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Ancora campionesse del mondo
22 set 2025
L'Italia si è confermata campione della Billie Jean King Cup.
(articolo)
9 min
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Jasmine Paolini, Elisabetta Cocciaretto, Sara Errani, Lucia Bronzetti, Tyra Grant (l’unica faccia nuova rispetto a quelle di trecento giorni fa), Tathiana Garbin. Ancora loro, sempre loro. In festa nel campo azzurro, come le giacchette che indossano e che Billie Jean King ha aiutato a infilare, sopra le felpe bianche dell’Italia. Un gesto di amore e servizio, quello dell’icona che dà il nome alla competizione, verso le atlete che portano avanti il progetto che lei e le altre hanno costruito oltre cinquant’anni fa. Progetto che ha reso il tennis lo sport femminile più importante, più pagato e più seguito al mondo.

Con le giacchette azzurre sopra le felpe, Billie Jean King e la Billie Jean King Cup ci eravamo lasciate un mercoledì di novembre 2024, in un piccolo stadio temporaneo eretto a Malaga per l’occasione. Non molto lontano, in un palazzetto che ha un nome, si giocava la Coppa Davis – anche quella vinta dall’Italia quattro giorni dopo, di domenica. Le nostre avevano trionfato contro la Slovacchia di Rebecca Šramková, e conquistato la quinta e insperata BJK cup.

«Questo sarebbe proprio il momento giusto per lasciare perché più di così non so cosa desiderare», aveva dichiarato Tathiana Garbin ai microfoni di SuperTennis, coperta dalle proteste delle giocatrici. Garbin aveva assunto il ruolo di capitana della Nazionale nel 2017, nel mezzo di un ricambio generazionale brutale. Dal 2006 al 2013 le tenniste italiane avevano conquistato quattro vittorie in cinque finali. Nella nostra storia tennistica, non c’era mai stato niente del genere prima e sembrava che non ci sarebbe stato nemmeno in futuro. Nel 2017, a soli quattro anni dall’ultima vittoria di BJK cup, la squadra era scivolata in serie C e i sogni di gloria erano lontanissimi. Il futuro, che per noi si è già compiuto un anno fa, era inimmaginabile e soprattutto irripetibile.

“Vincere è difficile, ma confermarsi lo è molto di più”, è uno di quegli assunti che vanno molto di moda tra sportivi e allenatori. Una di quelle frasi talmente vere da essere diventata luogo comune, quindi banale. Vale la pena ripeterla in ogni caso: le imprese creano aspettative roboanti che è sano ridimensionare, anche perché non si può vincere sempre – secondo, importante e orrendo luogo comune. Vale altrettanto la pena ripeterla perché quando l’impresa riesce, è una testimonianza di grandezza incontrovertibile.

Quest’anno, come lo scorso e quello prima ancora, non partivano con i favori del pronostico. Da tempo si parla del fenomeno Italia nel mondo del tennis. Secondo un articolo dell’Athletic uscito a maggio in occasione degli Internazionali di Roma, “quando i leader della U.S. Tennis Association (USTA) si sono imbarcati nella riorganizzazione del suo sistema di sviluppo, hanno messo la Federazione Italiana Tennis sotto al microscopio per provare a capire gli ingredienti”. Il pezzo fa uno sforzo per parlare di ATP e WTA insieme come di un unico fenomeno. Cita i nove italiani nella top 100 ATP e le tre nella top 100 WTA. Nel 2015, quando era già finito da due anni il dominio in BJK cup, tre italiane erano in top 20 WTA (Flavia Pennetta, Roberta Vinci, Sara Errani), per altrettante statunitensi (Serena Williams, Venus Williams, Madison Keys). Oggi, le americane in top 20 sono cinque, quattro delle quali tra le migliori dieci. In tutti e quattro gli slam della stagione c’era un’americana in finale: Madison Keys, Coco Gauff, Amanda Anisimova (due volte).

Il nostro non è il movimento più profondo, né quello che ha il maggior numero di singole campionesse. Ci sono squadre più forti, almeno sulla carta, della nostra. Se a Malaga l’ostacolo più pericoloso era stato la Polonia di Iga Świątek in semifinale, a Shenzhen – forse complice anche il periodo e la location più comoda per i tornei in Asia orientale – le formazioni schierate erano molto più insidiose. Dei tre tie disputati, partivamo da favorite solo contro le cinesi orfane di Qinwen Zheng (ferma da qualche mese per un intervento al gomito), ma più abituate a fuso orario, condizioni di gioco e sostenute da migliaia di tifosi. Il 2-0 con cui si è concluso il tie dei quarti di finale non restituisce la misura della fatica di Cocciaretto e Paolini, costrette a rimonte rocambolesche che non lasciavano buone sensazioni per il futuro. Eppure, eccole ancora lì, con le giacchette azzurre sopra le felpe bianche e la coppa tra le mani, passando sopra l’Ucraina di Marta Kostyuk (28 al mondo) e Elina Svitolina (13 e imbattuta fino a quel momento contro Paolini) e poi proprio gli Stati Uniti, che non arrivavano con la migliore squadra possibile, ma quasi con Emma Navarro (18 del ranking), Jessica Pegula (7 e ottima doppista) e Taylor Townsend (numero 2 di doppio).

Posta così sembrerebbe che sia stata una questione di fortuna, o meglio di incroci di prestazioni ottime delle nostre e pessime delle loro. Ci sono però degli elementi che caratterizzano le italiane e nessun’altra squadra in gara quest’anno: il doppio di Errani e Paolini come arma psicologica che costringe le avversarie a dover vincere entrambi i singolari; Tathiana Garbin.

In questi otto anni da capitana, Garbin ha piantato un giardino che negli anni è diventato rigoglioso. Lei se ne prende cura, lo innaffia tutto l’anno, dai seggiolini nei box delle giocatrici, seduta in mezzo ad allenatori e fisioterapisti. Il suo ruolo non si ferma a quello di convocazione e schieramento – anche perché ci sono davvero pochi voli pindarici da fare: le tenniste italiane in top 100 sono tre e l’ordine di scontro nei singolari si basa rigidamente sul ranking WTA. Certo, ci possono essere cambiamenti di formazione: per esempio l’anno scorso si era rivelata vincente la scelta di schierare come prima singolarista Lucia Bronzetti, dopo un inizio teso di Elisabetta Cocciaretto che aveva perso contro la giapponese Ena Shibahara, numero 133 del ranking. Volendo si potrebbe cambiare anche la formazione di doppio fino all’ultimo momento, però sarebbe sacrilego a meno di grossi infortuni. Il lavoro di capitana sembra davvero il più facile del mondo. Potrebbe anche esserlo, ma non è l’approccio che ha scelto Garbin. Le conosce da anni, spesso da quando sono ragazzine, come Jasmine Paolini, che era stata invitata dalla futura capitana a Cagliari nel 2013 a vedere l’ultima vittoria della vecchia generazione, l’unica in casa. Paolini aveva diciassette anni come Tyra Grant oggi, convocata per familiarizzare con l’atmosfera unica della squadra. Garbin è una consigliera, un’ultras, una leader, una colla. Ogni cambio campo si accuccia davanti a loro per consigliarle. Chiama il pubblico ad applaudire i punti più belli o importanti. È talmente coinvolta emotivamente e fisicamente nel processo che quando la telecamera la inquadra, spesso la si può vedere ingurgitare gli integratori delle giocatrici. Dopo l’impresa di ieri ha detto ai microfoni di SuperTennis, rivolta verso la telecamera: «Le ragazze stanno scrivendo la storia, stanno facendo imprese straordinarie. Quando giocano con la maglia della Nazionale riescono a reclutare energie che magari non hanno in altri tornei. Sono molto orgogliosa di loro e di quel che fanno: non mancano mai a una chiamata, sono sempre presenti e quando non giocano tifano per chi è in campo». Poi, si è girata verso di loro: «Sono orgogliosa della squadra che siete e di quello che state facendo».

E infatti rispondono sempre, sono sempre le stesse, a prescindere dagli altri impegni. A partire da Elisabetta Cocciaretto, l’eroina della finale grazie alla vittoria incredibile su Emma Navarro, suggellata con il match point più bello forse della stagione. Una partita in cui Cocciaretto si è sempre imposta, trovando colpi che le sono mancati praticamente tutto l’anno, che l’ha vista scivolare alla 91esima posizione del ranking, la peggiore dal 2021. Un’impresa trovata dopo aver faticato contro Yuan nei quarti di finale e dopo la sconfitta senza storia contro Marta Kostyuk in semifinale. Ora Cocciaretto è già a Pechino – a oltre duemila chilometri da Shenzhen – dove ha vinto il primo match di qualificazione per il China Open.

Poi Jasmine Paolini, che era nella stagione della riconferma a sua volta. Le sue spalle appesantite da aspettative altissime di una che deve sempre dimostrare di meritare il successo e la posizione in classifica. Una stagione di alti e bassi, infinite contestazioni sul cambio di allenatore, sul ruolo di Errani, sulla carriera in doppio. Carriera che torna utile una volta l’anno (al massimo due se si tratta di un anno olimpico) e poi torna ad essere un ostacolo per lo spettatore medio, perché si sa che non conta niente il doppio. Non importa quanti slam vincano lei e Errani, né che il suo miglioramento in singolare sia coinciso anche con la partnership con Sara, che vede il gioco come quasi nessuna. Io sono nella posizione privilegiata di aver scritto solo cose positive di Paolini, perché ne ho sempre parlato quando ha conquistato qualcosa di incredibile, il che è successo più volte di quelle che chiunque si sarebbe aspettato. Da due anni ormai frantuma senza sosta nuovi vecchi ostacoli. Durante queste BJK Cup finals due nuovi: la prima vittoria contro Elina Svitolina per la sopravvivenza in semifinale – ottenuta tra l’altro recuperando set e break, risolvendo un blocco psicologico nei confronti dell’ucraina che l’aveva sconfitta quest’anno all'Australian Open e Roland Garros; la prima vittoria contro Jessica Pegula – l’americana aveva dominato tutti e cinque i precedenti, che risalivano però a prima che Paolini diventasse quello che è oggi.

E Sara Errani, che è scesa in campo soltanto in semifinale contro le ucraine, ed è stata dal primo all’ultimo punto la migliore in campo. Il resto del tempo è stata una presenza sinistra per tutte le singolariste, obbligate alla vittoria. Che a trentotto anni ha vinto la sua quinta BJK Cup (su sei totali dell’Italia) e sta pensando di smettere «ma come faccio a smettere se si continua a vincere?». La più esperta, con il record di tie disputati, ben ventotto. Alla domanda se avessero mai avuto paura di non riconfermarsi, ha risposto: «No paura no, solo voglia di entrare in campo e cercare di dare il massimo. La cosa buona che abbiamo è che mentalmente cerchiamo sempre di andare un passettino alla volta, non ci facciamo troppi sogni. Un po’ alla volta partita dopo partita». Insieme.

Mentre aiuta le nuove bis-campionesse con le loro giacchette azzurre, Billie Jean King – sopra il completo nero da insegnante di ginnastica a una cena di gala – indossa anche lei una felpa bianca dell’Italia, donata da Garbin. La capitana ha aiutato per prima Billie Jean King, con lo stesso gesto di amore e servizio, nei confronti di chi ha iniziato e continua a sponsorizzare il progetto che ha portato il tennis a essere lo sport femminile più importante, più pagato e più seguito al mondo. Le giocatrici sollevano in alto il trofeo di una competizione voluta nel 1919 e ottenuta solo nel 1963. Dal 2020, ha cambiato nome diventando il primo torneo internazionale intitolato a una donna. Un trofeo che rappresenta la fatica, la lentezza, la collettività, l’inesorabile successo della lotta femminile. E Jasmine Paolini, Elisabetta Cocciaretto, Sara Errani, Lucia Bronzetti, Tyra Grant, Tathiana Garbin sono le migliori ambasciatrici che poteva avere, almeno quest’anno.

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