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Calcio Lorenzo Forlani 18 ottobre 2019 11'

La lunga battaglia delle donne iraniane per il calcio

In Iran c’è ancora molta strada da fare prima che le donne possano entrare liberamente negli stadi.

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“Attendi il mattino in cui la tua fortuna sorgerà, perché sarà l’unico dono dell’alba”

Awhad Ad Din Ali ibn Mihammad Khavarani, poeta persiano del 12esimo secolo

 

Lo scorso 10 ottobre la Cambogia ha subito a Teheran, in una partita valevole per le qualificazioni ai prossimi Mondiali di calcio, la sconfitta più larga della propria storia. Il pubblico accorso all’Azadì Stadium per sostenere il Team Melli (come viene comunemente chiamata la Nazionale iraniana) ha esultato per 14 volte, testimoniando tra gli altri la tripletta di Sardar Azmoun e la quadripletta di Karim Ansarifard.

 

Quattordici a zero, per un match che alla vigilia si presentava già abbastanza squilibrato, e che ha visto i giocatori iraniani non fermarsi di fronte a niente, con l’ultimo gol che è arrivato al minuto 89. L’entusiasmo dei giocatori iraniani forse derivava anche dal contesto storico in cui si è giocata, perché allo stadio Azadì (“libertà” in persiano), per la prima volta nella storia della Repubblica islamica, ad una partita ufficiale della Nazionale sono state ammesse circa 4000 donne, che hanno potuto acquistare i biglietti messi a loro disposizione dalla Federazione iraniana. Certo, sempre nel rispetto di determinate regole, che hanno visto le tifose a guardare il match in un’area dello stadio separata rispetto agli spettatori di sesso maschile, in ossequio al principio del pardaa (letteralmente “tenda”) che prevede la separazione degli spazi tra i due sessi.

 

A dire il vero non era la prima volta che accadeva qualcosa di simile. Le prove generali, infatti, c’erano già state circa un anno fa quando, ad assistere ad una amichevole con la Bolivia, giocata sempre a Teheran il 17 ottobre 2018, erano state ammesse un centinaio di donne.

 

به امید روزی که نصف ازادی برا شما بشه pic.twitter.com/pzaEE4UvPU

— Hossein Mahini (@HosseinMahini) October 16, 2018

 

In quella occasione le autorità iraniane avevano da una parte recepito gli ammonimenti della FIFA – il cui presidente Gianni Infantino aveva invitato Teheran a rimuovere il divieto – anche se in maniera strumentale: le circa 100 donne ammesse erano infatti poliziotte, calciatrici e atlete della Federazione, utilizzate per l’occasione dalla Federazione come prova tangibile di un cambiamento che sembrava però fin troppo eterodiretto. Possiamo quindi legittimamente considerare lo scorso 10 ottobre come la prima volta in cui le iraniane ordinarie sono potute entrare allo stadio senza il rischio di essere arrestate dalla polizia.

 

Non bisogna però pensare che la lotta delle donne iraniane si concluda oggi. Né che abbia appena iniziato a muovere i primi passi, dato che, tra proteste “creative” e drammi, possiamo ricostruirne le radici fino ad almeno venti anni fa.

 

“La quota per le donne: metà Azadì!”

Nel novembre 1997 l’Iran sta entrando nella seconda fase di ricostruzione post-bellica dopo il conflitto di 8 anni con l’Iraq. Tre mesi prima è stato eletto presidente Mohammad Khatami, filosofo e politico riformista, che negli anni a seguire diverrà famoso per l’introduzione della dottrina del “dialogo tra civiltà”, in opposizione ad una tesi che in quel periodo va per la maggiore in Occidente: lo “scontro delle civiltà”, da un libro del politologo Samuel Huntington, a sua volta ispirato da un articolo dello storico Bernard Lewis.

 

Dopo la prima fase di liberalizzazioni economiche avviata dal predecessore Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, Khatami assume il potere promettendo una estensione delle libertà e della democrazia, in un contesto di riduzione delle tensioni rivoluzionarie dei primi dieci anni di Repubblica islamica – alimentate da un conflitto in cui l’Iran è sostanzialmente isolato dal resto del mondo, che sostiene Saddam a diverse intensità.

 

È questo il contesto politico e sociale iraniano all’interno del quale, in quello stesso mese, a Melbourne, si gioca il ritorno dei playoff tra Australia e Iran per accedere ai Mondiali 1998, dopo che l’andata, a Teheran, è finita 1-1. Il “melbournazo”, come lo hanno soprannominato gli iraniani, parafrasando quel che avvenne al Maracana nel 1950 tra Uruguay e Brasile, finisce 2-2 e consente al Team Melli di qualificarsi alla Coppa del Mondo, vent’anni dopo l’ultima volta.

 

Al ritorno degli “eroi” a casa, per evitare la ressa in aeroporto, le autorità iraniane decidono di trasportare l’intera Nazionale con l’elicottero allo stadio Azadi, per ricevere il saluto del pubblico. Anche se non c’è la partita, lo stadio è pieno. Ma non è pieno come lo è di solito per i derby tra Esteghlal e Persepolis (le due principali squadre di Teheran), nei quali risuonano cori gravi, baritonali, frutto delle corde vocali di 100.000 uomini. Quella sera allo stadio Azadi c’è un pubblico misto, e in visibilio, mischiate agli uomini, ci sono migliaia di donne.

 

Si tratta di una iniziativa spontanea, forse non ancora strettamente legata alla passione per il calcio ma certamente appendice di una «più ampia battaglia per il diritto alla presenza, in una società in cui il diritto alla cittadinanza e alla visibilità sono fortemente condizionati dal ceto sociale e dal genere», spiega Rassa Ghaffari, ricercatrice universitaria tra l’Università Bicocca e l’Institute for Research and Planning in Higher Education del Ministero dell’Istruzione iraniano, specializzata in questioni di genere nella Repubblica islamica, che ho intervistato per la realizzazione di questo articolo.

 

Ma forse su quella manifestazione spontanea di cambiamento incide anche il dibattito sull’eredità del messaggio khomeinista (e di riflesso sulla traiettoria della rivoluzione e sul posto che l’Iran deve occupare nel mondo), che dopo gli anni della guerra con l’Iraq e la morte di Khomeini nel 1989 divide l’arena politica sostanzialmente in due campi, quello principalista (ultraconservatore) e quello riformista.

 

Dopo quella sera, le autorità iraniane – incalzate dagli Ayatollah più conservatori come Nouri Hamedani e dagli alti gradi dei Pasdaran, tendenzialmente vicini al fronte principalista – ripristineranno e legittimeranno pubblicamente la separazione degli spazi nei luoghi pubblici, e il divieto formale di accedere allo stadio per le donne. C’è da dire che in realtà non esiste una legge vera e propria in tal senso, e forse anche questo rende così difficile superare questo divieto, ma solo una “mancanza di infrastrutture adeguate”, come ha spiegato giorni fa il vice ministro dello sport, Jamshid Taghizadeh, cioè adeguate alla separazione tra uomini e donne.

 

Alcune donne si introducono allo stadio per assistere ad una partita di pallavolo maschile e l’Ayatollah Ahmad Alamolhoda da Mashhad definisce l’accaduto come “un esempio di volgarità”: «La santità delle donne non dovrebbe essere inquinata dall’oscenità presente negli stadi». Poco dopo gli fa eco un altro Ayatollah conservatore di Qom, Naser Makarem Shirazi: «L’ambiente dello stadio non è appropriato per le donne e non c’è dubbio che permettere a donne e uomini di andare allo stadio insieme provocherà il peccato e molti altri tipi di problemi culturali e sociali. Inoltre, in molti sport l’abbigliamento degli uomini non è adeguato per il pubblico femminile. [Le donne] dovrebbero evitare di guardarli, anche se trasmessi in TV».

 

Quella manifestazione spontanea di libertà allo stadio Azadì, dopo il playoff tra Australia e Iran, ha però fatto scattare qualcosa. Un numero sempre maggiore di donne e ragazze di Teheran invoca il diritto di accedere allo stadio, pur rimanendo questa una questione marginale all’interno del dibattito nazionale. Passeranno quasi 8 anni per la prima iniziativa pubblica.

 

L’8 giugno 2005 a Teheran si gioca Iran-Bahrein. Le donne non possono ancora entrare allo stadio Azadì, ma alcune di loro si siedono sul prato di fronte ai cancelli ovest indossando un velo bianco, sul quale c’è scritta una frase: “sahme man, nime az Azadì!”, ovvero “la quota per le donne: metà dello stadio Azadì!”.

 

Nel 2005 l’Iran è un paese diverso rispetto a quello che ha partorito la rivoluzione del 1979. Innanzitutto in senso demografico: nel 2005, infatti, quasi metà della popolazione è nata dopo il 1979 e l’istruzione generale cresce (assieme alla consapevolezza dei propri diritti) a ritmi vertiginosi. Il governo Khatami è naufragato ma ha alimentato nella società civile l’aspirazione ad un allargamento delle libertà. E adesso, quando le autorità ribadiscono alle donne il divieto di entrare allo stadio perché “il calcio è per gli uomini” (come ha detto una volta l’Ayatollah Makarem Shirazi), incontrano alcune resistenze.

 

La più sorprendente di esse, per il pubblico occidentale, è forse quella del neo presidente eletto: Mahmoud Ahmadinejad. Primo presidente laico del paese (nel senso che non proviene dalle gerarchie religiose, ma dalla cattedra di ingegneria all’Università) se si esclude la breve esperienza di Rajaei (1981), Ahmadinejad vuole a suo modo riformare la Repubblica islamica da “destra”, operando un trasferimento di poteri graduale, che su certi temi finisce per delegittimare le posizioni (e le rendite di posizione) dei religiosi più oltranzisti in materia di costumi.

 

D’altronde uno dei malintesi più frequenti che riguardano l’Iran è quello che associa il grado di religiosità della popolazione alla vicinanza al regime clericale che ancora oggi domina il paese. In Iran, infatti, esistono segmenti della popolazione sostanzialmente laici, ma che sono fedelissimi della Repubblica islamica, per lo più per il suo antagonismo verso gli Stati Uniti e per come è riuscita a dare all’Iran un ruolo di rilievo all’interno della comunità internazionale; e, dall’altra parte, esistono invece porzioni di società estremamente religiose e conservatrici, ma comunque ostili alle istituzioni, che impongono per legge diversi aspetti della religione.

 

Un anno dopo la sua elezione, Ahmadinejad scrive una lettera al ministro dello Sport, Mohammad Ali Abadi, in cui lo invita a «preparare gli stadi per ospitare anche le donne» (cioè a istituire degli spazi dedicati nello stadio). In realtà non è proprio un invito: come spiega il sito web IranWire, alla riunione di gabinetto di una settimana più tardi il ministro chiede al presidente per quando debba essere pronto il “progetto”, ed Ahmadinejad risponde: «Non è un progetto, è un ordine». È da quel momento che il divieto per le donne di entrare allo stadio entra “ufficialmente” nel dibattito pubblico.

 

Inizialmente Ahmadinejad trova il favore della Guida suprema, Ali Khamene’i, che gli aveva fornito il suo endorsement alle elezioni, ma anche la feroce e pubblica opposizione di una buona parte dei principali Ayatollah dell’Assemblea degli Esperti (quella camera, cioè, che ha il potere di eleggere e rimuovere la Guida, formata da 88 membri eletti ogni 8 anni a suffragio universale). Ahmadinejad, sordo agli ammonimenti, ribadisce il suo ordine in un’altra lettera al ministro dello sport, ma dieci giorni dopo è lui il destinatario di un’altra lettera: quella in cui un gruppo di importanti Ayatollah gli chiede con urgenza di ritirare l’iniziativa. Dopo qualche settimana, il presidente si adegua, complice anche il veto posto dalla stessa Guida Suprema, il quale afferma che «la questione non è prioritaria per il Paese».

 

E a arrivati a questo punto vale la pena fermarsi un attimo per approfondire un aspetto che viene di solito frainteso nei paesi occidentali, e cioè il ruolo di Khamene’i in Iran. Khamene’i viene infatti di solito visto come il dominus di un sistema verticistico, mentre in realtà la Guida Suprema è qualcosa di più vicina al nostro Presidente della Repubblica – un primus inter pares, che deve cercare di armonizzare le posizioni di un establishment conflittuale. Un garante e un arbitro, insomma, anche se dotato sulla carta di poteri di ultima istanza, eredità di quelli attribuiti al padre della rivoluzione, Khomeini.

 

C’è da dire inoltre che Khamenei, nel momento in cui viene nominato come Guida Suprema, è costretto ad interrompere il suo percorso di studi teo-giuridici, non riuscendo a raggiungere (al contrario di Khomeini) il grado più alto della gerarchia religiosa sciita (cioè quello di Marja-e taqlid, fonte di emulazione).

 

E quindi, al contrario di Khomeini, Khamenei deve fare necessariamente i conti con un certo grado di sudditanza implicita nei confronti dei religiosi più “titolati” di lui. Come spiega lo studioso Mehdi Kalaj: «Khamenei per prendere posizione su alcune tematiche (da un punto di vista religioso, ndr) ha bisogno non solo del sostegno dei marja, ma talvolta anche del loro silenzio», senza il quale può trovarsi in difficoltà. È anche per questo motivo, insomma, che Khamenei cambia idea in poche settimane rispetto all’iniziativa di Ahmadinejad, inducendolo a fare un passo indietro.

 

Le donne con la barba

Nonostante ciò, durante i due mandati di Ahmadinejad la questione diventa mainstream, anche a livello internazionale. Il merito è anche di Offside, il film del 2006 diretto da Jafar Panahi, che racconta di un’altra iniziativa presa da alcune ragazze di Teheran proprio in occasione del citato match contro il Bahrein: quella di travestirsi da uomini per entrare allo stadio.

 

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Da quel momento in poi, anche alle partite del campionato iraniano, c’è sempre qualche ragazza che tenta di introdursi allo stadio truccata da uomo: a volte riuscendoci, e incontrando la solidarietà e il sostegno di tifosi maschi che le tengono lontane dagli occhi delle autorità presenti allo stadio, altre volte venendo scoperte e condotte in commissariato, fino all’arrivo di un genitore.

 

Una delle più famose è Zahra Khoshnavaz, soprannominata “la ragazza con la barba”, che ogni volta che entra allo stadio coi baffi finti, posta una foto su Instagram. Saranno decine, negli anni, le ragazze di volta in volta sorprese e poste in stato di fermo. Ma anche quelle che riusciranno a entrare più volte, sempre clandestinamente, alimentando una solidarietà occidentale persino superiore a quella che incontrano in Iran, dove, come mi spiega ancora Rassa, «i movimenti per i diritti delle donne considerano in qualche modo queste ragazze delle femministe di serie B, attente a questioni marginali, o che comunque non interessano a buona parte della società» (specie fuori da Teheran, nda).

 

Quando poi nel 2018 la Federazione iraniana decide di ammettere un numero di donne ben identificate allo stadio – tra cui l’allenatrice della Under 19 iraniana di calcio femminile, Katayoun Khosrovar, o l’arbitro internazionale Mahsa Ghorbani -, alla questione di genere si aggiunge quella di classe. «Prima discriminavano solo le donne, ma in occasione di Iran-Bolivia sono stata testimone di un’umiliazione persino più grande. Avevano annunciato che il match sarebbe stato aperto a tutti, così sono andata allo stadio vestita normalmente, da donna, ma una volta arrivata ai cancelli mi hanno detto che non si poteva più entrare. Mi hanno discriminata a vantaggio di una manciata di donne pre-selezionate», ha dichiarato Khoshnavaz l’anno scorso.

 

Ma se la questione delle donne allo stadio in Iran è salita in cima all’agenda dell’opinione pubblica internazionale e soprattutto della FIFA, inducendo Infantino all’ultimatum, lo si deve principalmente all’eco mediatica rispetto al tragico destino di Sahar Khodayari.

 

Tifosa 29enne dell’Esteghlal (che ha la maglia blu, motivo per cui è stata ribattezzata “blue girl”), Khodayari aveva provato ad entrare allo stadio qualche mese fa durante un match della sua squadra. Colta sul fatto dalla polizia, era stata fermata, aveva opposto delle resistenze, ed era quindi stata condotta nel carcere di Varamin, dove aveva passato tre giorni, vedendo le sue condizioni psicologiche peggiorare drasticamente, come ha raccontato la sorella. Rilasciata su cauzione, circa sei mesi dopo si è recata in tribunale per recuperare il cellulare che le era stato sequestrata. E giunta sul posto viene a sapere di essere stata condannata a sei mesi di carcere. Così, esce fuori dal tribunale e si dà fuoco, morendo quattro giorni dopo in ospedale.

 

Una storia tragica che per certi versi riflette la più ampia situazione delle donne in Iran. Le donne iraniane, specie nelle grandi città, reclamano infatti una presenza maggiore all’interno della società, che restituisca la realtà della loro faticosa emancipazione e del contributo che già forniscono al Paese. In Iran, infatti, le donne hanno un tasso di alfabetizzazione superiore al 90%, hanno partecipato attivamente alla rivoluzione, rappresentano ben il 65% degli studenti universitari – ma fanno i conti con tassi di disoccupazione doppi rispetto agli uomini -, e ricoprono posizioni di prestigio sia nelle istituzioni che nel settore privato (anche se sempre in minoranza, rispetto agli uomini). Il contesto sociale, insomma, rende ancora più chiara la frustrazione per una situazione anacronistica, fermo restando che l’uguaglianza dovrebbe essere garantita a prescindere, al di là del grado di istruzione, reddito e emancipazione sociale.

 

Per i religiosi più tradizionalisti, invece, è una questione di genere e ruoli, in base a cui le donne dovrebbero dedicarsi alla prole e alla casa. E anche per quelli più moderati, ma anche per una parte dell’establishment politico, l’allargamento dei diritti delle donne passa in un certo senso per la loro comprovata fedeltà e devozione al messaggio della rivoluzione islamica. Per questi ultimi, la questione del ruolo delle donne dipende dalla loro “militanza percepita”. Una donna devota e militante viene in qualche modo considerata più “donna” di quella che dà l’impressione di inseguire uno stile di vita occidentale in opposizione ai principi (scritti e non scritti) del regime. E quest’ultima è perennemente esposta al rischio di essere vista come una “gheir khodi”, cioè “non una dei nostri”, o ancora peggio una possibile “spia” dell’Occidente, in ossequio ad un sentimento di paranoia maturato nel Paese a partire dal colpo di stato del 1953 ai danni di Mohammad Mossadegh.

 

Anche per questo motivo, i diritti delle donne sono soggetti ad estrema volatilità, concessi e ritirati ciclicamente, talvolta utilizzati come palliativi, altre volte come chiave in negoziati politici che riguardano altri argomenti. Insomma: la strada per arrivare ad un’emancipazione completa è molto lunga. Ci possiamo consolare con il fatto che perlomeno parliamo di una strada che ci si aspetta possa condurre le donne a un’uguaglianza sempre più completa, e non quindi di un vicolo cieco.

 

Dopo il match tra Iran e Cambogia di qualche giorno fa, intervistata sul tema del pieno accesso delle donne allo stadio, la vice presidente dell’Iran con delega agli Affari femminili Masoumeh Ebtekar – famosa in Occidente come “Mary”, la ragazza che nel 1979-80 fungeva da portavoce con la stampa per conto dei rivoluzionari iraniani, che avevano sequestrato i diplomatici statunitensi durante la rivoluzione – ha dapprima rivendicato il merito del suo governo (quello del presidente Hassan Rouhani) nell’ottenimento di questo successo. Poi, a chi le chiedeva se il divieto verrà rimosso anche per le partite di Iran Pro league, ha risposto: «Piano piano».

 

 

Tags : calciodonneIranstadi

Lorenzo Forlani, nato nel 1986, giornalista, si occupa per diverse testate soprattutto di mondo islamico. Ha anche un blog, OrienteRelativo. Tifa per la Roma.

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