scaramantico (al Monaco nessuno voleva la 13 e la prese per sé, sfidando i compagni: «Datemi quella maglia e vi faccio vedere quanto conta un numero») e che ha già rischiato di morire a dieci anni ha di sicuro la forza per ripartire; e infatti si è messo in discussione con la Roma e al Mondiale è arrivato. Ancora senza giocare, ma fa parte di quel pezzo di campionato italiano che non è detto esalti i puristi, ma un po' scalda i tifosi, capaci di essere partigiani se gioca l'Italia e quello che sbaglia non è della squadra mia e dunque bravi anche al contrario, a tifare per chi l'anno prossimo o l'anno appena chiuso gioca per i propri colori.
STORIE DA CUCIRE
L'Italia che resta è una somma di nomi e storie, non nutre alcun orgoglio. È un ritrovo tra amici, quelli con i quali comunque si è maggiormente a contatto anche se si segue volentieri il calcio estero. Campo da sgombrare: non c'è «un po' d'Italia in lotta per il Mondiale», si cuciono solo stracci tra loro, racconti singoli che possono diventare unica vicenda. Ad esempio quella dei brasiliani, che una volta venivano in Italia perché forti e quindi leader anche nella loro Nazionale, mentre adesso sono rappresentati dai 27 minuti di Hernanes, il brasiliano pescato dalla Lazio e partito in lacrime per Milano a gennaio, il primo colpo di Thohir da presidente dell'Inter. Il profeta almeno ha giocato contro la Croazia entrando per Paulinho, ancora sull'uno a zero (poi finisce due a uno) e almeno ha timbrato il cartellino di un Mondiale così bello; cosa che invece non ha fatto Henrique, del Napoli, ragazzo che ha vissuto un pezzo di carriera in modo assai strano: credeva di essere arrivato al Barcellona nel 2008 firmando un contratto da cinque anni ma il giorno dopo l'accordo è andato al Bayern Leverkusen e poi per altri due anni al Racing Santander prima di finire al Palmeiras. A Napoli è arrivato a gennaio, non è passato alla storia (però si è guadagnato il posto) ma era titolare nella finale di Coppa Italia vinta. Però ha capito—dicendolo a Fox Sports Brasile—di sentirsi a casa: «dal primo momento in cui sono arrivato sembrava di essere ancora in Brasile, tante cose di Napoli sono simili alla mia nazione».
MARIO YEPES E I COLOMBIANI
Sì, nel Brasile padrone di casa e così fortunato da poter diventare favorito non c'è molto da tifare per chi segue i club italiani. Pare persino più rappresentativa la Colombia. Qui c'è Mario Yepes che fa il capitano, ad esempio. E lo fa sul serio, perché suo è il discorso diventato virale in cui dice ai suoi compagni: «Oggi abbiamo una grande responsabilità verso tutta la gente che è qui e quella che è a casa, verso la nostra famiglia e verso il Paese intero. Però, la responsabilità più importante è con noi stessi, fratelli. Dobbiamo far vedere per quale maledetto motivo siamo qui, se ci siamo davvero oppure no! Abbiamo una partita per dimostrarlo, mettiamoci dentro tutto questo per fargli sentire che non riusciranno mai a batterci! Mettiamocela tutta!».
Molti dicono sia qualche minuto prima dell'Ottavo di finale con l'Uruguay, forse però è di una gara di qualificazione, oppure della partita d'esordio ai Mondiali, comunque sembra una cosa un po' alla Al Pacino e dice molto di un trentottenne che non se la prende con i giovani ma invece scuote tutta la squadra, chiamando “fratelli” quelli che giocano con lui, e che ora sono per la prima volta nella loro storia ai Quarti. Yepes in Italia gioca con l'Atalanta, ma è arrivato dal Chievo ed è passato in modo non felicissimo dal Milan. Il giovanissimo attaccante diventato prima giovane terzino e poi affermato difensore centrale nel Cortuluá è iscritto all'aneddotica del nostro campionato anche per avere affrontato con sarcasmo Giovinco mentre lo juventino provocava: «Tranquillo, non picchio i bambini», disse stroncando le velleità rissose del piccolo bianconero.
Yepes ok, capitano dei Cafeteros che hanno in squadra il fenomeno di questo Mondiale, James Rodríguez. Che però per segnare ha bisogno pure di Juan Cuadrado, nell'ultimo campionato alla Fiorentina e nell'ultima partita del Mondiale autore di un sponda volante bella almeno quanto l'esecuzione di Rodríguez sul secondo gol. Cuadrado, passato da quel serbatoio di campioni poco noti che è l'Udinese, dal 2012 è “Vespa” per un'invenzione di Luca Toni dopo una partita con la Juve, ma è soprattutto un ragazzo che ha visto morire il padre, camionista, in una sparatoria quando lui aveva solo cinque anni, che ha portato la madre in Italia con sé e che se gioca lo deve a uno dei pochi allenatori che non gli ha detto che era troppo piccolo per il pallone: Santiago Escobar, il fratello di Andrés, difensore della Colombia ucciso nel '94 perché colpevole dell'autogol nella partita contro gli Usa.
Yepes, Cuadrado. E poi Zuniga, che pure quest'anno era al Napoli (il quinto campionato) ma non troppo, perché un problema al ginocchio gli ha fatto saltare gran parte di una stagione peraltro finita con un furto di Rolex. Due partite da titolare anche per Victor Ibarbo, che il Cagliari ha avuto l'intuizione di prendere e ora potrebbe vedere diventare una piccola miniera d'oro. Uno che da piccolo sognava di fare il calciatore e non aveva mai pensato a un'alternativa perché proprio quello voleva fare e che non è più il diamante grezzo che raccontò Cellino quando lo vide la prima volta. Potrebbe anche finire alla Juve, dopo aver segnato ai bianconeri un gol che lo ha fatto sembrare Weah e anche dopo aver speso delle energie per smentire una notizia che, partita dalla rete, si è comunque diffusa e lì è rimasta: infatti ora in fondo alla prima pagina di Google, una volta digitato il nome del calciatore, c'è tra i suggerimenti “Ibarbo pene”. E no, non sono le sue sofferenze l'argomento. Peraltro, il ragazzo si è pure sposato e ha una figlia, che però non ha avuto almeno giovanissimo come nel caso di Fredy Guarín, interista della Colombia diventato padre a diciannove anni. Il suo, di papà (di nome pure Fredy), ha speso molte sue energie per tenerlo lontano da tentazioni malavitose, lui è il giocatore che ha fatto saltare mezza Inter a gennaio, quando stava per andare alla Juve in cambio di Vucinic e che poi ha messo tutti d'accordo nell'insultarlo dopo l'errore clamoroso contro il Livorno a fine marzo.
DE JONG CHE SALUTA E LA COSTA RICA CHE FA SENZA
Ci sarebbe stato pure de Jong, nell'Olanda. Ma il milanista si è strappato all'altezza dell'inguine e quindi non giocherà prima di un mese. Ha annunciato l'infortunio e il suo essere devastato con un tweet ma poco dopo ha fatto sapere di voler restare con la squadra «perché siamo venuti qui con una missione, e continueremo a comportarci così». Lui e gli infortuni sono peraltro un contatto ricorrente, visto che già nel 2006 saltò il Mondiale per un infortunio ed ha pure una brutta fama per aver procurato la frattura di tibia e perone a Ben Arfa in City-Newcastle dell'ottobre 2010, dopo aver fratturato una gamba anche a Stuart Holden in Olanda-Usa del marzo dello stesso anno liquidando tutto con «certi contrasti sono parte del calcio». Ha anche colpito con un calcio volante al petto Xabi Alonso durante la finale dei Mondiali con la Spagna, un gesto ormai icona. Solo la Costa Rica non ha tracce di campionato italiano in squadra.
ITALOARGENTINI
Esagera invece un po' l'Argentina. Ce ne sono sette e hanno messo tutti piede in campo, alcuni imprescindibili anche se mediaticamente sembra tutto Messi quel che luccica. Però non si può immaginare che i napolisti guardino con distacco una Nazionale in cui gioca Gonzalo Higuaín, che a parte la prima ha giocato sempre da titolare. Del Pipita è curioso il rapporto con il padre: sin dal soprannome, che è un El Pipa più piccolo, visto che papà Jorge era chiamato così quando giocava a pallone. Higuaín ha vissuto una vita multiforme: poteva essere francese, perché è nato a Brest e ha detto no a Domenech nel 2006, che a diciannove anni lo voleva in Nazionale, ma non ha nemmeno rinunciato al passaporto francese dunque facendo a meno delle giovanili dell'Argentina. Anche perché in Francia era nato per caso, nell'unico anno in cui il padre giocò fuori dalla sua terra. Maradona ha detto di Higuaín che è «un incrocio tra Crespo e Batistuta», il padre è così presente nella sua vita (lo accompagnava anche alla ricerca di talenti per conto di Passarella) da essere lui a smentire cessioni, come nel caso delle ultime richieste del Barcellona e della frase perentoria di Jorge: «A Napoli sta da dio».
Il legame è anche agganciato all'infanzia, a un bimbo che a dieci mesi scopre una meningite fulminante, presa in tempo e curata con ossessione con una pillola al giorno, dopo venti giorni in ospedale e la speranza di farcela, che non sempre è ripagata. Dissero i medici che aveva il cinque per cento di possibilità di farcela, il quarantacinque di restare con problemi mentali e il resto potete immaginarlo, e se non fosse stato per la corsa della mamma per strada, visto che l'ambulanza non arrivava, sarebbe andata proprio così. Cioè male. Invece bene. E non sarà dunque uno scoglio ad arginarlo, per dirla con Battisti e anche con gli otto punti di sutura rimediati ad agosto, per un tuffo sbagliato nel mare di Capri. L'altro che c'è sempre stato è Lucas Biglia, uno che quando giocava male nell'ultimo campionato con la Lazio il mio amico lazialissimo mi diceva, turbato: «Ma com'è possibile? Quello è titolare nell'Argentina». Titolare non proprio, ma quasi. Ma nemmeno per Biglia è stata facile, visto che quando sei anni fa morì il padre non riuscì ad assorbire facilmente il colpo, scivolando nel buco nero della depressione: l'Anderlecht mandò questo ragazzo con gli avi fiorentini in Argentina perché si curasse con uno psicologo di fiducia: «Avevo dimenticato che, oltre al calcio, esisteva anche la vita personale: mia moglie Veronica e mia figlia Allegra. Non dormivo più ma, nonostante tutto, non volevo assumere medicinali». Ne è uscito, e adesso quando sbaglia partita fa cascare dalla sedia il mio amico lazialissimo.
Sempre del Napoli è Federico Fernández, un altro con passaporto anche italiano perché un trisavolo di queste parti c'è sempre e infatti il suo è di Lacedonia, pezzo di Irpinia noto soprattutto perché c'è un'indicazione in autostrada che ti fa domandare «chissà dov'è Lacedonia...» e che però Fernández ha visitato il 23 novembre 2011 nel giorno del ricordo del terremoto dell'80 con il vice-allenatore argentino Claudio Cugnali, passando anche per gli uffici dell'anagrafe per diventare concretamente un lacedoniese residente all'estero.
Poi, arrivano gli interisti, che un grande argentino come Zanetti lo hanno appena portato dietro la scrivania e ora hanno, nell'Albiceleste, Palacio, Álvarez e Campagnaro. Rodrigo Palacio certo fa l'attaccante e segna anche con regolarità, ma persino quando è stato chiamato a fare il portiere (in Inter-Verona, nel 2012) è riuscito a essere all'altezza. Inter anche Campagnaro, che però prima ha scorrazzato tra Piacenza, Genova (sponda Sampdoria) e Napoli, anche se scorrazzato forse non è elegante per chi nel 2011 a Cordoba ha rischiato grosso con un incidente da cui, invece, non sono uscite vive tre persone (omicidio colposo plurimo e libertà su cauzione). Stessi colori, nel club oltre che nella Nazionale, per Ricardo Álvarez oppure Ricky Maravilla se si preferisce, ragazzo che deve finire di farsi e che, tanto per cambiare, ha passaporto italiano. Non lo ha, invece, Mariano Andújar, portiere che giocherà nel Napoli e ha giocato nel Catania: in Nazionale è schiacciato dalla concorrenza, nello scorso campionato ha provato a schiacciare Barreto nel derby con il Palermo finito a cazzotti.
L'UOMO DEI RECORD E L'UOMO DEL FUTURO
Hanno avuto un motivo per sorridere i tifosi della Lazio nel giorno della partita della Germania con il Ghana: perché Miro Klose non solo ha segnato, ma ha raggiunto Ronaldo come calciatore più prolifico della storia dei Mondiali (15 gol). Ma Klose è eterno, oltre che esempio. Di professionismo, ma pare naturale se cresci in una famiglia in cui papà è calciatore e mamma portiere della Nazionale di pallamano. Polacca, perché quelle sono le origini dell'intera famiglia (pure le sue) anche se non è quella la maglia che indossa in Brasile. Per la sua, di maglia, ha rischiato pure di farsi male esultando, con una caduta buffa subito dopo aver segnato, fatto pareggiare, raggiunto il record, evitato la figuraccia. Klose è un tedesco con passaporto polacco e invece Shkodran Mustafi è di origini albanesi, ma sempre della Germania e in Italia della Sampdoria. Sfortunato, perché per una lesione al muscolo rimediata nell'ultima partita brasiliana dovrà guardare quel che sarà dei tedeschi in poltrona, senza giocare più. Poi c'è nel Belgio Dries Mertens, che Benítez ha voluto al Napoli quasi contro tutti (e, non valga come opposizione, non posso non pensare a Eziolino Capuano che in tv tuonò: «Non giocherà più di otto partite da titolare»), quasi anche contro Bigon che invece voleva prendere sempre dal Psv Kevin Strootman e ora così decisivo e così napoletano da parlare a Ciro Esposito, con un tweet, per salutarlo quando il tifoso napoletano ferito nella finale di Coppa Italia (in cui Mertens ha segnato), si è arreso.
Infine Pogba, che se Klose è il recordman e dunque un pezzo di passato, può rappresentare il calciatore del futuro. Non è certo da raccontare, il Polpo, uno che ormai segna anche da dietro la porta e di cui si è detto e scritto quasi tutto. Serve solo come sponda, perché con l'Italia fuori da un pezzo le rivalità e le ironie (non che prima mancassero) sono tornate più forti. E quando negli Ottavi ha segnato Pogba per la Francia, gli juventini si sono esaltati, gli altri hanno giocato sul prezzo per sminuire il campione (tipo «ora diranno che vale 110 milioni di euro»). È la prova che gli stranieri d'Italia che stanno giocando il loro Mondiale sono un elemento di attrazione. Che l'Italia che resta, in fondo, è un altro modo per tifare.