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Futuro migliore
25 nov 2015
25 nov 2015
Il calcio come terreno di pace e di guerra per il conflitto israelo-palestinese.
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Il 65.esimo e ultimo congresso della FIFA, tenutosi a Zurigo il 29 maggio scorso, sarà per sempre ricordato come l’atto iniziale del maggiore scandalo della storia del calcio, che vogliate chiamarlo con l’americanismo "Fifagate" o il nostrano "Blatteropoli" fa poca differenza. Il giorno prima la polizia svizzera, in cooperazione con le autorità giudiziare statunitensi, aveva arrestato numerosi esponenti della massima organizzazione calcistica mondiale, scoperchiando un sistema di corruzione da centinaia di milioni di euro. Nonostante ciò, durante quel congresso Sepp Blatter suscitò per l’ennesima volta l’indignazione di tutti ricandidandosi a presidente della FIFA.

Ma in realtà l’elezione del nuovo presidente (“nuovo” si fa per dire, dato che alla fine vinse ancora Blatter) era solo uno dei punti all’ordine del giorno. Il 17, per la precisione: Election of the President. Risalendo di poco quella noiosa lista, però, al punto 15.1, si legge anche: "Proposta da parte dell’Associazione di calcio palestinese per la sospensione dell’Associazione di calcio israeliana".

Se la proposta si fosse trasformata in realtà, la Nazionale israeliana sarebbe stata esclusa dalle qualificazioni per gli Europei del 2016 e i Mondiali del 2018 mentre tutte le squadre israeliane sarebbero state espulse dalle coppe europee, dalla Champions League all’Europa League. Una decisione clamorosa, quindi, che ha un unico precedente (il Sudafrica durante l’apartheid) e che infatti avrebbe richiesto ben i 3/4 dei voti dell’organizzazione.

Se non ne avete sentito molto parlare è perché alla fine la Federcalcio palestinese ha stupito tutti decidendo all’ultimo minuto di ritirare la proposta. Nonostante ciò, il presidente dell’organizzazione che amministra il calcio nei territori palestinesi, Jibril Rajoub, ha comunque dichiarato: «Ho deciso di ritirare la richiesta di sospensione, ma non significa rinunciare alla questione». Quale sia la questione è facile da immaginare, ma difficile da comprendere. Perché, come si dice, è una lunga storia.

Le origini

Se si va sul sito ufficiale della FIFA e si cercano le pagine delle federazioni israeliane e palestinesi si può notare che la data di nascita delle due organizzazioni sia identica: 1928. Ovviamente non è solo una coincidenza.

Nel 1928 di fatto non esiste né uno stato israeliano né uno stato palestinese indipendente. Nella zona che più o meno corrisponde all’attuale stato di Israele comandano gli inglesi dalla fine della Prima guerra mondiale attraverso un mandato della Società delle Nazioni, l’antenata delle attuali Nazioni Unite. Il mandato era una sorta di via di mezzo tra la completa indipendenza e la colonizzazione, una promessa fatta dalle potenze europee che amministravano quei territori di accompagnare gradualmente i popoli che ci vivevano alla totale autogestione.

Il problema è che gli inglesi di promesse ne avevano fatte troppe. Avevano promesso agli arabi un grande stato nazionale (o tanti piccoli stati arabi) in ricompensa del loro sforzo nell’abbattimento dell’Impero ottomano durante la Prima guerra mondiale. Ma avevano anche promesso la creazione all’interno della Palestina di una national home per il popolo ebraico. Un tenere il piede in due scarpe, si direbbe, che avrebbe creato più di una tensione tra le due fazioni ben prima della fondazione ufficiale dello stato di Israele, nel 1948.

Già nella prima metà degli anni ’20, ad esempio, le squadre ebraiche di origine europea andavano in Palestina per affrontare le loro controparti mediorientali, scatenando puntualmente l’indignazione araba. Gran parte di queste squadre, infatti, portavano nei nomi e nei simboli le ambizioni politiche del popolo ebraico, com’è ancora visibile. Il nome Maccabi, che ancora oggi accompagna molti club israeliani, per esempio, derivava dai Maccabei, il popolo ebraico che intorno al II secolo a.C. prese il controllo della Giudea (sostanzialmente il cuore della Palestina attuale) con una rivolta.

La fondazione della Palestine Football Association (PFA), ufficialmente l’antenata sia dell’attuale federcalcio israeliana che dell’attuale federcalcio palestinese, si portò dentro di sé queste tensioni. L’organizzazione fu fin da subito avvertita come riflesso delle aspirazioni sioniste dai club arabi, che iniziarono a boicottarla. Alla riunione inaugurale del 1928 parteciparono ben 14 rappresentanti ebraici e solo uno arabo. Nel 1931 fu creata una federazione araba alternativa, l’Arab Palestine Sports Federation (APSF).

Piccoli calciatori in Palestina nel 1930.

Fu una mossa per certi versi coraggiosa, ma per molti altri del tutto controproducente. La ritirata aventiniana degli arabi lasciò infatti il campo libero ai rappresentanti ebraici, che procedettero alla “sionizzazione” della federazione anche attraverso gli ottimi rapporti con gli “occupanti” britannici. Le squadre ebraiche presto divennero la maggioranza nel campionato, mentre l’ebraico divenne la lingua ufficiale della federazione, la cui bandiera venne modificata con simboli sionisti.

Tra l’altro, solo la PFA era riconosciuta dalla FIFA e il progetto dell’APSF di far giocare i club palestinesi con gli altri club arabi situati in Siria, Libano ed Egitto naufragò sul nascere. La stessa “Nazionale palestinese”, che partecipò alle qualificazioni per i Mondiali del 1934 e 1938, finì per riflettere questo processo, essendo composta sostanzialmente solo da giocatori inglesi ed ebrei (nonostante i palestinesi rappresentassero al tempo quasi i tre quarti della popolazione). Prima delle partite della Nazionale, “God save the King” veniva suonato insieme all’Hatikvah, quello che diventerà l’inno nazionale di Israele.

L’APSF morì di morte naturale intorno al 1936, in occasione cioè dell’esplosione della grande rivolta araba che durò fino al 1939. Nonostante ciò, le autorità politiche palestinesi rimasero sempre convinte che l’idea di avere una propria federazione indipendente fosse migliore di quella di combattere per la propria rappresentanza all’interno della stessa PFA.

È per questo motivo che le strade di arabi e israeliani si divisero già prima del 1948. Nel settembre del 1944 nacque una nuova federcalcio palestinese indipendente, la Palestine Sports Federation, che tentò di essere riconosciuta ufficialmente dalla FIFA senza successo.

Nel frattempo, con la nascita ufficiale dello stato di Israele, la PFA si trasformò definitivamente nella Israel Football Association. Sulla cristallizzazione della definitiva frattura pesò anche la storica incapacità della FIFA, che nel 1947, per risolvere la questione, propose grottescamente di creare una federazione neutra, composta da persone non appartenenti a nessuna delle due “razze” (come vennero letteralmente definite dalla proposta).

Dal 1948 la Palestina rimase senza una federazione calcistica ufficialmente riconosciuta per mezzo secolo. Israele, invece, promosse attivamente una politica di assorbimento del calcio arabo all’interno delle sue strutture esistenti, a partire dai suoi club professionistici. Il governo di Tel Aviv creò un dipartimento alle questioni arabe, l’Histadrut, che si ritrovò molto attivo nel creare centri d’allenamento e squadre nei villaggi arabi in Israele.

Nel 1963 arrivò il primo giocatore arabo del campionato israeliano, Hassan Boustouni. L’anno successivo, invece, la prima squadra: l’ha-Po’el Bnei Nazareth. Qualunque affermazione di un calcio palestinese indipendente, peggio ancora se legato a questioni nazionalistiche, veniva invece represso. Nel 1964, ad esempio, venne sciolto il movimento arabo Al-Ard, che aveva contribuito alla fondazione di alcune squadre arabe indipendenti come l’al-Ahali e l’Abna al-Balad.

L’ideale calcistico israeliano fu perfettamente rappresentato da Walid Bdeir, calciatore arabo della Nazionale israeliana tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000. Il nonno di Bdeir era stato massacrato dalle truppe israeliane nel 1956, ma lui ha sempre dichiarato di sentirsi orgoglioso dei colori e dell’inno del suo stato, quello israeliano. Quando gli venne chiesto come facesse a far convivere le due cose, lui rispose: «Questa questione appartiene al passato, non ne parliamo a casa».

Caccia al consenso

Il calcio palestinese vero e proprio, ovvero quello giocato nei territori palestinesi, invece, non uscì dal dilettantismo fino al 1998, anno in cui fu finalmente riconosciuta una federazione palestinese indipendente.

Sull’improvviso cambio di direzione della FIFA, che fino a quel momento si era ostinata a non riconoscere le aspirazioni palestinesi, pesarono sostanzialmente due fattori. Il primo fu l’impatto emotivo degli accordi di Oslo, che nel settembre del 1993 di fatto posero fine alla prima intifada. L’8 ottobre dello stesso anno si giocò a Gerico (una delle città chiave degli stessi accordi) un’amichevole simbolica tra la Nazionale palestinese e una rappresentativa All-Star (che tra le sue fila contava anche Michel Platini) per spingere la FIFA a riconoscere la federazione palestinese. L’amichevole fu seguita da circa 10mila persone e alla fine la Palestina vinse per 1-0.

La Nazionale palestinese prega prima di una partita contro la Giordania, nel 2008.

Il secondo, e probabilmente più importante, fattore fu la salita al potere di Sepp Blatter. Lo svizzero fu fin da subito uno dei maggiori sostenitori del calcio palestinese. Il suo primo atto da presidente della FIFA, infatti, fu proprio il riconoscimento della federazione palestinese, che dal canto suo vedeva finalmente i frutti di una politica che perseguiva da quasi 70 anni. Il sostegno di un animale politico come Blatter non era ovviamente disinteressato, a partire dal prestigio di essere ricordati dalla Storia come il “Bill Clinton del pallone” per aver giunto le mani di israeliani e palestinesi. Perorare la causa della federazione palestinese, infatti, significava ottenere il consenso (e quindi probabilmente il voto) del numeroso blocco di paesi arabi, quel blocco che attraverso il proprio boicottaggio aveva costretto la federazione israeliana a uscire dalla confederazione asiatica per entrare nella UEFA.

Dopo quel successo, le autorità politiche palestinesi si convinsero di poter utilizzare il pallone come arena per perorare la propria causa nazionale, cioè esattamente ciò che Israele aveva da sempre cercato di evitare. Non è un caso che a partire dal 2008 fu messo a capo della Federcalcio e del Comitato olimpico palestinese quello che giornalisticamente verrebbe definito un “falco” di Fatah: Jibril Rajoub.

In un’intervista a La Repubblica del giugno del 2011, Rajoub definisce la scelta di puntare sul calcio come “la più razionale” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese: «Abbiamo bisogno di esporre la causa palestinese attraverso il calcio, con i valori e l'etica del gioco. La lotta non violenta è certamente la più produttiva e proficua per la causa palestinese; viviamo nel 21.esimo secolo, e questo è il mezzo migliore per raggiungere le nostre aspirazioni nazionali». Nello stesso articolo, l’allora terzino della Nazionale palestinese, Nadim Barghouthi, dichiara: «Siamo come soldati senza armi, giochiamo per la libertà della nostra terra».

Cartellino rosso

Rajoub è l’uomo dietro alla richiesta di sospensione dalla FIFA della federcalcio israeliana, iniziativa che fa il paio con altri tentativi di internazionalizzare il conflitto da parte delle autorità palestinesi, come l’acquisizione dello status di osservatore permanente all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e di quello di membro della Corte Penale Internazionale. La richiesta di sospensione si basa su un dossier diviso sostanzialmente in quattro punti che è una sorta di tragico affresco dell’attuale situazione palestinese.

Il primo punto riguarda il Teddy Stadium, che sembra un nome dolce ed amorevole e che in realtà indica la sede di una delle tifoserie più violente e razziste del mondo, quella del Beitar di Gerusalemme. Secondo le autorità palestinesi il Teddy Stadium si ritroverebbe sopra la cosiddetta Green Line, cioè il confine che tra le altre cose divide la Gerusalemme israeliana da quella palestinese, e non potrebbe quindi ospitare partite internazionali. In realtà, il Teddy Stadium si trova molto vicino, ma non sopra la Green Line e per questo motivo alla fine i palestinesi hanno deciso di ritirare questo punto.

Il secondo punto coinvolge ancora il Teddy Stadium, ma questa volta in maniera tangenziale, toccando il razzismo all’interno dell’intero movimento calcistico israeliano. Proprio il Beitar, l’unica squadra israeliana a non aver mai ingaggiato un calciatore arabo, è l’esempio più famoso e fulgido, con i suoi tifosi che insultano i giocatori di colore e augurano sistematicamente la morte a tutti gli arabi. Non è l’unico, però, dato che negli ultimi anni fenomeni di questo tipo hanno riguardato diverse squadre israeliane, dal Maccabi Tel Aviv al Bnei Yehuda. Durante la crisi dei migranti che ha coinvolto l’Europa nei mesi corsi, i tifosi del Maccabi Tel Aviv hanno esposto uno striscione con su scritto: “Refugees not welcome”.

Con il terzo punto, il dossier si addentra ancora di più nelle dispute tra israeliani e palestinesi. Riguarda infatti la legittimità di cinque squadre minori (il Beitar Ironi Ariel, l’Hapoel Bik’at HaYarden, il Beitar Givat Ze’ev, l’Ironi Yehuda e il Beitar Ironi Ma’aleh Adumim) che risiedono negli insediamenti israeliani all’interno della Cisgiordania. Nonostante questi insediamenti siano stati ripetutamente definiti illegali dalle organizzazioni internazionali (dalla Corte Internazionale di Giustizia all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite), le squadre in questione fanno regolarmente parte dei campionati israeliani. La questione rappresenta un cortocircuito paradossale per molti versi, a partire dal fatto che un’organizzazione che si occupa di sport venga chiamata a risolvere una disputa territoriale da una federazione che fa capo a uno stato non ancora riconosciuto come tale.

Il quarto punto è quello più drammatico e umano, riguardando le restrizioni e le altre pratiche repressive che Israele mette in pratica nei confronti degli atleti palestinesi e dei loro avversari, nonché delle strutture sportive. In questo caso la casistica è talmente vasta e intrecciata alla realtà extra-sportiva che sarebbe impossibile descriverla completamente. L’unica cosa che si può fare è accendere i riflettori su determinate situazioni, alcune famose, altre solo significative.

Il primo match ufficiale della Nazionale palestinese.

Si potrebbe parlare di Mahmoud Sarsak, ex giovane promessa della Nazionale palestinese, ad esempio, che nel luglio del 2009 venne arrestato dalla polizia israeliana durante una trasferta dalla striscia di Gaza alla Cisgiordania con l’accusa di essere un terrorista islamico. Tra quel giorno e la sua liberazione, tre anni dopo, ci fu uno sciopero della fame e tanti appelli famosi, da Thuram, a Cantona fino allo stesso Blatter. O ancora si potrebbe discutere della distruzione sistematica dello stadio olimpico di Gaza City, raso al suolo nel 2006 e bombardato nuovamente nel 2012 dopo la sua ricostruzione, durante la cosiddetta operazione “Pillar of Defense”. O infine, arrivando all’oggi, alla posticipazione della finale di Palestine Cup tra l’Al-Ahli, situato in Cisgiordania, e l'Ittihad al-Shujaiyeh, squadre campione di Gaza bloccata per giorni al confine israeliano a causa degli interminabili controlli di sicurezza.

Esistono interi blog dedicati ai soprusi perpetrati dalle forze di polizia israeliane nei confronti dello sport palestinese, la maggior parte dei quali ben più drammatici di quelli citati qui sopra. E leggendo queste liste interminabili viene naturale chiedersi come si possa avere la forza anche solo di pensare al pallone. È una condotta talmente estesa e sistematica che qualcuno è arrivato addirittura a immaginare che si tratti di una sadica politica volta a deprimere qualunque volontà di cambiamento.

Epilogo?

Cambiamento che Rajoub ha chiesto teatralmente al congresso della FIFA del 29 maggio, agitando un cartellino rosso durante il suo discorso alla platea. Alla fine, però, ha rinunciato alla richiesta di sospensione della federcalcio israeliana, forse perché non aveva nessuna speranza di successo, forse anche per questioni legate alla rielezione di un alleato come Blatter.

Jibril Rajoub estrae il cartellino rosso durante il suo discorso.

Rajoub ha però negato pubblicamente di aver votato per la rielezione di Blatter. Nonostante ciò, pochi giorni dopo il congresso FIFA, la Giordania ha dichiarato Rajoub persona non grata, impedendogli sostanzialmente di uscire dal suolo palestinese (i palestinesi possono recarsi all’estero solamente passando per Israele o la Giordania). Una decisione inaspettata e clamorosa, se si pensa che lo stesso Rajoub possiede anche la cittadinanza giordana, e che si fa fatica a non correlare con il fatto che l’altro candidato presidenziale oltre a Blatter fosse Ali bin Hussein, principe di Giordania.

La mossa ha invece deliziato le autorità israeliane. Il presidente dell’IFA, Ofer Eini, si è rivolto direttamente a Rajoub: «Voglio che lavoriamo insieme, che cooperiamo, che ci abbracciamo l’un l’altro». Ha poi chiesto alla sua controparte palestinese di «lasciare la politica ai politici».

Una frase pronunciata al congresso di un’organizzazione che ha come missione quella di «costruire un futuro migliore attraverso il potere del calcio»: non è questo un obiettivo politico? Anche il compromesso raggiunto dalle due fazioni è di natura strettamente politica. Prevede un comitato composto da membri FIFA, IFA e PFA preposto alla risoluzione pacifica delle controversie tra le due federazioni e presieduto da Tokyo Sexwhale, imprenditore sudafricano e simbolo della lotta contro l’apartheid nel suo paese.

L’obiettivo è far sì che i simboli ispirino la realtà, che l’immagine di due federazioni che collaborano possa debordare dallo stadio e aggiustare tutto ciò che è fuori. D’altra parte non è un’idea nuova: Israele e Palestina hanno utilizzato il calcio per promuovere le proprie aspirazioni nazionali proprio perché “la comunità immaginaria di milioni di persone sembra più reale quando assume la forma di una squadra di undici uomini con nome e cognome”.

Andare nella direzione opposta adesso sarà molto difficile, probabilmente impossibile. Per adesso ci dobbiamo accontentare del fatto che il calcio sia l’ultimo posto rimasto dove palestinesi e israeliani riescono ancora a dialogare.

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