
Ogni tanto mi sale un brivido di paura a constatare quanto, su certe cose, l’algoritmo mi abbia profilato bene. Da persona nata nel 1997, e che purtroppo subisce la nostalgia dei tempi in cui non aveva molti pensieri per la testa, uno dei miei grandi interessi sono i calciatori e le squadre degli anni a cavallo del 2010: un periodo non così recente da poter essere considerato contemporaneo, ma nemmeno così antico da dover essere osservato con nostalgia.
Non sono di quelli che pensano che i tempi andati siano per forza migliori e, quando guardo immagini di qualche anno fa, cerco di tenere bene a mente quale fosse il contesto storico, per non farmi ingannare da tutto il tempo che è passato. In altre parole, da persona che ha consumato una gran quantità di partite di calcio – e di discussioni sul calcio – mi piace guardare al passato ma odio il revisionismo storico, praticato magari per deprecare il presente. Mi è capitato già di esprimere questo punto di vista scrivendo della romanticizzazione dell’esperienza di Ronaldinho al Milan, due anni e mezzo mediocri che però sui social network vengono esaltati quasi quanto gli anni di Ronaldinho al Barcellona (almeno in Italia).
Nemmeno io, però, come nessun altro, sono immune del tutto a questo meccanismo, e me lo hanno fatto capire proprio TikTok e Instagram.
Un bel giorno, mentre scorrevo in attesa di addormentarmi, mi compare un video con le migliori giocate del Brasile al Mondiale in Sudafrica. Ora, se avete un po’ di memoria ricorderete che il Brasile del 2010 venne etichettato un po’ come l’inizio della fine, la prima Seleçao a farci capire che l’epoca d’oro del calcio brasiliano era terminata. Dopo la delusione del Mondiale 2006, Dunga aveva disegnato una squadra arcigna. Dal quadrato magico di quattro anni prima si era passati a una Nazionale che si identificava nel doppio mediano Gilberto Silva-Felipe Melo: non proprio qualcosa con cui identifichiamo la spensieratezza e la creatività del calcio brasiliano.
Uno dei miei calciatori preferiti di sempre è però Luís Fabiano – merito di un gol incredibile segnato alla Costa d’Avorio in quel Mondiale – e quindi se ti propongono una clip con le migliori giocate di una Nazionale passata in sordina, che probabilmente hai pure dimenticato, e dove c’è uno dei tuoi giocatori preferiti, che fai, non te la guardi?
Comincia che inizi a guardare quel video e finisce che arrivi a pensare che forse il Brasile del 2010 non era poi così male, che avrebbe meritato di più. Che Elano era sottovalutato, che quello è stato l’ultimo grande Kakà e che se Luís Fabiano giocasse oggi sarebbe uno dei primi cinque attaccanti al mondo (di questo ne sono convinto per davvero). Poi, però, sono rinsavito, ho razionalizzato, e mi sono accorto che stavo esattamente ragionando come i revisionisti di TikTok che tanto disprezzo.
Tutto questo preambolo un po’ per ricordare Luís Fabiano, e un po’ per discutere di una questione cruciale, che dovrebbe far saltare la mosca al naso a chiunque scriva/parli di calcio: se dobbiamo piegare anche il calcio al modo in cui si creano contenuti su TikTok, per favore facciamo in modo che questi contenuti non mistifichino la realtà e non sviliscano il racconto.
Forse vi sarà capitato, in questi giorni, di imbattervi in una di queste clip, che però riguarda l’Italia dei Mondiali 2002. Non c’è nessuna azione, nessun gol, nessuna giocata. Solo i nostri che si riscaldano e cantano l’inno. Maldini che si aggiusta i capelli, Totti, Vieri, Cannavaro che si aggiusta i capelli, Buffon, Gattuso, Del Piero che si aggiusta i capelli: bellissimi, meravigliosi, con le ciocche umide e lo sguardo glaciale. Tutto ciò che serve a definire quella che da un paio d’anni sul web chiamiamo “aura” – una parola che dovrebbe descrivere l’ascendente di sportivi/personaggi vari, ma che sotto sotto sono convinto sia soprattutto un modo per alcuni uomini etero di esprimere, senza sentirsi in colpa per la propria sessualità, apprezzamento verso altri uomini particolarmente avvenenti, meglio se con i capelli lunghi e mossi.
I nostri sembravano davvero degli eroi omerici, forse il picco dell’estetica del calcio italiano di questo millennio. Se la clip fosse servita semplicemente a celebrare questo, sarebbe anche stata una bella clip. Il problema, però, è la scritta in sovraimpressione: “Italy 2002, 0% tattoos, 100% football”. Due affermazioni assolutamente inaccettabili, almeno dal mio punto di vista.
Innanzitutto perché quasi tutti i giocatori di quella Nazionale erano tatuati – e alcuni tatuaggi di una volta erano orrendi, a partire dal gladiatore sul braccio di Totti, che sembra fatto in carcere.
Dopodiché, perché quell’Italia giocava un calcio raccapricciante, ai livelli delle peggiori Nazionali della nostra storia: «Il più bieco e antico catenaccio», lo avrebbe definito Aldo Biscardi nella leggendaria puntata del Processo seguita all’eliminazione dal Mondiale per mano della Corea. 100% football: ma che football?
Quell’Italia contro Ecuador, Croazia, Messico e Corea del Sud fu capace di raccogliere una sola vittoria. Ribatterete che gli arbitri ci maltrattarono, per usare un eufemismo, che Trapattoni ormai era datato e che tra Croazia, Messico e Corea ci vennero annullati 5 gol. Il calcio praticato da quell’Italia, però, era angosciante: con quel potenziale, le partite andavano vinte a prescindere da arbitri e allenatori. E se voleste una prova di quanto quella squadra fosse esanime, vi basterà sapere che il gol subito dal Messico – un meraviglioso colpo di testa in avvitamento di Jared Borgetti – era arrivato dopo aver concesso ai agli avversari una sequenza di passaggi di oltre un minuto. Per cui vero, quei giocatori presi uno per uno erano dei fuoriclasse, ma la storia non si può cambiare, e in quell’occasione i nostri giocarono in maniera orribile, altro che 100% football.
Il problema, credo, è che la realtà dei fatti a chi crea questi contenuti interessa poco: è ovvio che il sottotesto di una clip del genere sia umiliare i calciatori della Nazionale di oggi paragonandoli a quelli del passato, sia per qualità tecniche che, soprattutto, per qualità morali - chiamiamole così. Del resto, c’è gente davvero convinta che non ci qualifichiamo ai Mondiali perché non ci teniamo abbastanza alla maglia, e che il compito di Gattuso sia infondere nuovamente un imprecisato senso di appartenenza. Sotto sotto è anche uno dei motivi ufficiali per cui la FIGC ha fatto questa scelta, se ci pensate.
Ma se davvero credete che i calciatori degli anni 2000 fossero degli esempi da seguire, forse vi siete dimenticati la considerazione che c’era di quella generazione prima della vittoria del Mondiale: reputati generalmente ignoranti, troppo dediti alla vita mondana, attaccati al denaro, derisi perché non andavano a tempo quando cantavano l’inno. Quelli di oggi hanno la colpa di non essere forti abbastanza, ma forse la loro reputazione è migliore di quella dei loro colleghi di vent’anni fa.
Basta avere un minimo di memoria per ricordarselo. D’altra parte, quelli erano gli anni in cui Ficarra e Picone si presentavano a Zelig vestiti da calciatori della Nazionale prendendo per il culo il quoziente intellettivo e lo stile di vita dei nostri giocatori.
E se non fosse abbastanza, basta spulciare gli archivi online dei quotidiani per leggere cosa ne pensasse l’opinione pubblica dei giocatori italiani dell’epoca. Due anni dopo i Mondiali in Corea e Giappone, Maurizio Crosetti, in un articolo che rifletteva il sentire comune e che forse dovrebbero leggere tutti quelli secondo cui i calciatori di vent’anni fa erano uomini veri, scriveva questo a proposito di Euro 2004: “Quest'Europeo sta diventando la fiera delle vacuità. Colpiti dalla temibile sindrome di Beckham, molti calciatori fanno di tutto per rendersi glamour, dunque ridicoli”.
E poi via con un’accusa agli azzurri che sembra esattamente una di quelle che rivolgiamo ai calciatori della Nazionale di oggi: “Come sempre, quando c'è da vincere il gran premio dello sciocchino, il giocatore italiano (e pure l'oriundo) brilla”. Uno dei tratti dell’Italia degli anni 2000 che più affascina il pubblico dei social network, sono indubbiamente le chiome folte e umide. Crosetti, però, come molti italiani di quel periodo, proprio non sopportava i tagli di capelli degli azzurri. In particolare quelli di Totti: “Abbiamo ammirato le ormai celebri treccine di Totti con relativo nastro azzurro. Con la variante durante le partite: oltre alle trecce un po' rasta, si aggiunge una coda che completa l'acconciatura. Se fosse bravo a mettere in forma le scarpette come lo è nel farsi la piega, avremmo già vinto la Coppa”.
Ma i capelli non sono il solo sintomo di vacuità: non dimentichiamo, infatti, “basette scolpite da artisti postmoderni in crisi d'identità” e “tatuaggi da fare invidia alle mappe della garzantina”, giusto per ribadire all’amico creatore di contenuti su TikTok che il corpo degli azzurri non era proprio privo di tatuaggi.
Ora, tutto questo rivela un paio di cose. Innanzitutto, la distorsione della realtà ad opera della nostalgia. La denuncia della corruzione dei costumi nella contemporaneità è un meccanismo attivo da sempre, in qualsiasi ambito ma nello sport e nel calcio in particolare: lo facciamo noi con i calciatori di oggi, e lo facevano vent’anni fa con quei fuoriclasse che ci avrebbero regalato la gioia del Mondiale.
Dopodiché, però, credo sia giusto differenziare il modo in cui questo tipo di discorsi veniva affrontato nel passato rispetto a come lo fanno questi reel su TikTok, Instagram o YouTube.
Credo che si tratti principalmente di un problema di narrazione, e quindi di patrimonio culturale che generiamo intorno al calcio.
Il punto è che a cambiare, con TikTok, Instagram e affini, sono i luoghi da cui viene veicolata la discussione. Stiamo andando in una direzione in cui i contenuti più importanti sul calcio, inevitabilmente, diventeranno video. Il che non è per forza un male se si creano prodotti approfonditi e di qualità. Il fatto, però, è che la fruizione di questi contenuti è diventata sempre più veloce, non favorisce la discussione e quindi ne pregiudica la qualità (Marco Lai a riguardo ha scritto un contributo interessante sul suo Substack, se siete interessati).
Scorrere in maniera compulsiva è uno dei segreti di TikTok o Instagram. Il che fa sì che, anche parlando di calcio, ci si trovi di fronte a contenuti superficiali e totalmente distaccati dal contesto di provenienza, che di fronte ad un pubblico poco “specializzato” possono distorcere la realtà: se il ragazzino medio che usa TikTok (e che soprattutto non ha vissuto il Mondiale 2002) o qualcuno che non ha particolare memoria (d’altra parte, uno potrebbe anche fregarsene di un Mondiale di 23 anni fa) si imbatte in un video con Totti, Del Piero e tutti gli altri, dove alle immagini si aggiungono la didascalia catchy e la musichetta evocativa/nostalgica/malinconica (altro dettaglio che contribuisce alla natura menzognera dei video di TikTok sul calcio: col sottofondo giusto si può romanticizzare qualsiasi cosa), può arrivare davvero a pensare che quella fosse la Nazionale più forte di sempre. Insomma, cambia la piattaforma su cui discutere e cambia quindi il modo di storicizzare gli eventi, e non ci sarebbe nulla di male se oggi il pericolo di fraintendere ciò che vediamo sui nostri cellulari sia per assurdo molto più alto.
Quando la dirty dozen della Superlega provò con un colpo di mano a cambiare il calcio europeo, Andrea Agnelli tra le motivazioni principali addusse il calo di attenzione dei più giovani nei confronti delle partite di calcio nella loro integrità. Più che ai novanta minuti, però, il discorso della soglia dell’attenzione bassa – che non riguarda solo i ragazzini, o meglio, i “clienti del futuro” come li chiamano gli esperti, ma tutte le fasce d’età che riescano ad usare i social network, e mi sembra che le fasce d'età più avanzate siano molto più a rischio – si può applicare soprattutto ai contenuti che cerchiamo sui nostri telefoni: se voglio sapere qualcosa sull’Italia del 2002 è più comoda una clip di 30 secondi che mi presenta quella squadra come gli Avengers, invece che un video-racconto di 10 minuti o un articolo.
È anche per questo che il web è saturo di reel di personaggi chiamati a scegliere tra un calciatore e l’altro scuotendo la testa, oppure di calciatori invitati a rimanere in silenzio fino a quando non viene nominato qualcuno che ritengono fosse più forte di loro.
Magari sono contenuti che producono reazioni forti, commenti, condivisioni, ma qual è il prezzo da pagare? Che idea di racconto c'è dietro? Cosa ci lasciano prodotti del genere? Come ci aiutano a formare il nostri giudizio? La cultura calcistica non la creano solo i calciatori con le loro gesta, ma anche chi li vive e chi li racconta. Pensiamoci bene a come vorremo trasmettere, nel futuro, questo patrimonio culturale.