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L'Italia dell'atletica ha un grande futuro
12 ago 2024
Sono arrivate meno medaglie del previsto ma i segnali sono incoraggianti.
(articolo)
23 min
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IMAGO / Xinhua
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L’Italia dell’atletica era arrivata a Parigi convinta di avere la Nazionale più forte di tutti i tempi e di poter prendere più medaglie che a Tokyo, senza bisogno di puntare ai cinque ori di tre anni fa. Si è limitata a tre podi, ma ha avuto la conferma che sì, una squadra come questa non c’è mai stata almeno negli ultimi quarant’anni.

È stata un’Olimpiade agrodolce e paradossale. Agrodolce per le tante medaglie sfumate, alcune per le casualità più assurde e altre per distanze minime dal podio. Paradossale perché nonostante tutto il risultato di squadra è stato superiore a quello di Tokyo.

Nel 2021 gli astri si allinearono per portare agli azzurri un pokerissimo di vittorie che rappresenta una delle più grandi sorprese nella storia dello sport italiano. Stavolta è andata all’opposto: covid, coliche renali, bottigliette pestate in gara mesi fa hanno azzoppato gran parte degli eroi del Giappone. I cinque ori sono diventati cinque quarti posti, le medaglie sono state tre: un argento e due bronzi. Stefano Mei, presidente della federazione italiana di atletica leggera (FIDAL), aveva detto di aspettarsene tra le sei e le otto.

Tutti gli addetti pronosticavano almeno 5-6 podi. La rivista americana Track and Field, che tre anni fa prevedeva zero medaglie per gli azzurri, stavolta se ne aspettava cinque: due secondi e tre terzi posti. La Gazzetta dello Sport aveva puntato su sei medaglie: un oro, tre argenti, due bronzi. Oasport ne auspicava cinque: una vittoria e quattro piazze d’onore.

È il paradosso di questa spedizione azzurra. Le medaglie sono state pochissime e nessuno degli ori di Parigi è andato a podio, eppure l’Italia ha scoperto di essere la sesta potenza mondiale dell’atletica. Lo ha rivendicato il direttore tecnico, Antonio La Torre, ieri in conferenza stampa e ha ragione. Il medagliere conta poco per valutare il rendimento di una squadra: facile dirlo dopo, è vero, ma qui lo si scriveva anche prima. Per capire quanto è in salute un movimento è meglio affidarsi alla cosiddetta placing table, una tabella che mette insieme tutti i risultati dal primo all’ottavo posto e che assegna a ciascuno un punteggio a scalare: otto punti per la vittoria, uno per l’ottava piazza.

Quest’anno l’Italia ha ottenuto 17 piazzamenti nelle prime otto posizioni, il miglior dato degli ultimi quarant’anni. È vero, a Los Angeles furono venti, ma all’epoca la competizione non era quella attuale e il boicottaggio dei Paesi dell’est era più vasto rispetto all'attuale esclusione di fatto di Russia e Bielorussia. A Parigi gli azzurri hanno superato la somma dei piazzamenti ottenuti a Tokyo e Rio de Janeiro.

La placing table ha assegnato all’Italia 65 punti, 15 in più di Tokyo, guadagnando sei posizioni: è sesta dietro a Stati Uniti, Kenya, Gran Bretagna, Etiopia e Giamaica. Anche l’Olanda ha fatto 65 punti, ma poteva contare su due fuoriclasse totali come Femke Bol e Sifan Hassan, ciascuna capace di coprire tre competizioni e soprattutto di andare a medaglia in ognuna. Bol ha fatto la differenza fra due piazzamenti e due medaglie pesanti nelle 4x400 (donne e mista) ed è stata terza nei suoi 400 ostacoli. Ha portato 21 punti ai Paesi Bassi, che senza di lei ne avrebbero ottenuti forse la metà. Hassan ha coperto 5.000, 10.000 e maratona, arrivando due volte terza prima dell’indimenticabile volata nella gara regina: ha fatto venti punti da sola.

L’Italia non ha atleti così. Ha un solo talento generazionale, Mattia Furlani, che però copre solo una gara, almeno per ora. La maggior parte dei suoi atleti sono capaci di destreggiarsi su due discipline, mentre l’unico che ha gareggiato tre volte, Luca Sito (400 e le due 4x400), non poteva realisticamente competere in quanto a piazzamenti con Bol e Hassan.

Il risultato di Parigi è stato il trionfo del collettivo, in dieci giorni in cui le punte sono state falcidiate da episodi assurdi dopo le congiunture favorevoli di tre anni fa. Ne è emersa una squadra che sa ricevere grandi prove da chiunque. Non solo: è venuta fuori una squadra che ha un futuro, come già si sperava dopo Tokyo. Prima di Rio de Janeiro la squalifica di Alex Schwazer e l’infortunio di Gianmarco Tamberi condannarono l’Italia a un’Olimpiade disastrosa. Stavolta i due capitani, Tamberi e Antonella Palmisano, hanno visto le loro speranze distrutte rispettivamente dalle coliche e dal covid. Al loro posto sono emersi Furlani col bronzo nel salto in lungo e Nadia Battocletti con una volata da antologia. Tamberi e Palmisano sono due fuoriclasse e hanno più di trent’anni, Furlani e Battocletti ne hanno 19 e 24. Sarebbe stato peggio per il movimento avere due ori dai primi e prestazioni anonime dai secondi.

Forse l’immagine-simbolo di queste Olimpiadi è proprio quella della giovane trentina dopo l’arrivo dei 10.000 metri: l’urlo in mezzo alla pista, mentre zoppica col tape sciolto e penzolante sotto una scarpa e qualche ferita da chiodata sulle gambe. L’atletica italiana ha regalato ricordi molto peggiori di questo, soprattutto negli ultimi quindici anni.

Poi le prestazioni inferiori alle aspettative ci sono state, l’atletica è fatta così e se si convocano 77 atleti non si può pensare vada tutto bene. Delusioni e sorprese ci sono sempre, ma nel suo insieme la spedizione azzurra ha raggiunto una solidità mai vista. E tanti dei suoi protagonisti hanno età e prospettive per poter dire la loro anche tra quattro e tra otto anni.

Di seguito un riassunto di quello che abbiamo visto in ogni settore. Non appartiene a un singolo ambito Sveva Gerevini, impegnata nell'eptathlon. Nelle prove multiple l'Italia non ha una tradizione e per questo il suo risultato vale molto più del tredicesimo posto in classifica.

Velocità: tra conferme e futuro

Tre anni dopo il doppio miracolo di Marcell Jacobs e della 4x100, non sono arrivate medaglie dalla velocità. Fare paragoni con Tokyo però è sbagliato. Jacobs, dopo la sorpresa del primo agosto 2021, si è confermato finalista nei 100 metri ed è arrivato quinto. Vincere una medaglia d’oro vuol dire aver vissuto un’estate magica, correre due finali olimpiche significa essere uno dei migliori sprinter della propria generazione. Ha chiuso in 9”85, cinque centesimi peggio di tre anni fa. Non era mai successo nella storia che con un tempo del genere si arrivasse quinti e, tolto il 2012, Jacobs sarebbe andato a podio in qualunque altra edizione delle Olimpiadi.

Un discorso simile si può fare per la 4x100. Tokyo fu il culmine di una settimana folle, Parigi ribadisce la presenza dell’Italia nell’élite mondiale. È arrivata una quarta piazza, a sette centesimi dal podio. Il tempo, 37”68, è peggiore di 18 centesimi rispetto al 2021, ma è il più veloce mai corso da una staffetta in seconda corsia, secondo Queenatletica. Solo nel 2016 un crono del genere non sarebbe stato sufficiente per il podio. Di fronte a questi dati, discutere se il quartetto messo in campo per la finale fosse quello giusto lascia il tempo che trova. Molti si sono chiesti perché Chituru Ali, che quest’anno è sceso fino a 9”96, non abbia corso in prima frazione al posto di Matteo Melluzzo o, ancora meglio, in quarta rilevando Filippo Tortu, che stavolta ha subito la rimonta di Canada e Sudafrica e in generale sembra lontano dai suoi giorni migliori.

La staffetta però non è una somma di tempi. Basta chiederlo agli Stati Uniti, che nella 4x100 non vincono le Olimpiadi dal 2000 e sono saliti nel podio l’ultima volta nel 2004, quando vinse la Gran Bretagna. Dopo hanno collezionato solo eliminazioni in batteria, squalifiche per passaggi di testimone sbagliati e una squalifica per doping (2012).

Questo dovrebbe farci vedere le prestazioni della staffetta veloce sotto un’altra luce. L’Italia in due edizioni ha fatto meglio di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti nelle ultime sei. In questo quadriennio ha ottenuto un oro olimpico, un argento mondiale (2023), un oro europeo quest’anno e un quarto posto a Parigi. Tralasciando i Mondiali di staffetta che fanno storia a sé e vivono dinamiche singolari, gli unici passaggi a vuoto sono stati nel 2022, quando ai Mondiali (quelli veri) Jacobs fu sostituito da Ali e agli Europei sia il campione olimpico dei 100 sia Tortu rimasero in panchina in batteria con risultati nefasti. La 4x100 è quello sport in cui, se su sei gare vai tre volte a podio, una volta lo sfiori e due volte esci, vuol dire che stai andando bene.

I cambi vanno provati e Ali quest’anno non ha partecipato ai raduni delle staffette per ottimizzare la preparazione individuale. Non è detto che, le poche volte che li ha provati, siano arrivate indicazioni positive. La pista era bagnata e lui ha una struttura fisica molto imponente, non si sa se correndo in curva in seconda corsia avrebbe fatto meglio di Melluzzo. E nemmeno se fosse stato al posto di Tortu, tutto sommato. Se lui e Lorenzo Patta avessero sbagliato il cambio, le polemiche per aver lasciato in panchina un campione olimpico, vicecampione mondiale e campione europeo sarebbero state molte di più.

Poi la squadra è lunga e in prospettiva è inevitabile considerare quartetti diversi da quelli già rodati. Qualche perplessità ha destato l’utilizzo in batteria di Fausto Desalu per coprire la terza frazione: vero che era in condizioni straordinarie, ma aveva corso i 200 la sera prima (come Tortu, impegnato in quarta) e Patta in terza frazione è ormai una certezza. Se si fosse fatto meglio in batteria, si sarebbe evitata la seconda corsia.

In ogni caso per il futuro è improbabile che non si pensi all’inserimento di Ali, sapendo che a disposizione ci sono pedine importanti come Roberto Rigali e l’ostacolista Lorenzo Simonelli. Il giro della staffetta ormai è enorme e la dice lunga sulla qualità attuale della velocità italiana.

Mentre non si può chiedere a Diego Aldo Pettorossi di fare meglio di quanto ha fatto, visto che è l’unico non professionista della squadra, chi non ha brillato a Parigi è stato Tortu. Anche i Giochi di tre anni fa erano andati male a livello individuale, ma stavolta non c’è stata la staffetta a ribaltare la situazione. L’atleta visto a Parigi, ma anche agli Europei di Roma, è lontano da quello della prima parte di carriera. Tra il 2015 e il 2019 Tortu ha demolito una raffica di primati nazionali giovanili, è stato il primo azzurro sotto i dieci secondi ed è approdato a una finale mondiale dei 100 metri. È successo prima dell’arrivo di Jacobs, quando pareva impossibile. Qualcosa, però, sembra essersi rotto e da allora quel Tortu si è visto solo in alcune frazioni della staffetta e in qualche 200 corso bene. Ha 26 anni e una carriera che può ancora dargli tanto, ma l’impressione da fuori è che debba prendere delle decisioni drastiche sul suo futuro.

Le azzurre della velocità sono andate peggio delle previsioni e ne è un simbolo la 4x100, che in questi anni ha fatto passi da gigante fino al quarto posto dei Mondiali di Budapest 2023. Zaynab Dosso, Dalia Kaddari, Irene Siragusa e Arianna De Masi sono finite lontane dalle loro migliori prestazioni e hanno mancato l’entrata in finale. Kaddari e Anna Bongiorni non hanno fatto dei bei 200, così come Dosso, dopo essersi spinta fino a 11”01 nei 100 nei mesi scorsi, a Parigi è apparsa lontana da quanto fatto vedere nella prima parte di stagione.

Anche la 4x400 femminile è rimasta fuori dalla finale, mentre quella maschile è stata ripescata grazie a una squalifica e nell’ultimo atto è scesa a 2’59”72: un tempo di buon valore, che testimonia una buona salute dei 400 in Italia. Davide Re è lontano dai suoi giorni migliori e a Parigi ha corso reduce da un infortunio. Ma è emerso Luca Sito, che a 21 anni ha già portato il record italiano a 44”75 e si è molto ben comportato a livello individuale, uscendo a testa alta in semifinale. Tra 4x400 mista (buona sesta in finale), staffetta maschile e gara individuale ha corso ad alto livello sei volte in nove giorni: ha buoni margini.

Ostacoli: rimpianto Simonelli

Gli ostacoli, maschili e femminili, sono andati peggio delle aspettative. La punta di diamante era Lorenzo Simonelli, argento mondiale indoor nei 60 ostacoli di Glasgow e oro europeo a Roma nei 110 ostacoli. Stavolta il cappello di Luffy è rimasto nel villaggio olimpico: la corsa di Simonelli verso la finale mondiale si è interrotta contro il nono ostacolo. Ha perso un’occasione, lo sa lui per primo e si capiva bene dalla sua reazione dopo la gara. Simonelli ha 22 anni ed è uno dei migliori ostacolisti al mondo, il suo personale di 13”05 la dice lunga sulle sue qualità. Se in finale avesse replicato quel tempo (ed è un grosso se) sarebbe stato d’argento. Tolti Tamberi, Palmisano e Fabbri è stato la più grossa speranza di medaglia sfumata. Dopodiché sbattere contro un ostacolo può succedere, è capitato ad atleti forti quanto e più di lui. Il tempo per prendersi tutte le rivincite del caso non manca.

Dietro di lui non ha brillato, fin dalle batterie dei 400 ostacoli, Alessandro Sibilio: il primatista italiano è finito lontano dalle posizioni che contano in semifinale ed è apparso lontano dalle migliori condizioni anche in staffetta. Sibilio è un grande talento, purtroppo piagato dagli infortuni. Quest’anno ha brillato in occasione degli europei, secondo in 47”50 (record nazionale), ma poi a Parigi è apparso lontano dalle sue migliori condizioni. Anche le ostacoliste sono rimaste in ombra, a partire da Ayomide Folorunso che per tutto l’anno è rimasta lontana dai vertici raggiunti l’anno scorso. È comunque approdata in semifinale.

La primavera del mezzofondo

Quando gareggia Nadia Battocletti a Cavareno, paesino della Val di Non da un migliaio di abitanti che si trova una cinquantina di chilometri sopra Trento, mettono un maxischermo in piazza per seguirla. Lei ripaga i concittadini con prove arrembanti, che a volte vanno bene e altre male. Andò molto bene a Tokyo, quando a ventuno anni arrivò settima nei 5.000 metri vinti da Hassan. Era l’indomani del doppio trionfo Jacobs-Tamberi, se ne accorsero in pochi, ma dietro all’olandese (etiope di nascita), alle etiopi e alle keniane c’era lei. È andata male l’anno scorso a Budapest, quando dopo una qualificazione da sogno si è spenta in finale proprio negli attimi precedenti lo strappo decisivo: è finita sedicesima e ultima, al piccolo trotto, ed è andata davanti alle telecamere Rai per scusarsi (di cosa, poi).

Battocletti è così anche in campestre: parte col gruppo di testa e lo tiene finché riesce, se le avversarie la portano alla volata ha i mezzi per chiudere bene. A volte scoppia. Corre i 5.000 e i 10.000 ma dice di ispirarsi a Hicham El Guerrouj, leggendario mezzofondista marocchino: un connazionale della madre, forte mezzofondista in gioventù. Lui era quasi imbattibile sui 1.500 e dopo due Olimpiadi stregate realizzò la doppietta 1.500-5.000 ad Atene 2004. All’epoca Battocletti aveva quattro anni, ora El Guerrouj ne ha cinquanta.

Quest’anno a Cavareno si sono divertiti parecchio e non solo lì. L’azzurra si era già fatta conoscere da un pubblico più ampio in occasione degli Europei di Roma di due mesi fa, quando ha fatto la doppietta 5.000-10.000 migliorando il record italiano su entrambe le distanze. Le Olimpiadi però sono un’altra cosa, ci sono le atlete migliori del mondo.

Battocletti è fortissima, ma i suoi primati personali sono lontani diverse decine di secondi dalle migliori del mondo sui 5.000 e di un paio di minuti sui 10.000. Chiaramente si tratta di dati falsati dal fatto che non ha mai corso una gara con l’obiettivo del record, ma una differenza c’è.

Lei però sa leggere la gara come poche e sa muoversi nel gruppo come quasi nessuna. Sia nei 5.000 sia nei 10.000 è rimasta coperta, in prima corsia, muovendosi per linee interne. Ha superato atlete trovando pertugi che vedeva solo lei, si è presa i suoi calci ma non ha ceduto la posizione e si è trovata, soprattutto nel secondo caso, nella posizione di lanciarsi in volata. Il suo terzo punto di forza è il cambio di ritmo, ha dei piedi incredibili. La notte dei 10.000 ha corso l’ultimo 400 in 57 secondi, pochissime al mondo hanno nelle gambe un giro del genere.

Le sue avversarie non l’hanno considerata nella corsa alle medaglie. Nei 5.000 sono partite piano e poi hanno via via aumentato il ritmo, senza però staccare l’azzurra fino all’ultimo giro. Battocletti è emersa dalla volata finale in quarta piazza, per qualche minuto terza vista la provvisoria squalifica della keniana Faith Kipyegon. Davanti a lei Beatrice Chebet (oro anche nei 10.000 di cui è primatista mondiale), la stessa Kipyegon (tre ori olimpici consecutivi nei 1.500) e Hassan (della cui forza e versatilità si è già detto). È arrivata a contatto col meglio del mondo.

I 10.000 poteva anche non correrli, visto il dolore a un tendine che l’ha costretta a un riposo quasi assoluto nei giorni precedenti. Ha deciso di concedersi una chance, è stata rimessa in piedi dal fisioterapista e si è presentata alla partenza. Le avversarie l’hanno premiata con una gara dal tatticismo esasperato, con veri e propri momenti di surplace. Probabilmente era l’unico modo di dare una chance da podio a Battocletti, che guadagnava quotazioni a ogni chilometro corso sopra i 3 minuti. Il gruppo è passato a 8 chilometri in 24’57”: erano in 13 per tre posti sul podio e Battocletti, a quel punto, non era una delle meno quotate.

Poi è partita l’accelerazione, ma non erano ritmi inaffrontabili per l’azzurra. Lei ha continuato a muoversi all’interno, facendosi rispettare da gente che in casa ha bacheche piene di medaglie e record. All’ultimo giro lo strappo decisivo. È partita Margaret Kipkemboi, proprio la keniana che Battocletti aveva battezzato. In questo modo le ha liberato la strada davanti e lei le è rimasta incollata. All’uscita dell’ultima curva l’ha affiancata e superata, infilandosi in un francobollo tra Chebet, Kipkemboi e Hassan alle sue spalle. Se l’è giocata per la vittoria. Prima è arrivata Chebet, soprannominata "l'assassina sorridente", prodotto della mitica Rift Valley keniana. Seconda Nadia Battocletti dalla Val di Non. Per questi Giochi va bene così. Torna a casa sapendo che in volata è una delle migliori al mondo. Il problema è che ora lo sanno anche le sue avversarie. Da capire quali siano i suoi margini di miglioramento: sicuramente sui 5.000 vale un tempo migliore del 14’31”64 fatto a Parigi, che è record italiano. E il 30’43”35 sulla distanza doppia non si avvicina neanche lontanamente al suo livello. Qualcosa di più, forse, si capirà l’anno prossimo. Adesso c’è da godersi la medaglia.

Battocletti è il simbolo di un settore rinato dopo anni di oblio. Le basi le aveva gettate Yeman Crippa, che aveva fatto vedere belle cose sui 5.000 e i 10.000 prima di darsi alla maratona. Ora gli azzurri forti sono diversi. Nei 1.500 uomini Pietro Arese è arrivato ottavo in una delle finali più veloci di tutti i tempi, fermando il cronometro a 3’30”74: ha migliorato il suo stesso record italiano di oltre un secondo. È la seconda volta in due mesi che abbassa il limite nazionale, sostituendo in cima alla graduatoria Gennaro Di Napoli, primatista italiano dal 1990. Non sono approdati alla finale ma sono andati fortissimo anche Federico Riva e Ossama Meslek, entrambi al personale rispettivamente in 3’32”84 (nei ripescaggi) e in 3’32”77 (in semifinale).

Fortissimo è andata anche, tra le donne, la ventottenne Sintayehu Vissa, che in semifinale ha corso in 3’58”11. Non le è bastato a entrare in finale, ma ha battuto il record italiano di Gabriella Dorio che resisteva da quarant’anni. Anche Ludovica Cavalli si è arenata in semifinale, dopo essere apparsa meno brillante rispetto ai Mondiali di un anno fa, ma resta un prospetto di grande valore e ha 23 anni.

Negli 800 metri Catalin Tecuceanu ha confermato la crescita fatta vedere nella prima parte di quest’anno e culminata nel bronzo degli Europei: ha mancato di cinque centesimi la qualificazione alla finale, dimostrando che sta crescendo non solo nel motore ma anche dal punto di vista della tattica. Simone Barontini ha fatto la sua miglior gara nel turno di ripescaggio, in semifinale non ne aveva più. Né Elena Bellò né Eloisa Coiro sono riuscite ad approdare in semifinale, ma in batteria hanno corso entrambe sotto i due minuti. Coiro ha anche migliorato il personale, in 1’59”19.

Completano il parco del mezzofondo la talentuosa e sfortunata Federica Del Buono (1.500 e 5.000) e i siepisti Yassin Bouih e Ossama Zoghlami (3.000 siepi), apparsi non al meglio della condizione. Le uniche gare scoperte sono quelle che soffrono il passaggio di Crippa alle distanze più lunghe: nei 5.000 e nei 10.000 maschili non c’era nessuno.

Lanci: Fabbri stecca

Dopo Tamberi, Leonardo Fabbri era uno degli azzurri più accreditati di una medaglia. È arrivato quinto con la peggior gara dell’anno. Per lui è un peccato, per il movimento dell’atletica italiana resta la consapevolezza di avere un lanciatore del peso che, quando va male, è quinto al mondo. La FIDAL, la sua struttura e i suoi tecnici devono preoccuparsi di favorire la crescita degli atleti e di permettere alle punte di arrivare a giocarsi il podio. Se poi questi arrivano primi, terzi o quinti è un problema tendenzialmente loro, dipende da quanto sono stati bravi e fortunati. Fabbri è stato così così sotto entrambi gli aspetti, ha fatto un solo bel lancio ma nullo. La pioggia ha sfavorito lui come gli altri. Resta uno dell’élite mondiale.

Tre anni fa fu eliminato in qualificazione, andò davanti alle telecamere della Rai e disse che a Parigi, dopo il terzo lancio, il primo sarebbe stato lui. E in effetti al terzo lancio, dopo aver sfiorato l’eliminazione, ha fatto la misura più lunga di tutte le qualifiche. Stavolta, dopo il quinto posto, si è presentato davanti alle stesse telecamere dicendo: «Il sole domani sorgerà lo stesso, il futuro del lancio del peso è mio». Lo aspettiamo a Los Angeles e nelle tappe intermedie. Dietro di lui Zane Weir, in un’annata sfortunata, è comunque riuscito ad arrivare in finale.

Al femminile Daisy Osakue ha ben figurato nel disco: si è piazzata ottava, migliorando la dodicesima piazza di Tokyo. Ha confermato il dodicesimo posto di tre anni fa Sara Fantini e nel suo caso si poteva sperare di meglio: era stata quarta ai Mondiali di Eugene e sesta un anno dopo a Budapest, mentre a livello continentale c’erano il bronzo di Monaco e l’oro quest’anno a Roma. Ha lanciato sotto le sue potenzialità, ma in finale ci è arrivata. Ha 27 anni e la carriera delle lanciatrici può essere molto lunga.

La superpotenza dei salti

Fino a un mese fa Gianmarco Tamberi era favorito per un oro olimpico come quasi mai lo è stato un italiano nella storia dell’atletica. Poi è andata come è andata: prima un piccolo infortunio risolto, poi la colica prima di partire, quindi il tracollo il giorno della finale. È stato un dramma sportivo, per un saltatore che non ha mai nascosto quanto tenesse, ai limiti dell’ossessione, a un appuntamento a cui ha sacrificato molto. Voleva essere il primo nella storia a vincere due ori olimpici nel salto in alto e sembrava l’anno buono, ma non è andata così. Dietro di lui, però, è emerso un movimento completo e di alto livello. L’Italia ha piazzato finalisti nel salto in lungo maschile e femminile, nel triplo maschile e femminile, nell’alto maschile e nell’asta femminile. Nell’asta maschile Claudio Stecchi è stato il primo degli esclusi, nell’alto femminile non c’erano donne in gara.

Nonostante l’infortunio di Tamberi è stata una manifestazione piena di grandi risultati. Proprio nell’alto Stefano Sottile ha migliorato il primato personale, salendo a 2,34 e sfiorando la medaglia di bronzo, persa solo per aver fatto più errori di un monumento come Mutaz Barshim. Nel triplo femminile Dariya Derkach è arrivata ottava in finale, mentre nell’asta Roberta Bruni ed Elisa Molinarolo sono state le prime italiane a superare la qualificazione. Molinarolo è arrivata sesta, col record personale di 4,70.

Nel lungo donne Larissa Iapichino è arrivata quarta e si è definita «una bischera, una scema» perché ha saltato 6,87, la stessa misura della qualificazione. La sua misura peggiore su cinque tentativi validi, però, è stata 6,78: è segno di solidità, la sua crescita è evidente e i risultati arriveranno. Ha 22 anni e il tempo per essere protagonista tanto a Los Angeles tra quattro anni quanto a Brisbane tra otto.

Tra gli uomini Mattia Furlani si è consacrato come uno dei più forti saltatori del mondo, a 19 anni. È arrivato terzo con un salto lungo 8,34 metri, a due centimetri dall’argento e a quattro dal primato mondiale juniores, che è suo. È il più grande talento capitato in Italia dai tempi di Andrew Howe, facendo tutti gli scongiuri del caso. Ha tutto per contendere a Miltiadis Tentoglou lo scettro del salto in lungo. Furlani ha mostrato anche la testa da campione e per uno così giovane non è scontato. Ha potuto vivere queste Olimpiadi con una leggerezza relativa, sei-sette anni fa non sarebbe stato possibile perché l’Italia si sarebbe aggrappata a lui come a una scialuppa. Invece l’alto livello generale gli ha permesso e può ancora permettergli di crescere in tranquillità, concedendosi qualche inevitabile passo falso.

Dodici anni fa era stato Fabrizio Donato, un highlander della pedana, a salvare una spedizione schienata dalla tegola della prima squalifica di Schwazer. Oggi Donato allena il suo successore Andy Diaz, che gli ha sfilato il primato italiano ed è stato il terzo medagliato azzurro ai Giochi. Diaz è nato cubano, come lo spagnolo Jordan Alejandro Diaz Fortun e il portoghese Pedro Pichardo che l’hanno preceduto in gara. Nel 2021 approfittò delle Olimpiadi di Tokyo per scappare in Italia. Ha dormito per strada in attesa di ricevere un permesso di soggiorno provvisorio ed è stato proprio Donato, contattato su Instagram, a cambiargli la vita. È stato lui a raccontarci la sua storia, in questa intervista realizzata da Giuliana Lorenzo.

L’anno scorso è arrivata la cittadinanza italiana, quest’anno la possibilità di gareggiare con la maglia azzurra. Si è qualificato alla finale con la misura più bassa, poi ha piazzato la zampata giusta in finale: 17,64. Non parliamo di un prodotto del movimento italiano, anche se ha fatto un grande regalo al medagliere azzurro. La sua presenza in prospettiva può aiutare i giovani ad affrontare questo quadriennio con meno pressioni: vale per Furlani e Iapichino, ma anche per Battocletti e Simonelli.


La strada nel tunnel

Da marcia e maratona, maschili e femminili, sono arrivati i risultati peggiori rispetto alle attese. Si è accanita anche la sfortuna. Massimo Stano si è infortunato ad aprile durante la maratona di marcia a staffetta mista pestando una bottiglietta. Quell’incidente, oltre a togliere la possibilità di mettere in campo due coppie a Parigi nella nuova specialità, gli è costato un lungo stop. Nella gara individuale, nonostante qualche problema alle caviglie, ha marciato da protagonista e ha chiuso quarto. Si è difeso bene anche in staffetta, dove però l’ultima frazione ha visto il calvario di Antonella Palmisano.

La fuoriclasse tarantina si era già ritirata nella 20 km individuale, abdicando nella maniera più triste dopo l’oro di Tokyo. A staffetta finita ha spiegato di avere avuto il covid e questo mette sotto una luce diversa le sue performance a Parigi. Vale anche per Valentina Trapletti, splendida seconda agli Europei, nelle retrovie alle Olimpiadi con una prestazione anonima: dopo la gara ha spiegato che a luglio è stata male, con febbre alta e dolori ovunque per tre settimane. Per tre settimane alla vigilia dei Giochi non ha potuto nemmeno camminare, ha spiegato sui social.

Anche Francesco Fortunato, Riccardo Orsoni ed Eleonora Giorgi sono finiti lontani dai vertici, facendo pensare che comunque qualcosa non abbia funzionato nell’avvicinamento ai Giochi.

Vale pure per la maratona. Tra uomini e donne il migliore è stato Yeman Crippa, venticinquesimo e lontanissimo da dove sperava di essere. È stata una maratona molto strana, con un tracciato assolutamente unico (e si spera che lo resti), ma né lui, né Eyob Faniel (tolta la fuga iniziale), né Daniele Meucci sono mai sembrati in gara. Anche al femminile è andata male, con Sofiia Yaremchuk trentesima. Giovanna Epis è arrivata 67esima, ma merita un discorso a parte: quattro mesi fa ha sofferto di una microfrattura all’ala sacrale, è tornata a correre solo sette settimane fa. Un tempo ridicolo per preparare una maratona, ma l’Olimpiade era il suo sogno e lo ha realizzato. Ha tagliato il traguardo a braccia alzate, giustamente.

Parigi va in archivio con meno medaglie di quelle che si sperava e tanti campioni ultratrentenni che ora si chiederanno se continuare fino al 2028. In diversi potrebbero farlo. Dietro di loro c’è una generazione pronta a proseguire il percorso iniziato tre anni fa, con l’età giusta per sognare di essere protagonista a Los Angeles e Brisbane. Le prospettive dell’atletica azzurra non sono mai state così intriganti.

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